martedì 28 ottobre 2014

Vittorio Gregotti: per il modernismo

Il possibile necessario
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Vittorio Gregotti: Il possibile necessario, Bompiani

RisvoltoVittorio Gregotti non è solo un maestro dell’architettura contemporanea, ma un fine conoscitore di arte classica e contemporanea. In questo saggio ci conduce in un viaggio affascinante attraverso analisi ed esempi di opere e spaccati della realtà globalizzata. Il rapporto tra ordine e disordine, la mutata concezione del tempo sono solo alcuni temi di una più ampia riflessione filosofica che mira a progettare un futuro diverso. Se l’arroganza della postmodernità ha messo al primo posto la tecnologia e trascurato la dimensione umana, occorre ora riportare al centro l’uomo, i suoi bisogni attraverso la continua ricerca di ordine ed equilibrio.





Mercato, digitale e comunicazione Tre pericoli per l’arte del futuro 

Nel nuovo saggio di Vittorio Gregotti il richiamo a costruire criticamente
Martedì 28 Ottobre, 2014 CORRIERE DELLA SERA © RIPRODUZIONE RISERVATA
U na delle tesi fondamentali del nuovo libro di Vittorio Gregotti, Il possibile necessario (Bompiani, pp.171, e 16) è che l’accademismo postmoderno sia un’ontologia del declino. 

Le arti e, in particolare l’architettura contemporanea, hanno messo tra parentesi i tradizionali statuti disciplinari rendendosi disponibili, nel migliore dei casi a un banale rispecchiamento dell’esistente, negli altri casi a una subalternità nei confronti delle neuroscienze, dei nuovi mezzi di comunicazione e del mercato globale come unico elemento regolatore dello sviluppo. 
L’esito più evidente di questo atteggiamento è un certo gattopardismo artistico e architettonico, ovvero quelle continue costruzioni frutto di novità mercantili e mediatizzate che incombono in maniera tanto incessante quanto inutile, perché prive di spessore critico. Alcune tra le più celebrate icone architettoniche del presente, dai musei ai grattacieli che gareggiano in altezza — sono espressione di questa dimensione. E sono quasi tutte sostenute da quella che Gregotti chiama la «religione della comunicazione» espressione di una «volontà autonoma dei poteri», ovvero di una costruzione di consenso intorno a opere o personaggi del tutto disgiunto da criteri di valore etico ed estetico. Una religione capace di creare valore di visibilità intorno a quel che vuole per poi trasformare questo «Capitale di visibilità» in un capitale economico, come ben studiato da Gernot Böhme, direttore dell’Istituto di Filosofia della Prassi a Darmstadt. 
Ancor più rischioso e vischioso del superpotere sviluppato del capitale di visibilità creato dai media è, però, l’eterogenesi dei fini delle tecnoscienze e del mondo digitale, con alcuni segnali già evidenti, specie nel campo del disegno, tecnica completamente spogliata di capacità critica e creativa dall’uso del computer. 
«Il linguaggio digitale produce enormi vantaggi — scrive Gregotti — ma anche una perdita di profondità rispetto alla ricchezza delle sfumature e delle metafore del linguaggio diretto tra le persone e, nel caso dell’architettura, conduce alla perdita del disegno come strumento di indagine oltreché di rappresentazione del progetto». Su questo tema, Gregotti ha svolto recentemente una conferenza al campus di Architettura del Politecnico di Piacenza e scritto un altro libro, con la cura di Andrea di Franco ( Il disegno come strumento di indagine del progetto , Christian Marinotti edizioni, pp.168, e 17). È il tema — oggi sottovalutato perché siamo addicted di social network — sviluppato da Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’Illuminismo : la prassi liberatoria che si trasforma in controprassi. La cosiddetta cultura digitale si sta trasformando, infatti, in un sistema panottico che unifica i gusti e li controlla con «progressiva estinzione del valore delle diversità, anche nell’architettura». 
Al contrario di questa situazione, che configura il perimetro dell’ontologia negativa, il lavoro artistico consisterebbe nel costruire il nuovo partendo da un giudizio critico sul presente, ponendo l’opera come una sorta di «farmaco» e la critica come un lavoro diagnostico. Il progetto è un lavoro di modificazione dell’esistente e delle esistenze il cui paradigma letterario, per Gregotti, è La modification (1957) di Michel Butor, un Nouveau Roman (un po’ illeggibile e lentissimo) dove la creatività come modificazione è la chiave di partecipazione dell’individuo alla trasformazione sociale (un tempo anche la letteratura era ricerca, non marketing). 
Questo principio della modificazione critica riguarda in particolar modo il controllo del paesaggio e dell’ambiente costruito, che deve essere una «geografia del progetto dell’uomo», con attenzione anche ai caratteri geologici, di cui le recenti alluvioni in Liguria stanno a testimoniare l’assenza. Oltre a ciò, bisogna riformulare le relazioni tra ordine e disordine, utopia e progetto e distinguere tra quantità — come somma di molteplici significati — e grandezza per ridare vita a un progetto artistico consapevole. In assenza del quale, la conservazione e il «valore d’uso» sono diventati una forma di resistenza «di fronte alla società dello spettacolo e al denaro come merce assoluta». 
Si tratta di temi che Vittorio Gregotti ha affrontato anche in altri libri e spesso sulla stampa, come dimostra un terzo libro dell’autore che ripropone in un unico volume molti saggi apparsi fin dal 1966 ( 96 ragioni critiche del progetto , Bur, pp.518, e 13, prefazione di Jean-Louis Cohen). In definitiva, quella di Gregotti è una densa interrogazione sul futuro degli uomini e della società globalizzata visto a partire dall’esperienza e dalla riflessione sull’universo delle arti.

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