sabato 8 novembre 2014

Festa continua con Castellina e Bauman: "Gioia in quell’autunno dell’89 e anche un po’ di orgo­glio"


Tutta la vita pubblica in Occidente è in questi giorni un'unica interminabile autocelebrazione [SGA].

Muro di Berlino: 25 anni dal crollo
La città divisa in 14 filmati dell'Istituto Luce
Repubblica 8.11.14

Sulle rovine del Muro di Berlino aleggia lo spettro di un mondo senza alternative
di Zygmunt Bauman Repubblica 8.11.14

Dov’è la festaIl muro di Berlino. L'89, un passaggio ambiguo non solo gioiosa rivoluzione libertaria
—  Luciana Castellina, 7.11.2014
Un pez­zetto di quel muro caduto 25 anni fa ce l’ho ancora sulla mia scri­va­nia: un fram­mento di into­naco colo­rato che strap­pai con le mie mani quando accorsi anche io a Ber­lino men­tre ancora, a frotte, quelli dell’est eson­da­vano verso l’agognato Occi­dente. Furono gior­nate gio­iose attorno a quel sim­bolo di una guerra – quella fredda – che era scop­piata meno di due anni dopo la fine di quella calda. 

Per oltre quarant’anni quella fron­tiera, e già molto prima che fosse eretto il muro, l’avevo attra­ver­sata solo ille­gal­mente: negli anni ’50 per­ché il mio governo non mi dava un pas­sa­porto valido per i paesi oltre la cor­tina di ferro (dove­vamo rima­nere chiusi nell’area della Nato) e per­ciò per par­larsi con tede­schi della Ddr, unghe­resi o bul­gari si pren­deva il metro a Ber­lino e dall’altra parte ti for­ni­vano una sorta di pas­sa­porto posticcio. 
Poi, dopo la costru­zione del muro, quando noi pote­vamo legal­mente andare ad est e invece quelli di Ber­lino est non pote­vano più venire a ovest, ridi­ven­tammo clan­de­stini: per potere incon­trare, senza incap­pare nella sor­ve­glianza della Stasi, i nostri com­pa­gni paci­fi­sti del blocco sovie­tico, dis­si­denti rispetto ai loro regimi, ma con­vinti che a una evo­lu­zione demo­cra­tica non sareb­bero ser­viti i mis­sili per­ché solo il disarmo e il dia­logo avreb­bero potuto facilitarla. 
Per que­sto, gioia in quell’autunno dell’89 e anche un po’ di orgo­glio per il merito che per que­sto esito aveva avuto anche il nostro movi­mento paci­fi­sta, l’End «per un’Europa senza mis­sili dall’Atlantico agli Urali». Ave­vamo pro­dotto una deter­renza poli­tica, con­tri­buendo ad iso­lare chi, per abbat­tere il muro, avrebbe voluto sce­gliere la più sbri­ga­tiva via delle bombe. 
E però l’89 non fu solo gio­iosa rivo­lu­zione liber­ta­ria. Fu un pas­sag­gio assai più ambi­guo, gra­vido di con­se­guenze, non tutte mera­vi­gliose. Oggi è anche più chiaro, e così l’avverto dolo­ro­sa­mente nella memo­ria che evoca in me. Peral­tro quel 9 novem­bre di 25 anni fa per me, credo per tanti, non è dis­so­cia­bile dalle date che segui­rono di pochi giorni: il 12 novem­bre, quando Achille Occhetto, alla Bolo­gnina, disse che il Pci andava sciolto; il 14, quando ce lo comu­nicò uffi­cial­mente alla trau­ma­tica riu­nione della dire­zione del par­tito di cui, dopo che il Pdup era con­fluito nel Pci, ero entrata a far parte. Così impo­nen­doci – a tutti – la ver­go­gna di pas­sare per chi sarebbe stato comu­ni­sta per­ché si iden­ti­fi­cava con l’Unione sovie­tica e le orri­bili demo­cra­zie popo­lari che essa aveva creato. 
Non c’era biso­gno della caduta del muro per con­vin­cersi che quello non era più da tempo il modello dell’altro mondo pos­si­bile che vole­vamo, non solo per noi che ave­vamo dato vita al Mani­fe­sto, ovvia­mente, ma nem­meno più per la stra­grande mag­gio­ranza degli iscritti al Pci e dei suoi elettori. 
Ma non si trat­tava sol­tanto della sini­stra ita­liana, il muta­mento che segnò l’89 ha avuto por­tata assai più vasta: è in quell’anno che si può datare la vit­to­ria a livello mon­diale di que­sta glo­ba­liz­za­zione che tut­tora viviamo, acce­le­rata dalla con­qui­sta al domi­nio asso­luto del mer­cato di quel pezzo di mondo che pur non essendo riu­scito a fare il socia­li­smo gli era tut­ta­via rima­sto estraneo. 
Ci fu, certo, libe­ra­zione da regimi diven­tati oppres­sivi, ma solo in pic­cola parte per­ché non aveva vinto un largo moto ani­mato da un posi­tivo dise­gno di cam­bia­mento: c’era stata, piut­to­sto, la bru­tale ricon­qui­sta da parte di un Occi­dente che pro­prio in que­gli anni, con Rea­gan, Tat­cher, Kohl, aveva avviato una dram­ma­tica svolta rea­zio­na­ria. Al dis­sol­versi del vec­chio sistema si fece strada, arro­gante e per­va­sivo, il capi­ta­li­smo più sel­vag­gio, sra­di­cando valori e aggre­ga­zioni nella società civile, lasciando sul ter­reno solo ripie­ga­mento indi­vi­duale, egoi­smi, cor­ru­zione, vio­lenza. Il corag­gioso ten­ta­tivo di Gor­ba­ciov non era riu­scito, il suo par­tito, e la società in cui aveva regnato, erano ormai decotte e rima­sero passive. 
E così il paese anzi­ché demo­cra­tiz­zarsi divenne preda di un furto sto­rico colos­sale, ci fu un vero col­lasso che privò i cit­ta­dini dei van­taggi del brutto socia­li­smo che ave­vano vis­suto senza che potes­sero godere di quelli di cui il capi­ta­li­smo avrebbe dovuto essere por­ta­tore. (A pro­po­sito di demo­cra­zia: chissà per­ché nes­suno, mai, ricorda che solo tre anni dopo Boris Eltsin, che aveva liqui­dato Gor­ba­ciov, arrivò a bom­bar­dare il suo stesso Par­la­mento col­pe­vole di non appro­vare le sue proposte?). 
Come scrisse Eric Hob­sbawm nel ven­te­simo anni­ver­sa­rio del crollo «il socia­li­smo era fal­lito, ma il capi­ta­li­smo si avviava alla ban­ca­rotta».
Avrebbe potuto andare diver­sa­mente? La sto­ria, si sa, non si fa con i se, ma riflet­tere sul pas­sato si può e si deve ( e pur­troppo non lo si è fatto che in minima parte). 
E allora è lecito dire che c’erano altri pos­si­bili sce­nari e che se la sto­ria ha preso un’altra strada non è per­ché il «destino è cinico e baro», ma per­ché a quell’appuntamento di Ber­lino si è giunti quando si era già con­su­mata una sto­rica scon­fitta della sini­stra a livello mon­diale. L’89 è una data che ci ricorda anche questo. 
Le respon­sa­bi­lità sono mol­te­plici. Per­ché se è vero che il campo sovie­tico non era più rifor­ma­bile e che una rot­tura era dun­que indi­spen­sa­bile, altro sarebbe stato se i par­titi comu­ni­sti , in Ita­lia e altrove, aves­sero avan­zato una cri­tica aperta e com­ples­siva di quell’esperienza già vent’anni prima, invece di limi­tarsi – come avvenne nel ’68 in occa­sione dell’invasione di Praga – a par­lare solo di errori. 
In que­gli anni i rap­porti di forza sta­vano infatti posi­ti­va­mente cam­biando in tutti i con­ti­nenti ed era ancora ipo­tiz­za­bile una uscita da sini­stra dall’esperienza sovie­tica, non la capi­to­la­zione al vec­chio che invece c’è stata. E così nell’89, anzi­ché avviare final­mente una vera rifles­sione cri­tica, si scelse l’abiura, che avallò l’idea che era il socia­li­smo che pro­prio non si poteva fare. 
Gor­ba­ciov restò così senza inter­lo­cu­tori per por­tare avanti il ten­ta­tivo di dar almeno vita, una volta spez­zata la cor­tina di ferro, a una diversa Europa. Un’ipotesi che aveva per­se­guito con tena­cia, offrendo più volte lui stesso alla Ger­ma­nia la riu­ni­fi­ca­zione in cam­bio della neu­tra­liz­za­zione e denu­clea­riz­za­zione del paese. 
Fu l’Occidente a rifiu­tare. Mancò all’appello, quando uni­la­te­ral­mente il pre­si­dente sovie­tico diede via libera all’abbattimento della cor­tina di ferro, il più grande par­tito comu­ni­sta d’occidente, quello ita­liano, fret­to­lo­sa­mente appro­dato all’atlantismo e impe­gnato ad accan­to­nare, quasi con irri­sione, il ten­ta­tivo di una “terza via” fon­data su uno scio­gli­mento dei due bloc­chi avan­zata da Ber­lin­guer alla vigi­lia della sua morte improvvisa. 
E mancò la social­de­mo­cra­zia, che aveva in quell’ultimo decen­nio mar­gi­na­liz­zato gli uomini che pure si erano con lun­gi­mi­ranza bat­tuti per una diversa opzione: Brandt, Palme, Foot, Krei­ski. È così che l’89 ci ha con­se­gnato un’altra scon­fitta, quella dell’Europa. Che perse l’occasione di costruirsi final­mente un ruolo e una sog­get­ti­vità auto­nome, quella “Casa comune euro­pea” che Gor­ba­ciov aveva soste­nuto e indi­cato, e che trovò solo un sim­pa­tiz­zante – ma debo­lis­simo — in Jaques Delors, allora pre­si­dente della Com­mis­sione europea. 
Nell’89 l’Unione Euro­pea avrebbe final­mente potuto coro­nare l’ambizione di libe­rarsi dalla sud­di­tanza ame­ri­cana che l’esistenza dell’altro blocco mili­tare aveva faci­li­tato, e invece si ritrasse quasi spa­ven­tata. Avvian­dosi negli anni suc­ces­sivi lungo la disa­strosa strada indi­cata dalla Nato: ricon­durre al vas­sal­lag­gio le ex demo­cra­zie popo­lari per poter esten­dere i pro­pri con­fini mili­tari fino a ridosso della Russia. 
Non andò molto meglio nep­pure in Ger­ma­nia. Anche qui ci fu certo la grande gioia della riu­ni­fi­ca­zione del paese che aveva vis­suto la dolo­ro­sis­sima ferita della divi­sione, ma anche qui, più che di un nuovo ini­zio, si trattò di una annes­sione con­dotta secondo le regole di un bru­tale vincitore. 
A 25 anni di distanza la disu­gua­glianza fra cit­ta­dini tede­schi dell’ovest e dell’est è più pro­fonda di quella fra nord e sud d’Italia, per­ché la «Treu­hand» inca­ri­cata di pri­va­tiz­zare quanto era pub­blico nell’economia della Ddr pre­ferì azze­rare le imprese per lasciar il campo libero alla con­qui­sta di quelle della Rft. Cin­que anni fa nel com­me­mo­rare il crollo del muro il set­ti­ma­nale Spie­gel rese noti i risul­tati di un son­dag­gio: il 57% degli abi­tanti della ex Ger­ma­nia dell’est – che dio solo sa quanto era brutta – ne ave­vano nostalgia. 
Oggi pro­ba­bil­mente quella che viene chia­mata «Ostal­gie» è cre­sciuta. (Fra i miei ricordi c’è anche una cena con Willi Brandt non molto tempo prima della sua scom­parsa: tor­nava da un giro ad est in occa­sione della prima cam­pa­gna elet­to­rale del paese riu­ni­fi­cato ed era deso­lato per come la riu­ni­fi­ca­zione era stata con­dotta. La Spd non aveva del resto nasco­sto, sin dall’inizio, la sua con­tra­rietà a come era stato avviato il processo). 
Per tutte que­ste ragioni non con­di­vido la spen­sie­rata (agio­gra­fica) festo­sità che accom­pa­gna, anche a sini­stra, la cele­bra­zione del crollo del Muro. Soprat­tutto per­ché – e que­sta è forse la cosa più grave – l’89 è anche il tempo in cui per milioni di per­sone prende fine la spe­ranza – e per­sino la voglia – di cam­biare il mondo, quasi che il socia­li­smo sovie­tico fosse stato il solo modello pra­ti­ca­bile. E via via è finita per pas­sare anche l’idea che tutto il secolo impe­gnato a costruirlo anche da noi era stata vana per­dita di tempo. 
Un colpo duris­simo inferto alla coscienza e alla memo­ria col­let­tiva, alla sog­get­ti­vità di donne e uomini che per que­sto ave­vano lot­tato. E nes­suno sforzo per riflet­tere cri­ti­ca­mente su cosa era acca­duto per trarre forza in vista di un più ade­guato nuovo pro­getto. Non è un caso che anche i poste­riori ten­ta­tivi di dar vita a nuovi par­titi di sini­stra abbiano pro­dotto for­ma­zioni tanto impa­stic­ciate: per­ché inca­paci di fare dav­vero i conti con la sto­ria. E per­ciò qual­che rista­gno ideo­lo­gico o la resa a un pen­siero unico che indica il capi­ta­li­smo come solo oriz­zonte della storia. 
Nel dire que­ste parole amare rischio come sem­pre di fare la nonna noiosa che con­ti­nua a rimu­gi­nare sul pas­sato senza guar­dare al pre­sente. So bene che ci sono oggi nuovi movi­menti ani­mati da gene­ra­zioni nate ben dopo la famosa sto­ria del Muro che si pro­pon­gono a loro modo di inven­tarsi un mondo diverso. 
Ma non mi ras­se­gno a subire senza rea­gire il disin­te­resse che avverto in tanti di loro per il nostro pas­sato, non per­ché vor­rei ci assol­ves­sero dai nostri errori, ma per­ché non sono con­vinta si possa andar lon­tano se non si ha rispetto sto­rico per quanto di eroico e corag­gioso, e non solo di tra­gico, c’è stato nei grandi ten­ta­tivi, pur scon­fitti, del ‘900; se non si avverte quanto misera sia l’enfasi posta oggi su un’idea di libertà — quella uffi­cial­mente cele­brata in que­sto ven­ti­cin­quen­nale del Muro — così meschina da appa­rire arre­trata per­sino rispetto alla rivo­lu­zione fran­cese dove almeno era stato aggiunto ugua­glianza e fra­ter­nità, ormai con­si­de­rati obiet­tivi pue­rili e con­tro­pro­du­centi: il mer­cato, infatti, non li può sopportare. 
Non ho molta cre­di­bi­lità nel pro­porre la crea­zione di par­titi, l’ho fatto troppe volte nella mia vita e non con straor­di­na­rio suc­cesso. E tut­ta­via ora ne vor­rei dav­vero fare uno: il par­tito dei nonni. Non per­ché inse­gnino ai gio­vani cosa devono fare, per carità, ma per­ché vor­rei che almeno due gene­ra­zioni uscis­sero dal muti­smo in cui hanno finito per rin­chiu­dersi, inti­mi­diti da rot­ta­ma­tori di destra e di sinistra. 
Vor­rei che ripren­des­sero la parola, riac­qui­stas­sero sog­get­ti­vità: per dire che sulla sto­ria di prima del crollo del muro vale la pena di riflet­tere, per­ché si tratta di una sto­ria piena di ombre, ma anche di espe­rienze straor­di­na­rie ( a comin­ciare dalla rivo­lu­zione d’ottobre di cui giu­sta­mente Ber­lin­guer disse che aveva perso la sua spinta pro­pul­siva, non che era meglio non farla). But­tare tutto nel cestino signi­fica ince­ne­rire ogni vel­leità di cam­bia­mento, di futuro. 



Per finire: da quando è caduto il muro di Ber­lino ne sono stati eretti altri mille, mate­riali (Messico/Usa; Israele/Palestina, Pakistan/India .….ultimo Ucraina/Russia) e non (vedi la disu­gua­glianza glo­bale e i muri euro­pei «a mare» nel Medi­ter­ra­neo e di terra a Melilla, con­tro i migranti). Non pro­prio una festa.

Berlino 25 anni fa, quella festa lontana 
Il presidente della Repubblica Joachim Gauck nell’anniversario critica l’ipotesi che in Turingia venga eletto un governatore di estrema sinistra. Solenne seduta del Bundestag: ospite l’ex dissidente Wolf Biermann che ha attaccato la Linke. Gysi ha ricordato le nuove barriere erette dall’Occidente

Jacopo Rosatelli, 7.11.2014 


Impas­si­bili. Sono rima­sti così i depu­tati della Linke, ieri mat­tina, di fronte alla pro­vo­ca­zione (gra­tuita e vol­gare) del poeta e can­tau­tore Wolf Bier­mann, icona della dis­si­denza nella Ger­ma­nia est real­so­cia­li­sta. Invi­tato come ospite d’onore ad ese­guire una canzone-simbolo della lotta anti-dittatura («Ermu­ti­gung», «Inco­rag­gia­mento») di fronte al Bun­de­stag riu­nito in forma solenne per cele­brare la caduta del Muro di Ber­lino, Bier­mann non si è fatto sfug­gire l’occasione per una vio­lenta tirata con­tro il par­tito più a sini­stra dello spet­tro poli­tico tede­sco: «lo squal­lido resi­duo di ciò che per for­tuna è scom­parso».
Ancora una volta, quindi, l’equazione «Linke uguale Ddr» uti­liz­zata come una clava per col­pire un for­ma­zione che una parte di classe diri­gente tede­sca con­ti­nua a trat­tare come un’accolita di appe­stati nostal­gici dei tempi di Ulbri­cht e Honecker. 
Se ieri il par­la­mento tede­sco non si è tra­sfor­mato in una bol­gia è stato solo per il con­te­gno esem­plare dei rap­pre­sen­tanti della Linke, che hanno per­sino applau­dito la per­for­mance del can­tau­tore. Suc­ces­si­va­mente, il cari­sma­tico capo­gruppo Gre­gor Gysi (ex cit­ta­dino della Ddr) nel suo inter­vento ha igno­rato le parole di Bier­mann, riba­dendo per l’ennesima volta che la Ddr è stata, anche a suo avviso, una dit­ta­tura nella quale si sono vio­lati siste­ma­ti­ca­mente i diritti umani. 
Aggiun­gendo, tut­ta­via, che il modo migliore per cele­brare oggi la caduta del Muro è non solo ricor­dare le paci­fi­che mobi­li­ta­zioni di allora (che videro Gysi tra i pro­ta­go­ni­sti), ma anche le dif­fe­renze sociali che tut­tora restano fra cit­ta­dini di quelle che un tempo furono le due Ger­ma­nie. E non solo: Gysi ha oppor­tu­na­mente richia­mato i muri che oggi con­ti­nuano ad essere costruiti, fisi­ca­mente o sim­bo­li­ca­mente, per tenere lon­tano gli inde­si­de­rati. Come migranti e pro­fu­ghi, evo­cati anche da un’azione di un col­let­tivo di arti­sti che ha «seque­strato» le croci bian­che poste ai piedi del Bun­de­stag sulla Sprea, a ricordo delle vit­time del Muro, por­tan­dole in posti dove esi­stono bar­riere anti-migranti come l’enclave spa­gnola di Melilla. 
Lo show anti-Linke di Bier­mann non ha colto di sor­presa, essendo nota in Ger­ma­nia la sua tra­iet­to­ria poli­tica. Figlio di un ebreo comu­ni­sta morto ad Ausch­witz, il futuro arti­sta emi­grò inten­zio­nal­mente da Amburgo nella Ddr nel ’53, a 17 anni. Divenne una delle più impor­tanti voci cri­ti­che «da sini­stra» del regime, fino alla cla­mo­rosa pri­va­zione della cit­ta­di­nanza del ’76: Bier­mann si tro­vava in tour­née nella Repub­blica fede­rale e i gerar­chi real-socialisti gli impe­di­rono di rien­trare. Ono­rato e plu­ri­pre­miato, apprez­zato come coscienza cri­tica della nazione, da tempo le sue posi­zioni non sono più quelle del liber­ta­rio di sini­stra degli anni della con­te­sta­zione: favo­re­vole alla guerra della Nato con­tro l’ex Jugo­sla­via per Kosovo e poi a quella in Iraq, ora è più simile a que­gli ex comu­ni­sti, dif­fusi da ogni parte, con­ver­titi al neoconservatorismo. 
La pro­vo­ca­zione di Bier­mann non rap­pre­senta il solo attacco alla Linke in occa­sione della ricor­renza di 25 anni fa. Nei giorni scorsi il Pre­si­dente fede­rale Joa­chim Gauck (anch’egli ex oppo­si­tore nella Ddr) ha, in maniera ine­dita, rotto la neu­tra­lità che il suo ruolo impor­rebbe per avan­zare pub­bli­ca­mente riserve sull’ipotesi che Bodo Rame­low diventi il primo espo­nente della Linke alla guida di un Land, la Turin­gia. Evo­cando, ovvia­mente, il pas­sato. Nono­stante Rame­low non abbia nulla a che spar­tire con la sto­ria della Ger­ma­nia real-socialista (è dell’Ovest), e mal­grado l’innegabile pro­fonda ela­bo­ra­zione cri­tica del pas­sato com­piuta dal par­tito che affonda, per metà, le sue radici nella tran­si­zione dal partito-stato Sed alla Pds dopo l’Ottantanove. Ma tant’è: la pos­si­bi­lità che la novità poli­tica della Turin­gia (il 5 dicem­bre ci sarà il voto d’investitura nel par­la­mento regio­nale) generi final­mente una rimessa in movi­mento degli equi­li­bri poli­tici della Repub­blica fede­rale evi­den­te­mente spa­venta i custodi dello sta­tus quo, fra i quali va anno­ve­rato il capo dello stato. 
È que­sto il clima in cui la Ger­ma­nia cele­bra dun­que domani la sto­rica ricor­renza, che in realtà non è solo festiva: il 9 novem­bre è anche l’anniversario della notte dei cri­stalli (o «Pogrom­na­cht», «Notte del pogrom» come dicono più cor­ret­ta­mente i tede­schi). Era pre­vi­sto che mar­cias­sero anche grup­pu­scoli di destra, me le mani­fe­sta­zioni sono state annul­late: non è escluso che qual­cosa capiti comunque. 
Di certo, pur­troppo, c’è che tra una set­ti­mana sfi­le­ranno i sedi­centi «Hoo­li­gan anti-salafiti», nuova sigla die­tro la quale si nascon­dono le frange più vio­lente del neo­na­zi­smo tede­sco. Il 26 otto­bre scorso misero a ferro e fuoco il cen­tro di Colo­nia: ora vogliono repli­care in grande stile a Berlino.


Il comizio di Dubcek, il via vai in piazza san Venceslao, gli incontri nei caffé con gli intellettuali della Primavera. Mario Lavia racconta il "suo" 1989 da cronista radiofonico in Ungheria

Mario Lavia 

Il Muro, la libertà e i tradimenti della storia

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