mercoledì 1 ottobre 2014
Sui concetti di genocidio, terrorismo, tortura...
La guerra globale delle parole
di Roberto Toscano La Stampa 1.10.14
La
politica, si sa, è fatta anche – e talora sembra soprattutto – di
parole. Parole usate spesso in modo strumentale, illogico, incoerente,
con l’unica finalità non di definire ma di mobilitare consenso,
squalificare l’avversario, confondere le acque per poter meglio pescare
nel torbido. Viene in mente il dialogo di Alice con Humpty Dumpty:
«Quando uso una parola – dice Humpty Dumpty – la parola significa quello
che io voglio che significhi, né più né meno». Quando Alice gli
ribatte: «Il punto è se puoi dare alle parole tutti i significati che
vuoi», Humpty Dumpty replica: «Il punto è chi comanda. Tutto qui».
Che
la cosa sia grave lo vediamo prendendo come esempio le forme più
disumane della violenza organizzata: genocidio, terrorismo, tortura.
Cominciamo
dal genocidio, certo il più atroce fra i crimini. Una definizione
esiste, e la troviamo nella Convenzione del 1948 sulla Prevenzione e
Punizione del Genocidio: «Atti commessi nell’intento di distruggere in
quanto tale, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o
religioso».
È evidente che non possiamo aspettare di trovarci di
fronte a un’altra Shoah per ritenere applicabile la Convenzione del
1948, ma non sembra nemmeno da accogliere un’estensione arbitraria del
concetto: capita un giorno sì e uno no di sentire parlare di genocidio
di fronte ai più svariati episodi di violenza, che magari andrebbero
definiti come crimini di guerra o crimini contro l’umanità. Il risultato
è la banalizzazione di un concetto che finisce per svalutarlo e
renderlo un epiteto invece di una precisa definizione da preservare in
tutto il suo valore legale, politico e morale.
Il criterio
fondamentale, più che sul numero delle vittime, dovrebbe riferirsi
all’intento. È qui che risulta possibile, ad esempio, distinguere fra
genocidio e un altro crimine, la pulizia etnica. Il genocida non vuole
che la sua vittima fugga, la vuole eliminare: i nazisti che catturavano
gli ebrei che cercavano di fuggire, i miliziani hutu che fermavano ai
posti di blocco e massacravano con i machete i tutsi avevano un intento
ben diverso da quello delle milizie balcaniche che, nel conflitto sorto
dalla disgregazione della Jugoslavia, ne colpivano cento per farne
fuggire mille. Ma proprio per questo Srebrenica fu genocidio e non
pulizia etnica: lo scopo era proprio sterminare quelle migliaia di
musulmani bosniaci catturati.
Ancora più grave la clamorosa ed
intenzionale confusione semantica di fronte al termine «terrorismo», con
bandi opposti impegnati, in spregio alla coerenza e persino alla logica
formale, ad affermare (nei confronti degli avversari) o a negare (per
se stessi) l’applicabilità della definizione. La strumentalizzazione è
arrivata al punto da impedire, a differenza dal genocidio, di arrivare
in sede Onu ad una definizione universalmente accettata.
Eppure non è
difficile definire il terrorismo come uso della violenza contro un
obiettivo privo in sé di valore militare (si tratta soprattutto di
civili indifesi) al fine di piegare la volontà dell’avversario, si
tratti di governi o di gruppi etnici, religiosi, politici.
Il
problema è che, invece di definire il terrorismo come strumento, lo si
definisce come causa, da condannare o difendere. Si appiccica la
qualifica di terrorista con grande disinvoltura: sono terroristi, per il
regime militare egiziano, i Fratelli Musulmani (e persino i giornalisti
di Al Jazeera), e sono terroristi, per il governo ucraino, i ribelli
filorussi del Donbass, mentre Putin reciproca definendo terroristi i
rivoltosi del Maidan. Per il regime saudita sono terroristi, per legge,
tutti gli oppositori, compresi quelli che si limitano ad usare
criticamente la scrittura e i social media. Per Hamas, chi uccide tre
adolescenti ebrei è un combattente per la libertà, per il governo
israeliano i palestinesi che attaccano unità militari sono terroristi. E
George W. Bush, dopo l’11 settembre, decretò una «Guerra globale al
terrore». Ma il terrorismo non è una causa, tanto è vero che può essere
usato dalla mafia (le bombe agli Uffizi e a una chiesa di Roma), dagli
animalisti, dagli antiabortisti, dagli ambientalisti (l’Unabomber). Ed è
anche problematico definire come terroriste organizzazioni che usano lo
strumento del terrorismo in una certa fase per poi passare alla
guerriglia o all’azione politica. È vero di Hezbollah, passato da una
fase chiaramente terrorista a base di attentati e rapimenti ad essere
oggi una miscela di struttura combattente e partito politico, ma è vero
anche del sionismo radicale (pensiamo alla figura di Shamir, passato
dalla militanza in un’organizzazione terrorista alla politica). E che
dire del Sinn Fein irlandese, proiezione politica dell’Ira, e oggi
legittimo partito politico?
Oggi si parla dello «Stato Islamico» come
organizzazione terrorista, e certo sgozzare online prigionieri
innocenti è un’azione terrorista. Ma a che serve definire terrorista non
l’azione ma l’entità che la compie, quando in realtà si tratta di una
struttura militare capace di esercitare controllo su un territorio e
schierare reparti combattenti? Volendo fare paralleli, sono più simili
ai Khmer Rossi cambogiani che alla stessa Al Qaeda – che infatti,
rimasta ad operare nella dimensione terrorista, si vede oggi scavalcata
da un progetto politico-militare ben più ampio ed ambizioso.
Ed
infine, la tortura. Con un’amministrazione americana, quella di Bush
Jr., che negava di averla mai praticata, parlando invece
eufemisticamente di «tecniche di interrogatorio potenziate». Grottesca è
specialmente la negazione del fatto che il «waterboarding» costituisse
tortura, quando risulta che questa vera e propria «tortura dell’acqua»
(svolta esattamente con le stesse modalità di quelle adottate dagli
americani nei confronti dei detenuti di Al Qaeda) fosse, assieme alla
tortura del fuoco e a quella degli strappi di corda, uno tre dei metodi
standard usati dall’Inquisizione spagnola.
Il diritto internazionale
ha percorso un lungo e contrastato cammino verso la limitazione della
violenza bellica, sia dal punto di vista degli strumenti ammessi che dei
bersagli legittimi. Genocidio, terrorismo e tortura, invece, non vanno
regolati, ma messi assolutamente e incondizionatamente fuori legge. Sarà
però impossibile farlo se non ci si metterà prima d’accordo,
rispettando un minimo di logica e coerenza, sulle definizioni. Vasto
programma, di certo, ma non per questo da eludere.
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