domenica 9 novembre 2014

Il prototramonto dell'Occidente. La caduta della civiltà mediterranea alla fine dell'Età del bronzo


1177 a. C. Il collasso della civiltà
Eric H. Cline: 1177 a.C. Il collasso della civiltà, Bollati Boringhieri

Risvolto

Vennero dal mare. Sappiamo il loro nome e poco altro: li chiamiamo "Popoli del Mare" e al loro arrivo caddero regni millenari e l'intera Civiltà del Bronzo collassò repentinamente. Dopo, seguirono solo lunghi secoli bui. L'Età del Bronzo era stata un'epoca di fiorenti commerci, di evoluzione tecnica e culturale, di rapporti diplomatici internazionali, di sottili equilibri politici. A lungo si è pensato che il mondo di tremila anni fa fosse un luogo primitivo, con un'economia ridotta su breve scala, ma gli ultimi decenni di scavi archeologici hanno invece portato alla luce un mondo incredibilmente organizzato e vasto, sorprendentemente simile al nostro, tanto da poterlo definire "globalizzato". Il quadro archeologico ci restituisce un'organizzazione solida e funzionale, che sembrava intramontabile, come la nostra, ma che cadde di schianto. Lo stagno, necessario per ottenere il bronzo delle armi e degli utensili, proveniva dall'Afghanistan, il rame da Cipro: come il petrolio di oggi, erano le merci più ambite, e sul loro commercio era fiorita un'intesa internazionale che coinvolgeva tutti i grandi imperi del Mediterraneo e della Mezzaluna fertile. I nomi dei regni antichi evocano avvenimenti lontani - Egizi, Ittiti, Assiri, Babilonesi, Mitanni, Minoici, Micenei, Amorrei, Ugariti, Cretesi, Ciprioti, Cananei -, ma le loro vicende sono così "moderne" che la loro storia suona ormai come un monito rivolto al nostro mondo.
Egizi, Assiro Babilonesi, Minoici e Micenei Che brutto tempo: siamo come gli Ittiti
Un saggio dell’archeologo Eric H. Cline affronta il collasso delle civiltà che abitarono il Mediterraneo orientale tra il XIII e il XII secolo avanti Cristo Variazioni climatiche, migrazioni, relazioni internazionali La fine dell’Età del Bronzo suggerisce (caute) analogie 

di Sandro Modeo Corriere La Lettura 9.11.14
Rimettendo mano a un monumento-monstre iniziato secoli prima, il re ittita Tudhaliya IV completa, alla fine del XIII secolo a.C., il santuario di Yazilikaya, nei pressi della capitale Hattusha, a nord-est dell’attuale Ankara: un intrico di gallerie naturali foderate di bassorilievi col pantheon dei vicini hurriti, dagli dèi della Tempesta e del Sole alle dodici divinità ctonie in sequenza seriale. Sigillato dall’icona del sovrano, il santuario si tradurrà in pochi decenni in un dolente canto del cigno della stessa civiltà ittita, travolta — insieme a tutte le altre di area est-mediterranea e mediorientale — da un «collasso» collettivo che segnerà il requiem dell’Età del Bronzo. 
Ora un libro notevole dell’archeologo Eric H. Cline della George Washington University ( 1177 a.C. Il collasso della civiltà , Bollati Boringhieri) ricostruisce per dettagli molecolari proprio quel crollo «di sistema», fatalmente evocativo di paralleli con le attuali «crisi» globali: studio e argomento per certi aspetti unici rispetto a classici — come La fine del mondo antico di Santo Mazzarino o Collasso di Jared Diamond — dedicati alle implosioni di singoli imperi e/o civiltà, da Roma ai Maya. La data del titolo si riferisce alla seconda ondata migratoria, trent’anni dopo la prima, dei cosiddetti Popoli del Mare, incursori di provenienza misteriosa (sicula o sarda, anatolica, egea, e molte altre) a lungo eletti a causa esclusiva se non a capro espiatorio del crollo. Ma quella data-spartiacque viene avvicinata da Cline risalendo a tutti i passaggi chiave dei secoli precedenti e ispirandosi esplicitamente, nel disegno narrativo, a uno spunto di Fernand Braudel, per cui la storia dell’Età del Bronzo andrebbe scritta «sotto forma di dramma». 
Ne deriva un vero racconto polifonico con digressioni e flashback, montaggi alternati o paralleli, dove i percorsi fittamente intrecciati di tutti i popoli coinvolti — Egizi e Assiro-Babilonesi, Ittiti e Mitanni, Minoici e Micenei, Ciprioti e Cananei — svelano via via le diverse concause del crash , tra eventi traumatici (la fine di Ugarit, satellite siriano dell’impero ittita) e crisi latenti che precipitano (il «declino» preesistente al «collasso», come in molti altri casi). Il tutto attraverso prove archeologiche (ma anche filologiche, artistiche, storico-economiche) aggiornate agli ultimi anni di ricerca e utili per entrare nel nucleo di una disciplina caratterizzata da una durezza prosaica (le ore trascorse su un’impalcatura, sotto il sole rovente, per trascrivere un geroglifico) o dalla casualità di tante scoperte, opera ad esempio di contadini, pescatori di spugne o conducenti di bulldozer. 
Nel ripercorrere i tre secoli antecedenti l’arrivo dei Popoli del Mare (dal XV al XIII a.C., ognuno visto come un «atto» del dramma), Cline evidenzia la complessa trama di incontri/scontri e contrapposizioni/assimilazioni in quel sistema-mondo. Il paesaggio di fondo è l’intrico delle «relazioni internazionali», ben riassunto, tra le altre, da un’eclatante prova documentaria: la «nave di Uluburun» del 1300 a.C., diretta da est (Egitto o Israele) a ovest (forse Rodi) e naufragata con tutte le merci caricate nei vari scali, dal rame cipriota allo stagno afghano (le due materie prime per il bronzo degli eserciti), passando per un ventaglio che comprende ebano della Nubia, vetro mesopotamico, anfore cananee, scarabei sacri egizi, spade, pugnali italo-greci. Questo carico è il concentrato simbolico di una rete di rapporti sotto cui preme, va da sé, una profonda ambivalenza: da una parte, gli embarghi (quelli ittiti verso Micenei o Assiri) o i tanti conflitti con le relative, decisive battaglie, come quella di Qadesh tra Egizi e Ittiti (1274 a.C.); dall’altra, la diplomazia a base di doni reciproci, trattati e matrimoni tra regni (come quelli successivi proprio alla battaglia di Qadesh) e i metissage artistici, documentati già nei sublimi affreschi minoici, cioè cretesi, nel palazzo di Tuthmose III a Perunefer (1477 a.C.), di cui si è recuperata, purtroppo, solo una minima parte. 
Approdando al 1177 a.C. — anno della «vittoria di Pirro» di Ramses III contro i Popoli del Mare, evento registrato in altre pitture murali, quelle di Medinet Habu — Cline non si limita a ridimensionare l’incidenza dei presunti invasori, ricordandone, oltre all’incertezza etnica, quella identitaria (tra predoni e semplici migranti), ma relativizza tutti gli altri cofattori causali, ognuno dei quali, da solo, non è spiegazione esaustiva. Non lo sono i terremoti («seriali» o isolati), dato che sia Ugarit che Micene si erano ripresi dopo i sismi del 1250 a.C.; non lo sono le carestie, come quelle drammatiche affrontate dagli Ittiti nel XIII secolo, con richieste di grano agli Egizi; non lo è l’esplosione di rivolte intestine anche estreme, come quella della confederazione di Assuwa (di nuovo contro gli Ittiti); non lo è nemmeno l’indebolimento del commercio «a lunga distanza», dato che Ugarit mantiene intatta la sua rete fino a poco prima del collasso. 
In quest’ottica, quindi, Cline non può che arrivare a una saggia conclusione multifattoriale (la «tempesta perfetta», che non necessita dell’evocazione un po’ gratuita della teoria della complessità) e a un’altrettanto cauta — e condivisibile — ipotesi sul fatto che i presunti invasori (Popoli del Mare o altri) fossero spesso nomadi o migranti tesi a occupare (e a rifondare) aree già in crisi se non abbandonate. 
Il punto chiave, però, è un aspetto (il mutamento climatico) che Cline considera estesamente (con prove consistenti sugli indici di siccità del tempo), senza arrivare a valutarlo, come forse invece è, il fattore prevalente o di innesco/amplificazione del domino. Se ricorriamo alla Storia culturale del clima di Wolfgang Behringer, vediamo infatti come proprio il clima determini nell’Età del Bronzo collassi in altri periodi delle aree in questione e in altre aree del periodo considerato. 
Un primo collasso, infatti, si ha già nel 2150 a.C., quando nel periodo boreale sia l’Egitto che la Mesopotamia affrontano un calo di precipitazioni e le conseguenti carestie; mentre un’altra crisi egizia (la «Little Dark Age») coincide con un nuovo deficit di inondazioni del Nilo intorno al 1768 a.C.. Quanto alla crisi di sistema del 1200 a.C., è estesa anche a regioni asiatiche come il Rajasthan (dove un’alterazione del monsone porta tra 1300 e 900 a.C. a una riduzione del 70% delle piogge) o la Cina del tramonto della dinastia Shang (finita nel 1122), dove il sole è coperto dalla «nebbia secca» e le acque del Fiume Giallo dal ghiaccio notturno. In tutte queste fasi, la siccità determina crisi agro-alimentari che scatenano o almeno amplificano tutti i fattori evocati da Cline: la delegittimazione politica del sovrano e del Palazzo, le conseguenti rivolte, gli abbandoni delle città-stato. 
Quanto all’inevitabile attivarsi di paralleli/paragoni tra il dissolvimento del sistema-mondo del 1200 a.C. (o tra altri crolli imperiali, a partire da quello romano) e la crisi del nostro (a partire dal «declino» dell’Occidente), si tratta di una pulsione naturale da manovrare con cautela; di un tentativo, non sempre fondato, di proiettare schemi del passato («invarianze» istruttive) in possibilità previsionali. A colpo d’occhio, tra l’Età del Bronzo e oggi risaltano drastici salti demografici (100 milioni di abitanti contro 7 miliardi), economici (dall’economia di scambio alla finanza) e tecnologici (tra le tavolette accadiche e un iPad c’è una sovrapposizione solo geometrica). Dopo di che, non c’è dubbio che certe sollecitazioni andrebbero colte, per esempio proprio sul mutamento climatico. Quando le divinità dei loro pantheon «meteorologici» bloccavano le piogge (l’accadico Adad che «volge le spalle» al popolo), le comunità incolpavano la cattiva mediazione del sovrano (il Gran Re ittita verso il «dio delle Intemperie»); oggi, al contrario, siamo indulgenti e inerti con un establishment politico-economico che continua a sottovalutare l’impatto dell’attività antropica. Forse perché lo siamo, prima ancora, con noi stessi, convinti di poter esorcizzare l’allarme climatico con qualche film apocalittico o qualche residuo di utopia ecologista. 

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