martedì 28 ottobre 2014

Volponi Estremo: il convegno su Paolo Volponi all'Università di Urbino



29-31 ottobre De Santi, Ritrovato, Zinato ed altri



Volponi, quella smania di collezionare arte 
A vent’anni dalla morte, un convegno sull’autore diCorporale Cacciatore compulsivo dei quadri dei grandi maestri
Marco Vallora La Stampa 30 ottobre 2014
Ventennale della morte di Volponi, convegno non convenzionale o d’obbligo, nella «sua» Urbino. E basterebbe il titolo, quasi allarmante: «Volponi estremo». Ma Volponi, sanguigno, reattivo, esorbitante sempre e come genialmente stridente, rispetto alla sua forte costituzione terrosa, era questo. Regale d’intelligenza in perenne bisticcio: incontenibile, smisurato, dirompente, avido d’esperienze, abnorme nel contesto della sopita cultura nostrana.
Frugando fra le carte, assolutamente inedite, del suo epistolario (per fortuna dettava tutto alle sue segretarie dell’Olivetti, e rimane così copia preziosa) si trovano lettere illuminanti, molte delle quali indirizzate ai maggiori esperti di expertise (il vero Gotha nazionale, e non solo, dei conoscitori) in cerca di consigli, scambi di pareri, suggerimenti d’acquisto ecc. Tutto finalizzato alla sua spasmodica «smania del collezionismo», che quasi si configura come una malattia intrattenibile.
E che risultati grandiosi! Ne fa fede la smagliante collezione di scelti capolavori, che volle donare alla città di Urbino, in ricordo del figlio Roberto, scrittore in erba, che perì giovanissimo nel rogo di un aereo, a Cuba, nel 1989. Dai fondi oro preziosissimi di Barnaba da Modena e Vitale da Bologna a Guido Reni e Mattia Preti, da Salvator Rosa a Guercino, da Lanfranco a Gentileschi, e via di questo livello. Con scelte infallibili, miratissime: i provinciali gotici, marchigiani o emiliani, prediletti dal suo «Maestro in spirito» Longhi, i secenteschi caravaggeschi napoletani o centro-italiani, possibilmente tenebrosi, piagati di dolori e ustionati di tormenti. Pochi i rinascimentali, pochissimi i settecenteschi, tranne Pietro Longhi e Crespi, molti i moderni: dal suo protettore Bartolini, al pluricitato Morandi, da Picasso, continuamente acquistato e scambiato, a Rosai. Per questo i nomi di Roberto Longhi e di Briganti, di Zeri o di Pepper, di Volpe, di Emiliani o di Lord Acton, sono essenziali per ottenere (gratuitamente: sa benissimo come ingolosirli, con la curiosità) pareri d’attribuzione e conforto e confronti, nell’avventura complice, spesso spericolatissima, dell’acquisto. 
Con Longhi, quando lo accalappia con sapienza, e non è facile, c’è di mezzo anche la mediazione della moglie Anna Banti, che gli pubblica brani del suo romanzo a venire, la Macchina mondiale, su Paragone. Ed è a Longhi stesso ch’egli confessa che i primi proventi del premio Strega (la famiglia concorde) sono stati tutti assorbiti da un nuovo acquisto. Lì, a titillare la famelicità del Maestro d’Attribuzioni. A cui, all’inizio, scrive, con lingua inventata e paludata, impacciata, che non è la sua solita, diretta e rude. No, piena di circonvoluzioni, tipo giovane Proust questuante. Poi la «devozione» si fa più «cordiale» e osa sempre di più: chiede, propone quesiti, azzarda soluzioni, si mostra via via quell’occhio straordinario, che in realtà è stato. Ma anche commoventemente ingenuo: si mortifica per amare soggetti ostici e rustici (figurarsi, con Longhi, che non ama altro), fa capire, colpevolmente, d’essere alla ricerca di nomi illustri ed economicamente sicuri, ammette di non sapere chi è l’artista propostogli da Longhi: Gian Liss, per esempio. Ma poi, inguaribilmente saputo, spiega all’Onniscente quello che ha scoperto sul pittore. 
Si avverte l’intolleranza domata del bizzoso Maestro, che lo grazia, soprattutto quando il giovane gli confessa questa passione compulsiva per la ricerca antiquariale, che gli consuma le giornate, le notti, gli stipendi. Che però lo aiuta pure a sopportare la tortura dell’ufficio (ma anche collezionare diventa «torturante», «masochistico», «una sofferenza», una vera dannazione «spregiudicata dei sentimenti»). Qualcosa che però per lui è, in definitiva, «vita» pura: pungolo di scrittura e di passione civile. Vera dedicazione assoluta da «giocatore», alla Landolfi. 
Lo ammette: non ha il «classico libretto di assegni» da gettare sul tavolo del venditore, deve ricorrere a cambiali, assegni postdatati, sotterfugi aziendali, espedienti. Per esempio «usare» l’inarrivabile consorte Giovina, collaboratrice vivida di Adriano Olivetti, per rifiutare qualche acquisto cagliato o tramare qualche astuzia, alla dabbenaggine del mercante. Chiede d’un tavolo chippendale, grato alla signora, in realtà s’informa, senza dare troppo nell’occhio, d’un quadro di Cristo in mezzo a dei soldati dalle facce molto marcate e grottesche, che è l’unica vera meta. Forse ha già intuito che è un Mattia Preti, un Valentin, uno Sweerts. Sempre pronto ad ammettere lo sbaglio, a «ripagare», ad apprendere. Eccolo nella villa di Zeri, vi ha dimenticato il cappello. «Secondo Freud sarebbe la voglia di ritornare o di restare. Io più banalmente posso dire che ho lasciato qualcosa della mia testa ad imparare». Umilissimo e geniale.

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