martedì 28 ottobre 2014

Menestrelli d'Italia: Gian Enrico Rusconi da Weimar a Renzi. "Il renzismo può apparire (ancora) una promessa o quanto meno una scommessa da affrontare":






Piccolo (nomen omen) non stupisce. Rusconi - per quello che ha scritto in passato - fa cadere gli zebedei per terra [SGA].

Intellettuali Un bersaglio sbagliato
di Gian Enrico Rusconi La Stampa 28.10.14
«Sono come pensionati davanti ad un cantiere, che guardano e dicono “Non ce la faranno mai”».
E’ l’ultima invettiva di Renzi contro gli intellettuali. 
Come pensionato-intellettuale (del genere «professore di scienze sociali») che ha assistito anche al delinearsi all’università del nuovo tipo di giovane-politico di stile renziano, dovrei sentirmi offeso da questo attacco indiscriminato. In realtà semplicemente non riconosco più il tipo strafottente eppur diligente, ironico ma sensibile che sembrava emergere. 
Ma forse Renzi ce l’ha con alcuni intellettuali-di-partito che frequentano gli ambienti da dove per altro proviene lui stesso. Non sembra vederne altri di intellettuali con la loro diversità e specificità. Il mestiere dell’intellettuale è quello di osservare, analizzare, studiare, tracciare scenari e ipotesi e calcolare le chance di successo delle iniziative in atto. Del resto tutta la quantità e la qualità di informazioni e di stimoli di cui vanno fieri i renziani non provengono forse da lavori e analisi di intellettuali-studiosi, magari nel frattempo disconosciuti? 
Nella primavera scorsa, nella fase del «primo Renzi di governo», proprio su questo giornale, ho criticato alcuni amici intellettuali di primissimo piano, che non si limitavano a prevedere il fallimento dell’esperimento renziano, ma vi vedevano seri pericoli per la democrazia. Il loro mi sembrava un fraintendimento. 
Il renzismo infatti è la culminazione di processi, da tempo individuati, che definiscono i nuovi tratti della democrazia – ci piaccia o no – ma non certificano la sua fine. Anche se viene spontaneo percepire questi tratti in termini svalutativi: dissoluzione dei contenuti ideologici, iperpersonalizzazione della politica, eccesso di carisma, inarrestabilità della «democrazia mediatica». Questa è la sfida per la nostra democrazia, non la sua fine. Ed è una sfida – anche di carattere scientifico – per molti intellettuali-studiosi.
Su questo sfondo il renzismo può apparire (ancora) una promessa o quanto meno una scommessa da affrontare. Non sono quindi (ancora) pentito di quanto ho scritto mesi fa, perché già in quel contesto Renzi veniva definito realisticamente «un grande dilettante di cui vediamo tutti i limiti». La sua aggressività e il suo anti-intellettualismo potevano essere letti come iper-reazione al fallimento di una politica di professionisti avallata anche da intellettuali. 
Sono passati pochi mesi da quella congiuntura. Sappiamo quanto ossessiva sia la tempistica nell’immaginario renziano. Adesso l’anti-intellettualismo rischia di cambiare di segno. Rischia di diventare insofferente autosufficienza alla critica anche quando questa contiene la disponibilità a collaborare all’impresa. Se tale disponibilità non è né richiesta né gradita, mi dispiace per il renzismo che perde risorse ed energie. L’intellettuale serio continuerà a fare il suo lavoro (anche in pensione) perché serve innanzitutto il cantiere-Paese o la nazione, come si dice adesso.
«Sono come pensionati davanti ad un cantiere, che guardano e dicono “Non ce la faranno mai”».
E’ l’ultima invettiva di Renzi contro gli intellettuali. 
Come pensionato-intellettuale (del genere «professore di scienze sociali») che ha assistito anche al delinearsi all’università del nuovo tipo di giovane-politico di stile renziano, dovrei sentirmi offeso da questo attacco indiscriminato. In realtà semplicemente non riconosco più il tipo strafottente eppur diligente, ironico ma sensibile che sembrava emergere. 
Ma forse Renzi ce l’ha con alcuni intellettuali-di-partito che frequentano gli ambienti da dove per altro proviene lui stesso. Non sembra vederne altri di intellettuali con la loro diversità e specificità. Il mestiere dell’intellettuale è quello di osservare, analizzare, studiare, tracciare scenari e ipotesi e calcolare le chance di successo delle iniziative in atto. Del resto tutta la quantità e la qualità di informazioni e di stimoli di cui vanno fieri i renziani non provengono forse da lavori e analisi di intellettuali-studiosi, magari nel frattempo disconosciuti? 
Nella primavera scorsa, nella fase del «primo Renzi di governo», proprio su questo giornale, ho criticato alcuni amici intellettuali di primissimo piano, che non si limitavano a prevedere il fallimento dell’esperimento renziano, ma vi vedevano seri pericoli per la democrazia. Il loro mi sembrava un fraintendimento. 
Il renzismo infatti è la culminazione di processi, da tempo individuati, che definiscono i nuovi tratti della democrazia – ci piaccia o no – ma non certificano la sua fine. Anche se viene spontaneo percepire questi tratti in termini svalutativi: dissoluzione dei contenuti ideologici, iperpersonalizzazione della politica, eccesso di carisma, inarrestabilità della «democrazia mediatica». Questa è la sfida per la nostra democrazia, non la sua fine. Ed è una sfida – anche di carattere scientifico – per molti intellettuali-studiosi.
Su questo sfondo il renzismo può apparire (ancora) una promessa o quanto meno una scommessa da affrontare. Non sono quindi (ancora) pentito di quanto ho scritto mesi fa, perché già in quel contesto Renzi veniva definito realisticamente «un grande dilettante di cui vediamo tutti i limiti». La sua aggressività e il suo anti-intellettualismo potevano essere letti come iper-reazione al fallimento di una politica di professionisti avallata anche da intellettuali. 
Sono passati pochi mesi da quella congiuntura. Sappiamo quanto ossessiva sia la tempistica nell’immaginario renziano. Adesso l’anti-intellettualismo

Purezza o riformismo le sinistre al bivio Il governo Renzi pone di fronte a una scelta
di Francesco Piccolo Corriere 28.10.14
La sinistra italiana è a un bivio. Seguire per strade sconosciute Renzi e il suo gruppo nato e cresciuto alla Leopolda, oppure restare ancorata al vecchio gruppo che sa difendere tanti diritti fondamentali ma non sa pensare niente di innovativo?
La sinistra italiana degli ultimi venti, anzi trenta anni, è stata reazionaria e ha inseguito il mito della purezza, e cioè degli ideali da difendere senza nessuno sconto. Questi due elementi sono stati fondamentali per godere in modo masochistico del terzo, e cioè la propensione alla sconfitta. Soltanto con la sconfitta la purezza è difendibile, soltanto con la sconfitta non si mettono alla prova le idee e quindi si conservano intatte, come sotto i ghiacciai. Quindi, la sconfitta è stata salvifica per questo, ed è stato il punto di identificazione di varie generazioni.
Secondo questi canoni, Renzi non è di sinistra: cerca di applicare al suo governo i caratteri del riformismo e quindi è disposto a rinunciare alla purezza; con questo intento ha avuto risposte elettorali vincenti. Un inciso però va fatto: il riformismo progressista e in collaborazione con altre forze politiche è stata l’ultima grande strategia politica di questo Paese, e l’ha immaginata Berlinguer. Fanfani ne era il più fiero oppositore ed è grazie a lui che la sinistra è stata allontanata per decenni dalla governabilità del Paese; e poi, sia altrettanto chiaro, Berlinguer non avrebbe governato con chi è dalla parte opposta del Parlamento. Quindi anche i giovani della Leopolda fanno un po’ di confusione.
Per essere di sinistra bisognerebbe essere progressisti, bisognerebbe accogliere il presente e avere voglia di prendersi la responsabilità di guidare il Paese — e questo comporta sia cadere in errore sia collaborare con chi ci sta. Di conseguenza, per essere di sinistra, bisognerebbe non essere come è stata la sinistra negli ultimi 30 anni.
Ecco cosa sta succedendo alla sinistra italiana: c’è qualcuno, al suo interno (o meglio, al suo posto), che dimostra l’inconsistenza di ciò che era diventata. E allora cosa deve fare? Deve opporre resistenza al cambiamento un po’ troppo disinvolto e un po’ troppo guascone di Renzi? O deve seguirlo sopportando gli eccessi, e casomai contribuendo a spostare la barra verso la via migliore?
La questione è se imboccare davvero la strada del riformismo; e cioè fare e non invocare riforme. Perché le risposte nella pratica sono sempre negative? Com’è possibile che ogni proposta di riforma riesce ad acquietare la sinistra e l’intero Paese solo se alla fine non se ne fa nulla? (Ed è ovvio che non stiamo entrando nel merito di ognuna, adesso).
L’Italia ha una doppia anima reazionaria. È reazionaria perché è conservatrice: una larga parte del Paese non vuole cambiare nulla (non vuole nemmeno che tutto cambi affinché nulla cambi; non vuole cambiare e basta); ed è reazionaria perché è vittima, a sinistra, del sentimento di sconfitta dei rivoluzionari. La rivoluzione non c’è stata, o è stata persa. E tutti i reduci e i postumi della rivoluzione sono diventati reazionari: poiché il cambiamento non è stato radicale, ogni forma di cambiamento è insufficiente. È questa la frase che sentiamo sempre in questi mesi per le varie proposte: insufficiente. Sentiamo anche: peggiorativa, sia chiaro. E quando è peggiorativa, bene, se ne può discutere, si può combatterla; ma quando è insufficiente, bisognerebbe mettere in atto la vera rivoluzione in questo Paese: fare riforme insufficienti. Forse, il riformismo è esattamente questo: attuare una serie di riforme che riempiano man mano la distanza tra il punto di partenza e un punto di arrivo soddisfacente. In mezzo, c’è un cambiamento che avrà un cammino sempre meno insufficiente.
La sinistra italiana ha davanti queste due strade, e deve scegliere se ritornare nella sua riserva rassicurante o se partecipare in modo attivo e propositivo alla guida del Paese, in un governo che cammina con varie stampelle fornite da altri (almeno fino alle prossime elezioni). È vero, Renzi spaventa per la sua avventatezza; ma la sinistra reazionaria spaventa (da molto tempo) per la sua mancanza di idee.
 

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