Come si spiega questa attenzione da parte di Repubblica? E' solo moda? O c'è il tentativo di suggerire una linea anche all'opposizione? [SGA].
La rivoluzione di Piketty: "Salario minimo e supertasse sugli stipendi dei manager"
L'autore
del best seller "Il Capitale del XXI secolo" ha denunciato la crescente
disuguaglianza tra ricchi e poveri. "Stiamo tornando in una situazione
ottocentesca", è il suo grido di allarme e suggerisce alcune soluzioni
per evitare che la divaricazione tra capitale e reddito si accentui
ancora di più. "Sanzioni commerciali contro gli Stati che aiutano gli
evasori"di Giuliano Balestreri e Raffaele Ricciardi Repubblica 9.10.14
qui
Piketty: “L’austerity è stata un disastro ci vuole una politica fiscale comune”
Repubblica 9.10.14
MILANO
«L’Italia ha più debito pubblico che proprietà pubblica per cui anche
se il governo vendesse tutte le proprietà non sarebbe in grado di
rimborsare tutto il debito pubblico». È l’opinione dell’economista
francese Thomas Piketty, intervenuto ieri all’Università Bocconi di
Milano per presentare insieme a Tito Boeri il suo libro “Capitalism in
the 21st Century”. Quando poi gli è stato chiesto un giudizio sulla
politica di austerity portata avanti in Europa negli ultimi anni le sue
parole sono diventate più pesanti. «L’austerity è stata un disastro - ha
detto l’economista francese -. Oggi in Europa siamo un pò tutti
depressi per il debito pubblico e si prova anche vergogna, in queste
condizioni non si può ridurre il debito. L’Unione europea dovrebbe avere
una politica più compatta con una politica fiscale comune».
Il conflitto sul futuro che Thomas Piketty non vuol vedere
Thomas Piketty. Con fede illuminista, l’economista francese va alla ricerca dei rimedi, rimuovendo le lotte dei lavoratori
Marco Bascetta, 8.10.2014
Il primo libro del Capitale di Marx si apre con una frase tanto celebre quanto suggestiva: «La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una ‘immane raccolta di merci’…».
Questa parola, «merce», non compare mai, o quasi, nelle 900 pagine che Thomas Piketty dedica al Capitale nel XXI secolo. La ragione non sta solo nel desiderio di uno svecchiamento terminologico o nella immunità dalle grandi contrapposizioni teoriche e politiche del XX secolo che Piketty si autocertifica, ma dal fatto che, pur recando lo stesso titolo dell’opera di Marx, Il Capitale di Piketty non costituisce una critica del capitalismo, delle sue forme, dei suoi processi e del rapporto sociale che istituisce, ma una diagnosi delle tendenze negative che ne segnano la vicenda presente e ne minacciano la storia futura.
Una diagnosi preoccupata, dunque, e un auspicio: quello che la democrazia possa riprendere il controllo sullo sviluppo del capitalismo. Laddove la democrazia stessa è concepita più che come un campo di tensione e uno spazio conflittuale in perenne mutazione, come uno schema metodologico e un modello ideale e idealizzato nella scia di un habermasiano «confronto delle idee».
La «scomparsa della merce» e soprattutto di quella particolare merce che è la forza di lavoro, trascina con sé in una oscurità indistinta le lacerazioni e le furiose contraddizioni che attraversano tutti i soggetti della vita economica e sociale, le astrazioni che ne cancellano la vita concreta, i dispositivi che determinano l’impotenza o il comando. E tutto questo in un tempo in cui l’«immane raccolta di merci» si è arricchita e continua ad arricchirsi di elementi genericamente umani che non ricadevano, almeno fino a mezzo secolo fa, nella sua sfera di competenza.
Ricorre invece con insistenza, nell’opera di Piketty l’espressione, oggi in gran voga, di «capitale umano» che, al di là del suo uso apologetico e consolatorio, designa appunto il darsi in forma di merce e (mi si perdoni l’arcaicità) come puro e semplice valore di scambio, di soggetti produttivi non più separati dai loro mezzi di produzione, ma in larga misura sottoposti al comando e allo sfruttamento (altra parola messa al bando) dei detentori di ricchezza. Si può naturalmente pensare, ed è il caso dell’economista francese, che la virtù regolativa del mercato e il modello della democrazia rappresentativa costituiscano un orizzonte che non può essere superato, né sarebbe auspicabile farlo. Ma un conto è stare dentro questo orizzonte limitandosi a denunciarne i limiti e le storture, un altro, applicandosi alla critica di queste forme, rilevarne le irresolubili contraddizioni e la dimensione conflittuale che le sottende, con relativa apertura sull’ignoto.
Terapie preventive
L’argomentazione di Piketty, che ruota intorno alla crescita della diseguaglianza e alla sempre maggiore concentrazione della ricchezza nelle mani di una ristretta fascia della popolazione dei paesi più sviluppati, proietta in un certo senso in un futuro sempre rinviabile l’esplosione del conflitto sociale, come conseguenza di uno squilibrio che finirà col superare i livelli di guardia. Trascurando invece lo scontro immediato, sempre aspro e sempre presente che scaturisce dalle forme stesse, intrinsecamente squilibrate, del capitalismo, che ne connota i soggetti e ne segna la concreta vicenda storica, tutt’altro che incline al pacato ragionamento e alle soluzioni razionali.
La comprensione teorica di questo fosco futuro dovrebbe indicare, secondo la più classica fede illuminista che il nostro autore fa propria, i rimedi da adottare per prevenirlo.
Nel grande affresco, tracciato con l’aiuto di una impressionante mole di materiali storici e statistici dallo studioso parigino, la crescita della diseguaglianza determinata da un tasso di rendimento del capitale (4\5%) assai maggiore del tasso di crescita (1\1,5%, destinato a rimanere tale per un lungo tempo) sembra essere un processo che si svolge senza soggetti e senza volontà, sulla base di una dinamica storica alquanto disincarnata.
Piketty ripete innumerevoli volte che non esistono formule matematiche in grado di dare una risposta certa sui punti di equilibrio economici e sociali. E che, alla fine, a incidere fortemente sul corso delle cose saranno volontà politiche e pressioni sociali. Ma queste ultime restano uno sfondo indistinto, celato dietro espressioni generiche e vaghe, come «dialettica democratica» o «confronto delle idee» che non danno in nessun modo conto del capitalismo come rapporto sociale e della sua asprezza. Nelle pagine del Capitale nel XXI secolo ci si imbatte in numerosi grafici che, riferendosi a diversi indicatori, presentano una forma a U. La concentrazione della ricchezza nelle mani della fascia più ricca, e ancor più di quella ultraricca, della popolazione europea è massima all’inizio del ’900, diminuisce drasticamente tra il 1914 e gli anni ’50 ’60 per poi risalire a partire dagli anni ’80 e sempre di più fino ad oggi e nel prevedibile futuro. (Diverso l’andamento negli Usa, ma analoga la tendenza alla concentrazione di ricchezza nella fase più recente).
Questo crollo dei patrimoni, soprattutto in Europa tra la grande guerra e gli anni del miracolo economico, viene imputato da Piketty agli eventi «catastrofici» e alle «distruzioni» nella prima metà del ’900. Ma anche questi eventi storici appaiono quasi come fenomeni naturali, generici, oggettivi. Non spicca per nulla, citato al margine tra altri fattori, il peso enorme della Rivoluzione bolscevica, quale che sia il giudizio che si voglia darne, o della scelta di foraggiare i fascismi per neutralizzarne l’influenza e frenarne l’espansione.
L’opposizione operaia
Quella storia ha inciso profondamente sui rapporti sociali per lunghi anni. Se la paura dei grandi capitalisti di perdere il controllo sulla società e la certezza delle proprie rendite potesse essere riprodotta su un grafico (a U rovesciata) vedremmo che quanto più questa cresce di fronte all’affacciarsi di soggetti politici aggressivi, tanto più si accentua la redistribuzione di reddito verso il basso. Se, a partire dagli anni ’80 le diseguaglianze tornano a crescere è perché i detentori di capitale non hanno più avuto molto da temere da una controparte fortemente indebolita. Tuttavia, nella storia economica ricostruita da Piketty, a dispetto della ripetutamente negata autonomia della «scienza economica», le lotte operaie e popolari non trovano posto alcuno. Si può anche ritenere che lo schema della lotta di classe sia oggi superato, ma non certo negare che abbia determinato il mondo del XIX e del XX secolo in modo decisivo.
Tasse mondiali
Nella stabilità politica ad alto tasso di controllo sociale e forte ricattabilità del «capitale umano», che caratterizza da tempo i paesi ricchi, numerosi fattori, che possiamo definire «politici», concorrono all’aumento delle diseguaglianze: dalle retribuzioni stratosferiche dei supermanager, (destinate presto ad accumularsi e trasformarsi in patrimoni trasmissibili per via ereditaria) del tutto irriconducibili a un calcolo della produttività marginale, e dunque imputabili a rendite di posizione e poteri oligarchici, alla diminuzione della tassazione sui grandi patrimoni dovuta alla concorrenza fiscale tra gli stati e all’influenza politica degli oligarchi. Inesorabilmente la forbice tra i ricchi da una parte, il ceto medio e i poveri dall’altra, si allarga.
È una tendenza largamente percepita che il termometro storico-economico allestito da Pinketty dota di un fondamento oggettivo. Non è un lavoro di poco conto in un contesto politico e politico-accademico molto attento alle ragioni della rendita e della ricchezza privata. Nel quale le posizioni oscillano tra il negare che, alla lunga, cresca la diseguaglianza e la mitologia secondo cui la crescita delle diseguaglianze, effettivamente in atto, recherebbe in ogni caso un incremento del benessere generale.
L’antidoto che l’autore propone in chiusura del volume è una tassazione planetaria, progressiva e annuale sul capitale (inteso in tutte le sue componenti immobiliari, fondiarie, azionarie, finanziarie) con lo scopo di riavvicinare il tasso di rendimento del capitale a quello di crescita economica e arrestare così la progressione indefinita della disuguaglianza. Pinketty non si nasconde la difficoltà di un simile obiettivo, ritenendo più realistiche misure intermedie e parziali che muovano però in quella direzione. Ma su quali gambe dovrebbero marciare? E cosa ci garantisce che il fragile connubio tra capitalismo e democrazia non si sia irrimediabilmente esaurito?
La ricchezza di Thomas Piketty
Thomas Piketty. "Il Capitale del XXI secolo" è una inconfutabile fotografia del capitalismo contemporaneo. Il saggio si concentra però sui sintomi e non sulle cause dell’aumento delle diseguaglianze sociali. Inoltre è assente l’analisi del ruolo politico del debito nella polarizzazione della ricchezza a scapito del lavoro vivo e della cooperazione sociale
Christian Marazzi, il Manifesto 8.10.2014
Lo scorso mercoledì 1 ottobre Martin Wolf ha pubblicato sul Financial Times un articolo sulle ragioni che fanno dell’ineguaglianza un vero e proprio freno all’economia. Per dimostrare l’impatto economico delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito e del capitale, in particolare una domanda debole e la regressione dei livelli di educazione, Wolf si basa su due studi, uno di Standard & Poor’s e l’altro di Morgan Stanley, due istituzioni che difficilmente possono considerarsi di sinistra. Il quadro che emerge da queste analisi, che si riferiscono agli Stati Uniti a partire dagli anni Novanta, è tale da portare l’autore a concludere che in un’economia basata sul debito i costi maggiori dell’aumento delle diseguaglianze economiche e formative sono l’erosione dell’ideale repubblicano della «cittadinanza condivisa», in altre parole il rischio di deflagrazione economica e sociale del capitalismo medesimo. Curioso è il fatto che queste considerazioni vengano fatte sulle pagine dello stesso quotidiano finanziarioche, in occasione della pubblicazione inglese del libro di Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo (oggi in italiano grazie ai tipi della Bompiani, traduzione di Sergio Arecco, pp. 928, euro 22), aveva cercato di smontare in modo grottesco una delle tesi centrali del libro, la tendenza all’aumento verso l’alto della concentrazione della ricchezza. Basti questo per sottolineare l’importanza dello studio di Piketty il cui merito principale, oltre al terremoto scatenato dentro l’accademia egemonizzata dal pensiero neoliberale, consiste nell’aver descritto, «con precisione atroce e difficilmente confutabile», come ha scritto David Harvey (Riflettendo su ’Capital’ di Piketty, in commonware.org), l’evoluzione nel corso degli ultimi due secoli della disuguaglianza sociale rispetto sia alla ricchezza sia al reddito.
La contraddizione centrale
Dalla sua pubblicazione in Francia nel 2013, il libro di Piketty è stato più volte recensito, ma è comunque utile riassumere in modo sintetico i risultati principali del suo studio. In particolare la conclusione teorica secondo cui, quando il tasso di rendimento del capitale ® supera il saggio di crescita del reddito (g), le disuguaglianze aumentano fino a risultare «incompatibili con i valori meritocratici e i principi di giustizia sociale su cui si fondano le moderne società democratiche». Quando il «divenire rentier» del capitale a scapito di coloro che non possiedono altro che il proprio lavoro, aggravato dalla successione ereditaria della ricchezza accumulata, riproduce il capitale più velocemente dell’aumento della produzione, «il passato divora il futuro», e la polarizzazione della ricchezza e del reddito cresce a dismisura. Sull’arco di duecento anni questa è stata la «regola», salvo nel periodo tra le due guerre mondiali che, a fronte dell’Urss come competitor, permisero per i trent’anni «gloriosi» del secondo dopoguerra l’introduzione di politiche di welfare state e di redistribuzione della ricchezza. Nel periodo tra il 1920 e il 1980, il rendimento del capitale ha infatti conosciuto una relativa diminuzione (al 2,5/3,5%), salvo poi ristabilirsi attorno al 4–5% a partire dal 1980, lo stesso tasso del periodo tra il 1870 e il 1910, con una tasso medio di crescita del reddito pari a 1–1,5%.
Ciò che resta opaco nella tesi centrale dell’analisi di Piketty è però proprio la causa della diseguaglianza tra rendimento del capitale e crescita del reddito. Lo dimostra bene Giorgio Gattei in un suo articolo, Quel capitale pericoloso: tutte le formule di Piketty (in «Economia e politica», rivista online di critica della politica economica): «la percentuale di reddito che va al capitale aumenta se cresce il tasso di rendimento e/o la propensione al risparmio, mentre diminuisce se aumenta il saggio di crescita del reddito». Si tratta di una formula tautologica che permette di descrivere i sintomi di un processo assai più profondo e complesso. Oltretutto, il fenomeno descritto da Piketty non può che essere temporaneo perché la parte dei benefici del capitale non può aumentare linearmente a dismisura, con la metà e oltre del reddito prodotto che va a rendimento del capitale, come Piketty esemplifica per dimostrare quel che potrebbe accadere entro la fine del XXI secolo. Dato che i lavoratori non vivono di aria, esiste un limite estremo di remunerazione percentuale del capitale, ed è un limite storicamente determinato.
Certo, le guerre e le rivoluzioni sono servite, e servono tuttora, per svalorizzare il capitale e in tal modo ridurre sperequazioni dei redditi alla lunga insopportabili. Ma c’è qualcosa di ancor più «costitutivo» che spiega l’origine della diseguaglianza tra rendimento del capitale e rendimento del reddito, ed è il ruolo dell’accumulazione orginaria.
Condivisione in salsa liberista
All’origine della proprietà privata e dell’accumulazione del capitale si trova l’appropriazione violenta dei commons, una appropriazione-recinsione del comune, come ha spiegato magistralmente Sandro Mezzadra (si veda il suo ultimo libro, scritto con Brett Neilson, Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale, il Mulino), che si ripete nel tempo perché la tendenza del capitale è quella di recintare di volta in volta le forme della cooperazione sociale nella sfera della produzione e in quella della riproduzione-conservazione della vita. Il divenire rendita del capitale descritto da Piketty è un processo storico di lotta tra appropriazione del comune, estrazione di valore-ricchezza e produzione sociale di nuovi spazi di cooperazione e condivisione. È questo che fa del capitale un rapporto sociale, una «processualità relazionale» (David Harvey) di creazione artificiale di scarsità (ad esempio del lavoro, ma anche dei beni immateriali) tale da permettere la realizzazione di rendite crescenti. In assenza di questa definizione del capitale, lo studio di Piketty rischia di limitarsi ad una «storia del patrimonio», indipendentemente dall’uso capitalistico di questo stesso patrimonio.
Ha quindi ragione Russell Jacoby, nel suo Il pragmatismo dell’utopia (apparso su Le Monde Diplomatique e ripreso da il manifesto, 22 agosto 2014), a mettere in evidenza l’assenza del lavoro nello studio di Piketty, il fatto che il capitale «ha bisogno della forza lavoro e al tempo stesso cerca di farne a meno», creando una popolazione operaia eccedente relativa. Non solo il lavoro, le sue trasformazioni nel tempo storico, non sembra interessare l’economista francese indifferente ai movimenti sociali, «vaccinato a vita contro i discorsi anticapitalistici convenzionali e triti» (Piketty). Nella sua definizione di capitale (denaro, terreni, immobili, fabbriche e macchinari, attivi mobiliari) è assente il capitale cognitivo umano, quel capitale costituito da saperi, conoscenze, relazioni, cooperazioni, che permette di spiegare la concentrazione geografica della ricchezza ma anche il suo aumento e la sua diffusione come fattori di crescita. Un fattore cruciale, che svela la contraddizione tra rendimenti crescenti e concorrenza pura di matrice neoclassica (David Warsh, La conoscenza e la ricchezza delle nazioni. Una storia dell’indagine economica, Feltrinelli).
Il debito e le disuguaglianze
Rendimenti crescenti che non sarebbero possibili senza il denaro, senza l’accesso al credito bancario e le diseguaglianze generate dall’economia del debito, come dimostra l’economista tedesco Daniel Stelter (Die Schulden im 21. Jahrhundert, Was ist drin, was ist dran und was fehlt in Thomas Pikettys DAS KAPITAL, Frankfurter Allgemeine Buch). Qui davvero si tocca una delle maggiori debolezze dell’opera di Piketty, l’assenza totale dell’analisi del debito come fattore autonomo e in sé decisivo nell’aumento delle disuguaglianze nel corso degli ultimi trent’anni. Nell’analisi di Stelter, le disuguaglianze del patrimonio provengono dalla politica monetaria a bassi tassi d’interesse orchestrata dalle banche centrali e dall’aumento dei debiti. L’attacco sistematico al salario, con l’aggiunta della caduta del muro di Berlino e l’apertura della Cina al capitalismo, ha permesso la crescita economica grazie all’indebitamento privato. I debiti, non solo negli Usa, sono schizzati verso l’alto per sostenere l’aumento dei redditi e in Europa sono aumentati i trasferimenti sociali relativamente alla diminuzione del prelievo fiscale sugli alti redditi e sul capitale. Il debito è il problema chiave perché il debito concentra il rischio su quelli che meno possono sostenerlo, e quando il patrimonio in cui si è investito (come nel caso dei mutui subprime) si svaluta, aumenta la concentrazione delle perdite e la disuguaglianza di ricchezza. «Il debito introduce una non linearità nel sistema economico, che i modelli keynesiani trascurano» (Atif Mian Amir Sufi, House of Debt. How They (and You) Caused the Great Recession, and How We Can Prevent It from Happening again, The University of Chicago Press).
Forse il vero merito de Il Capitale di Piketty risiede nel costringere un po’ tutti a pensare marxianamente, a cercare in ciò che egli non dice ciò che noi vogliamo vedere per lottare.
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