mercoledì 8 ottobre 2014

Piketty, o la redistribuzione octroyée che previene il conflitto


Come si spiega questa attenzione da parte di Repubblica? E' solo moda? O c'è il tentativo di suggerire una linea anche all'opposizione? [SGA].


La rivoluzione di Piketty: "Salario minimo e supertasse sugli stipendi dei manager"
L'autore del best seller "Il Capitale del XXI secolo" ha denunciato la crescente disuguaglianza tra ricchi e poveri. "Stiamo tornando in una situazione ottocentesca", è il suo grido di allarme e suggerisce alcune soluzioni per evitare che la divaricazione tra capitale e reddito si accentui ancora di più. "Sanzioni commerciali contro gli Stati che aiutano gli evasori"di Giuliano Balestreri e Raffaele Ricciardi  Repubblica 9.10.14 qui




Piketty: “L’austerity è stata un disastro ci vuole una politica fiscale comune”
Repubblica 9.10.14


MILANO «L’Italia ha più debito pubblico che proprietà pubblica per cui anche se il governo vendesse tutte le proprietà non sarebbe in grado di rimborsare tutto il debito pubblico». È l’opinione dell’economista francese Thomas Piketty, intervenuto ieri all’Università Bocconi di Milano per presentare insieme a Tito Boeri il suo libro “Capitalism in the 21st Century”. Quando poi gli è stato chiesto un giudizio sulla politica di austerity portata avanti in Europa negli ultimi anni le sue parole sono diventate più pesanti. «L’austerity è stata un disastro - ha detto l’economista francese -. Oggi in Europa siamo un pò tutti depressi per il debito pubblico e si prova anche vergogna, in queste condizioni non si può ridurre il debito. L’Unione europea dovrebbe avere una politica più compatta con una politica fiscale comune».



Il conflitto sul futuro che Thomas Piketty non vuol vedere
Thomas Piketty. Con fede illuminista, l’economista francese va alla ricerca dei rimedi, rimuovendo le lotte dei lavoratori
Marco Bascetta, 8.10.2014 

Il primo libro del Capi­tale di Marx si apre con una frase tanto cele­bre quanto sug­ge­stiva: «La ric­chezza delle società nelle quali pre­do­mina il modo di pro­du­zione capi­ta­li­stico si pre­senta come una ‘immane rac­colta di merci’…».
Que­sta parola, «merce», non com­pare mai, o quasi, nelle 900 pagine che Tho­mas Piketty dedica al Capi­tale nel XXI secolo. La ragione non sta solo nel desi­de­rio di uno svec­chia­mento ter­mi­no­lo­gico o nella immu­nità dalle grandi con­trap­po­si­zioni teo­ri­che e poli­ti­che del XX secolo che Piketty si auto­cer­ti­fica, ma dal fatto che, pur recando lo stesso titolo dell’opera di Marx, Il Capi­tale di Piketty non costi­tui­sce una cri­tica del capi­ta­li­smo, delle sue forme, dei suoi pro­cessi e del rap­porto sociale che isti­tui­sce, ma una dia­gnosi delle ten­denze nega­tive che ne segnano la vicenda pre­sente e ne minac­ciano la sto­ria futura.
Una dia­gnosi pre­oc­cu­pata, dun­que, e un auspi­cio: quello che la demo­cra­zia possa ripren­dere il con­trollo sullo svi­luppo del capi­ta­li­smo. Lad­dove la demo­cra­zia stessa è con­ce­pita più che come un campo di ten­sione e uno spa­zio con­flit­tuale in perenne muta­zione, come uno schema meto­do­lo­gico e un modello ideale e idea­liz­zato nella scia di un haber­ma­siano «con­fronto delle idee».
La «scom­parsa della merce» e soprat­tutto di quella par­ti­co­lare merce che è la forza di lavoro, tra­scina con sé in una oscu­rità indi­stinta le lace­ra­zioni e le furiose con­trad­di­zioni che attra­ver­sano tutti i sog­getti della vita eco­no­mica e sociale, le astra­zioni che ne can­cel­lano la vita con­creta, i dispo­si­tivi che deter­mi­nano l’impotenza o il comando. E tutto que­sto in un tempo in cui l’«immane rac­colta di merci» si è arric­chita e con­ti­nua ad arric­chirsi di ele­menti gene­ri­ca­mente umani che non rica­de­vano, almeno fino a mezzo secolo fa, nella sua sfera di com­pe­tenza.
Ricorre invece con insi­stenza, nell’opera di Piketty l’espressione, oggi in gran voga, di «capi­tale umano» che, al di là del suo uso apo­lo­ge­tico e con­so­la­to­rio, desi­gna appunto il darsi in forma di merce e (mi si per­doni l’arcaicità) come puro e sem­plice valore di scam­bio, di sog­getti pro­dut­tivi non più sepa­rati dai loro mezzi di pro­du­zione, ma in larga misura sot­to­po­sti al comando e allo sfrut­ta­mento (altra parola messa al bando) dei deten­tori di ric­chezza. Si può natu­ral­mente pen­sare, ed è il caso dell’economista fran­cese, che la virtù rego­la­tiva del mer­cato e il modello della demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva costi­tui­scano un oriz­zonte che non può essere supe­rato, né sarebbe auspi­ca­bile farlo. Ma un conto è stare den­tro que­sto oriz­zonte limi­tan­dosi a denun­ciarne i limiti e le stor­ture, un altro, appli­can­dosi alla cri­tica di que­ste forme, rile­varne le irre­so­lu­bili con­trad­di­zioni e la dimen­sione con­flit­tuale che le sot­tende, con rela­tiva aper­tura sull’ignoto. 

Tera­pie preventive 
L’argomentazione di Piketty, che ruota intorno alla cre­scita della dise­gua­glianza e alla sem­pre mag­giore con­cen­tra­zione della ric­chezza nelle mani di una ristretta fascia della popo­la­zione dei paesi più svi­lup­pati, pro­ietta in un certo senso in un futuro sem­pre rin­via­bile l’esplosione del con­flitto sociale, come con­se­guenza di uno squi­li­brio che finirà col supe­rare i livelli di guar­dia. Tra­scu­rando invece lo scon­tro imme­diato, sem­pre aspro e sem­pre pre­sente che sca­tu­ri­sce dalle forme stesse, intrin­se­ca­mente squi­li­brate, del capi­ta­li­smo, che ne con­nota i sog­getti e ne segna la con­creta vicenda sto­rica, tutt’altro che incline al pacato ragio­na­mento e alle solu­zioni razio­nali.
La com­pren­sione teo­rica di que­sto fosco futuro dovrebbe indi­care, secondo la più clas­sica fede illu­mi­ni­sta che il nostro autore fa pro­pria, i rimedi da adot­tare per pre­ve­nirlo.
Nel grande affre­sco, trac­ciato con l’aiuto di una impres­sio­nante mole di mate­riali sto­rici e sta­ti­stici dallo stu­dioso pari­gino, la cre­scita della dise­gua­glianza deter­mi­nata da un tasso di ren­di­mento del capi­tale (4\5%) assai mag­giore del tasso di cre­scita (1\1,5%, desti­nato a rima­nere tale per un lungo tempo) sem­bra essere un pro­cesso che si svolge senza sog­getti e senza volontà, sulla base di una dina­mica sto­rica alquanto disin­car­nata.
Piketty ripete innu­me­re­voli volte che non esi­stono for­mule mate­ma­ti­che in grado di dare una rispo­sta certa sui punti di equi­li­brio eco­no­mici e sociali. E che, alla fine, a inci­dere for­te­mente sul corso delle cose saranno volontà poli­ti­che e pres­sioni sociali. Ma que­ste ultime restano uno sfondo indi­stinto, celato die­tro espres­sioni gene­ri­che e vaghe, come «dia­let­tica demo­cra­tica» o «con­fronto delle idee» che non danno in nes­sun modo conto del capi­ta­li­smo come rap­porto sociale e della sua asprezza. Nelle pagine del Capi­tale nel XXI secolo ci si imbatte in nume­rosi gra­fici che, rife­ren­dosi a diversi indi­ca­tori, pre­sen­tano una forma a U. La con­cen­tra­zione della ric­chezza nelle mani della fascia più ricca, e ancor più di quella ultra­ricca, della popo­la­zione euro­pea è mas­sima all’inizio del ’900, dimi­nui­sce dra­sti­ca­mente tra il 1914 e gli anni ’50 ’60 per poi risa­lire a par­tire dagli anni ’80 e sem­pre di più fino ad oggi e nel pre­ve­di­bile futuro. (Diverso l’andamento negli Usa, ma ana­loga la ten­denza alla con­cen­tra­zione di ric­chezza nella fase più recente).
Que­sto crollo dei patri­moni, soprat­tutto in Europa tra la grande guerra e gli anni del mira­colo eco­no­mico, viene impu­tato da Piketty agli eventi «cata­stro­fici» e alle «distru­zioni» nella prima metà del ’900. Ma anche que­sti eventi sto­rici appa­iono quasi come feno­meni natu­rali, gene­rici, ogget­tivi. Non spicca per nulla, citato al mar­gine tra altri fat­tori, il peso enorme della Rivo­lu­zione bol­sce­vica, quale che sia il giu­di­zio che si voglia darne, o della scelta di forag­giare i fasci­smi per neu­tra­liz­zarne l’influenza e fre­narne l’espansione. 

L’opposizione ope­raia 
Quella sto­ria ha inciso pro­fon­da­mente sui rap­porti sociali per lun­ghi anni. Se la paura dei grandi capi­ta­li­sti di per­dere il con­trollo sulla società e la cer­tezza delle pro­prie ren­dite potesse essere ripro­dotta su un gra­fico (a U rove­sciata) vedremmo che quanto più que­sta cre­sce di fronte all’affacciarsi di sog­getti poli­tici aggres­sivi, tanto più si accen­tua la redi­stri­bu­zione di red­dito verso il basso. Se, a par­tire dagli anni ’80 le dise­gua­glianze tor­nano a cre­scere è per­ché i deten­tori di capi­tale non hanno più avuto molto da temere da una con­tro­parte for­te­mente inde­bo­lita. Tut­ta­via, nella sto­ria eco­no­mica rico­struita da Piketty, a dispetto della ripe­tu­ta­mente negata auto­no­mia della «scienza eco­no­mica», le lotte ope­raie e popo­lari non tro­vano posto alcuno. Si può anche rite­nere che lo schema della lotta di classe sia oggi supe­rato, ma non certo negare che abbia deter­mi­nato il mondo del XIX e del XX secolo in modo decisivo. 

Tasse mon­diali 
Nella sta­bi­lità poli­tica ad alto tasso di con­trollo sociale e forte ricat­ta­bi­lità del «capi­tale umano», che carat­te­rizza da tempo i paesi ric­chi, nume­rosi fat­tori, che pos­siamo defi­nire «poli­tici», con­cor­rono all’aumento delle dise­gua­glianze: dalle retri­bu­zioni stra­to­sfe­ri­che dei super­ma­na­ger, (desti­nate pre­sto ad accu­mu­larsi e tra­sfor­marsi in patri­moni tra­smis­si­bili per via ere­di­ta­ria) del tutto irri­con­du­ci­bili a un cal­colo della pro­dut­ti­vità mar­gi­nale, e dun­que impu­ta­bili a ren­dite di posi­zione e poteri oli­gar­chici, alla dimi­nu­zione della tas­sa­zione sui grandi patri­moni dovuta alla con­cor­renza fiscale tra gli stati e all’influenza poli­tica degli oli­gar­chi. Ine­so­ra­bil­mente la for­bice tra i ric­chi da una parte, il ceto medio e i poveri dall’altra, si allarga.
È una ten­denza lar­ga­mente per­ce­pita che il ter­mo­me­tro storico-economico alle­stito da Pin­ketty dota di un fon­da­mento ogget­tivo. Non è un lavoro di poco conto in un con­te­sto poli­tico e politico-accademico molto attento alle ragioni della ren­dita e della ric­chezza pri­vata. Nel quale le posi­zioni oscil­lano tra il negare che, alla lunga, cre­sca la dise­gua­glianza e la mito­lo­gia secondo cui la cre­scita delle dise­gua­glianze, effet­ti­va­mente in atto, reche­rebbe in ogni caso un incre­mento del benes­sere gene­rale.
L’antidoto che l’autore pro­pone in chiu­sura del volume è una tas­sa­zione pla­ne­ta­ria, pro­gres­siva e annuale sul capi­tale (inteso in tutte le sue com­po­nenti immo­bi­liari, fon­dia­rie, azio­na­rie, finan­zia­rie) con lo scopo di riav­vi­ci­nare il tasso di ren­di­mento del capi­tale a quello di cre­scita eco­no­mica e arre­stare così la pro­gres­sione inde­fi­nita della disu­gua­glianza. Pin­ketty non si nasconde la dif­fi­coltà di un simile obiet­tivo, rite­nendo più rea­li­sti­che misure inter­me­die e par­ziali che muo­vano però in quella dire­zione. Ma su quali gambe dovreb­bero mar­ciare? E cosa ci garan­ti­sce che il fra­gile con­nu­bio tra capi­ta­li­smo e demo­cra­zia non si sia irri­me­dia­bil­mente esaurito?




La ricchezza di Thomas Piketty 

Thomas Piketty. "Il Capitale del XXI secolo" è una inconfutabile fotografia del capitalismo contemporaneo. Il saggio si concentra però sui sintomi e non sulle cause dell’aumento delle diseguaglianze sociali. Inoltre è assente l’analisi del ruolo politico del debito nella polarizzazione della ricchezza a scapito del lavoro vivo e della cooperazione sociale
Christian Marazzi, il Manifesto 8.10.2014 


Lo scorso mer­co­ledì 1 otto­bre Mar­tin Wolf ha pub­bli­cato sul Finan­cial Times un arti­colo sulle ragioni che fanno dell’ineguaglianza un vero e pro­prio freno all’economia. Per dimo­strare l’impatto eco­no­mico delle dise­gua­glianze nella distri­bu­zione del red­dito e del capi­tale, in par­ti­co­lare una domanda debole e la regres­sione dei livelli di edu­ca­zione, Wolf si basa su due studi, uno di Stan­dard & Poor’s e l’altro di Mor­gan Stan­ley, due isti­tu­zioni che dif­fi­cil­mente pos­sono con­si­de­rarsi di sini­stra. Il qua­dro che emerge da que­ste ana­lisi, che si rife­ri­scono agli Stati Uniti a par­tire dagli anni Novanta, è tale da por­tare l’autore a con­clu­dere che in un’economia basata sul debito i costi mag­giori dell’aumento delle dise­gua­glianze eco­no­mi­che e for­ma­tive sono l’erosione dell’ideale repub­bli­cano della «cit­ta­di­nanza con­di­visa», in altre parole il rischio di defla­gra­zione eco­no­mica e sociale del capi­ta­li­smo mede­simo. Curioso è il fatto che que­ste con­si­de­ra­zioni ven­gano fatte sulle pagine dello stesso quo­ti­diano finan­zia­rio­che, in occa­sione della pub­bli­ca­zione inglese del libro di Tho­mas Piketty, Il capi­tale nel XXI secolo (oggi in ita­liano gra­zie ai tipi della Bom­piani, tra­du­zione di Ser­gio Arecco, pp. 928, euro 22), aveva cer­cato di smon­tare in modo grot­te­sco una delle tesi cen­trali del libro, la ten­denza all’aumento verso l’alto della con­cen­tra­zione della ric­chezza. Basti que­sto per sot­to­li­neare l’importanza dello stu­dio di Piketty il cui merito prin­ci­pale, oltre al ter­re­moto sca­te­nato den­tro l’accademia ege­mo­niz­zata dal pen­siero neo­li­be­rale, con­si­ste nell’aver descritto, «con pre­ci­sione atroce e dif­fi­cil­mente con­fu­ta­bile», come ha scritto David Har­vey (Riflet­tendo su ’Capi­tal’ di Piketty, in com​mo​n​ware​.org), l’evoluzione nel corso degli ultimi due secoli della disu­gua­glianza sociale rispetto sia alla ric­chezza sia al reddito. 

La con­trad­di­zione centrale 
Dalla sua pub­bli­ca­zione in Fran­cia nel 2013, il libro di Piketty è stato più volte recen­sito, ma è comun­que utile rias­su­mere in modo sin­te­tico i risul­tati prin­ci­pali del suo stu­dio. In par­ti­co­lare la con­clu­sione teo­rica secondo cui, quando il tasso di ren­di­mento del capi­tale ® supera il sag­gio di cre­scita del red­dito (g), le disu­gua­glianze aumen­tano fino a risul­tare «incom­pa­ti­bili con i valori meri­to­cra­tici e i prin­cipi di giu­sti­zia sociale su cui si fon­dano le moderne società demo­cra­ti­che». Quando il «dive­nire ren­tier» del capi­tale a sca­pito di coloro che non pos­sie­dono altro che il pro­prio lavoro, aggra­vato dalla suc­ces­sione ere­di­ta­ria della ric­chezza accu­mu­lata, ripro­duce il capi­tale più velo­ce­mente dell’aumento della pro­du­zione, «il pas­sato divora il futuro», e la pola­riz­za­zione della ric­chezza e del red­dito cre­sce a dismi­sura. Sull’arco di due­cento anni que­sta è stata la «regola», salvo nel periodo tra le due guerre mon­diali che, a fronte dell’Urss come com­pe­ti­tor, per­mi­sero per i trent’anni «glo­riosi» del secondo dopo­guerra l’introduzione di poli­ti­che di wel­fare state e di redi­stri­bu­zione della ric­chezza. Nel periodo tra il 1920 e il 1980, il ren­di­mento del capi­tale ha infatti cono­sciuto una rela­tiva dimi­nu­zione (al 2,5/3,5%), salvo poi rista­bi­lirsi attorno al 4–5% a par­tire dal 1980, lo stesso tasso del periodo tra il 1870 e il 1910, con una tasso medio di cre­scita del red­dito pari a 1–1,5%.
Ciò che resta opaco nella tesi cen­trale dell’analisi di Piketty è però pro­prio la causa della dise­gua­glianza tra ren­di­mento del capi­tale e cre­scita del red­dito. Lo dimo­stra bene Gior­gio Gat­tei in un suo arti­colo, Quel capi­tale peri­co­loso: tutte le for­mule di Piketty (in «Eco­no­mia e poli­tica», rivi­sta online di cri­tica della poli­tica eco­no­mica): «la per­cen­tuale di red­dito che va al capi­tale aumenta se cre­sce il tasso di ren­di­mento e/o la pro­pen­sione al rispar­mio, men­tre dimi­nui­sce se aumenta il sag­gio di cre­scita del red­dito». Si tratta di una for­mula tau­to­lo­gica che per­mette di descri­vere i sin­tomi di un pro­cesso assai più pro­fondo e com­plesso. Oltre­tutto, il feno­meno descritto da Piketty non può che essere tem­po­ra­neo per­ché la parte dei bene­fici del capi­tale non può aumen­tare linear­mente a dismi­sura, con la metà e oltre del red­dito pro­dotto che va a ren­di­mento del capi­tale, come Piketty esem­pli­fica per dimo­strare quel che potrebbe acca­dere entro la fine del XXI secolo. Dato che i lavo­ra­tori non vivono di aria, esi­ste un limite estremo di remu­ne­ra­zione per­cen­tuale del capi­tale, ed è un limite sto­ri­ca­mente deter­mi­nato.
Certo, le guerre e le rivo­lu­zioni sono ser­vite, e ser­vono tut­tora, per sva­lo­riz­zare il capi­tale e in tal modo ridurre spe­re­qua­zioni dei red­diti alla lunga insop­por­ta­bili. Ma c’è qual­cosa di ancor più «costi­tu­tivo» che spiega l’origine della dise­gua­glianza tra ren­di­mento del capi­tale e ren­di­mento del red­dito, ed è il ruolo dell’accumulazione orginaria. 

Con­di­vi­sione in salsa liberista 
All’origine della pro­prietà pri­vata e dell’accumulazione del capi­tale si trova l’appropriazione vio­lenta dei com­mons, una appropriazione-recinsione del comune, come ha spie­gato magi­stral­mente San­dro Mez­za­dra (si veda il suo ultimo libro, scritto con Brett Neil­son, Con­fini e fron­tiere. La mol­ti­pli­ca­zione del lavoro nel mondo glo­bale, il Mulino), che si ripete nel tempo per­ché la ten­denza del capi­tale è quella di recin­tare di volta in volta le forme della coo­pe­ra­zione sociale nella sfera della pro­du­zione e in quella della riproduzione-conservazione della vita. Il dive­nire ren­dita del capi­tale descritto da Piketty è un pro­cesso sto­rico di lotta tra appro­pria­zione del comune, estra­zione di valore-ricchezza e pro­du­zione sociale di nuovi spazi di coo­pe­ra­zione e con­di­vi­sione. È que­sto che fa del capi­tale un rap­porto sociale, una «pro­ces­sua­lità rela­zio­nale» (David Har­vey) di crea­zione arti­fi­ciale di scar­sità (ad esem­pio del lavoro, ma anche dei beni imma­te­riali) tale da per­met­tere la rea­liz­za­zione di ren­dite cre­scenti. In assenza di que­sta defi­ni­zione del capi­tale, lo stu­dio di Piketty rischia di limi­tarsi ad una «sto­ria del patri­mo­nio», indi­pen­den­te­mente dall’uso capi­ta­li­stico di que­sto stesso patri­mo­nio.
Ha quindi ragione Rus­sell Jacoby, nel suo Il prag­ma­ti­smo dell’utopia (apparso su Le Monde Diplo­ma­ti­que e ripreso da il mani­fe­sto, 22 ago­sto 2014), a met­tere in evi­denza l’assenza del lavoro nello stu­dio di Piketty, il fatto che il capi­tale «ha biso­gno della forza lavoro e al tempo stesso cerca di farne a meno», creando una popo­la­zione ope­raia ecce­dente rela­tiva. Non solo il lavoro, le sue tra­sfor­ma­zioni nel tempo sto­rico, non sem­bra inte­res­sare l’economista fran­cese indif­fe­rente ai movi­menti sociali, «vac­ci­nato a vita con­tro i discorsi anti­ca­pi­ta­li­stici con­ven­zio­nali e triti» (Piketty). Nella sua defi­ni­zione di capi­tale (denaro, ter­reni, immo­bili, fab­bri­che e mac­chi­nari, attivi mobi­liari) è assente il capi­tale cogni­tivo umano, quel capi­tale costi­tuito da saperi, cono­scenze, rela­zioni, coo­pe­ra­zioni, che per­mette di spie­gare la con­cen­tra­zione geo­gra­fica della ric­chezza ma anche il suo aumento e la sua dif­fu­sione come fat­tori di cre­scita. Un fat­tore cru­ciale, che svela la con­trad­di­zione tra ren­di­menti cre­scenti e con­cor­renza pura di matrice neo­clas­sica (David Warsh, La cono­scenza e la ric­chezza delle nazioni. Una sto­ria dell’indagine eco­no­mica, Fel­tri­nelli). 

Il debito e le disuguaglianze 
Ren­di­menti cre­scenti che non sareb­bero pos­si­bili senza il denaro, senza l’accesso al cre­dito ban­ca­rio e le dise­gua­glianze gene­rate dall’eco­no­mia del debito, come dimo­stra l’economista tede­sco Daniel Stel­ter (Die Schul­den im 21. Jah­rhun­dert, Was ist drin, was ist dran und was fehlt in Tho­mas Piket­tys DAS KAPITAL, Frank­fur­ter All­ge­meine Buch). Qui dav­vero si tocca una delle mag­giori debo­lezze dell’opera di Piketty, l’assenza totale dell’analisi del debito come fat­tore auto­nomo e in sé deci­sivo nell’aumento delle disu­gua­glianze nel corso degli ultimi trent’anni. Nell’analisi di Stel­ter, le disu­gua­glianze del patri­mo­nio pro­ven­gono dalla poli­tica mone­ta­ria a bassi tassi d’interesse orche­strata dalle ban­che cen­trali e dall’aumento dei debiti. L’attacco siste­ma­tico al sala­rio, con l’aggiunta della caduta del muro di Ber­lino e l’apertura della Cina al capi­ta­li­smo, ha per­messo la cre­scita eco­no­mica gra­zie all’indebitamento pri­vato. I debiti, non solo negli Usa, sono schiz­zati verso l’alto per soste­nere l’aumento dei red­diti e in Europa sono aumen­tati i tra­sfe­ri­menti sociali rela­ti­va­mente alla dimi­nu­zione del pre­lievo fiscale sugli alti red­diti e sul capi­tale. Il debito è il pro­blema chiave per­ché il debito con­cen­tra il rischio su quelli che meno pos­sono soste­nerlo, e quando il patri­mo­nio in cui si è inve­stito (come nel caso dei mutui sub­prime) si sva­luta, aumenta la con­cen­tra­zione delle per­dite e la disu­gua­glianza di ric­chezza. «Il debito intro­duce una non linea­rità nel sistema eco­no­mico, che i modelli key­ne­siani tra­scu­rano» (Atif Mian Amir Sufi, House of Debt. How They (and You) Cau­sed the Great Reces­sion, and How We Can Pre­vent It from Hap­pe­ning again, The Uni­ver­sity of Chi­cago Press).
Forse il vero merito de Il Capi­tale di Piketty risiede nel costrin­gere un po’ tutti a pen­sare mar­xia­na­mente, a cer­care in ciò che egli non dice ciò che noi vogliamo vedere per lottare.

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