domenica 30 novembre 2014

La conquista di Bisanzio nel racconto di Niceta Coniata


Niceta Coniata: Grandezza e catastrofe di Bisanzio. Narrazione cronologica, testo critico di Jan-Louis van Dieten, traduzione di Anna e Filippo Maria Pontani, commento di Anna Pontani, Fondazione Valla-Mondadori, pagine LXXX-650, e 30

Risvolto
Il 12 aprile 1204 i crociati conquistarono e presero a saccheggiare Costantinopoli. È l'evento che, insieme alla narrazione drammatica della cosiddetta quarta Crociata, domina questo terzo e ultimo volume della "Grandezza e catastrofe di Bisanzio" - la "Narrazione cronologica" - di Niceta Coniata, che ne è stato testimone oculare. Gli efferati Latini - i normanni, i tedeschi, i francesi, i veneziani - non conoscono pietà. Entrano a Bisanzio con furia peggiore di quella dei barbari: mostrando un disprezzo senza pari per gli abitanti sconfitti, e vendicandosi dell'immane massacro che nel 1182 era stato compiuto degli abitanti cattolici della città, non risparmiano né vecchi né bambini. Separano le famiglie, rapiscono, violentano, uccidono. La popolazione, stremata, emerge dalle sue case "avvolta in stracci, emaciata dal digiuno, mutata di colore, con l'aspetto cadaverico e gli occhi iniettati di sangue". Non sa, neppure, dove fuggire, perché gli invasori non tralasciano di perlustrare un solo angolo, né rispettano luogo sacro che possa offrire rifugio: "dovunque uno corresse, veniva tirato via dai nemici che irrompevano ed era portato dove quelli volevano". Niceta stesso, grande logoteta, già cancelliere e segretario dell'imperatore, fugge verso Nicea. Uno spettacolo desolante si fissa nella sua mente, che lo rievocherà con accenti furibondi ed echi continui dei grandi scrittori classici...
Considerato, insieme a Michele Psello e ad anna Comnena, uno dei tre principali storici di Bisanzio, niceta è uno dei pochi letterati bizantini la cui vita sia relativamente ben conosciuta. nato a Cone, in asia Minore, tra il 1150 e il 1155 e appartenente a una famiglia di piccola nobiltà locale, dopo aver compiuto studi di retorica e giurisprudenza, niceta diventò segretario imperiale, oratore di corte, governatore di Filippopoli, responsabile dell'amministrazione centrale. Quando i Crociati conquistarono Costantinopoli (1204), fuggì a nicea, dove morì nell'indigenza (1217).
I 19 libri della Narrazione cronologica di niceta Coniata, che la Fondazione valla pubblica in tre volumi col titolo Grandezza e catastrofe di Bisanzio, raccontano gli eventi accaduti a Bisanzio tra il 1118 e il 1206. la prima data segna l'avvento al trono di Giovanni Comneno (dove si conclude l'Alessiade di anna Comnena) e la seconda la caduta della città e dell'impero bizantino. In questo ultimo volume, le vicende storiche si intrecciano progressivamente e tragicamente a quelle personali di niceta. attraverso la descrizione del regno di alessio III (libri xv-xvI), del fratello Isacco II (libro xvII) e di alessio duca (libro xvIII), assistiamo al progressivo inesorabile indebolirsi dell'impero e della sua autorità. È un crescendo drammatico, che culmina con l'arrivo dei Crociati, l'assedio e la conquista della città. Il testo critico è quello classico di van dieten; il denso commento di anna Pontani; la traduzione, della stessa Pontani insieme al figlio Filippomaria, rende mirabilmente la densità e l'audacia espressiva di niceta; numerose le cartine e le tavole genealogiche.

Costantinopoli brucia
I crociati accesero fuochi in diversi punti della città saccheggiata nel 1204 La quarta spedizione partì contro gli infedeli e portò alla conquista di Bisanzio, come narra l’opera di Niceta Coniata edita da Fondazione Valla-Mondadori
di Pietro Citati Corriere 29.11.14
Per i crociati che raggiunsero Costantinopoli, in occasione della quarta crociata, tutto quello che accadde per mare e per terra fu uno spettacolo straordinario e coloratissimo. La galera su cui partì il doge di Venezia, racconta Robert de Clari (Le Crociate, a cura di Gioia Zaganelli, Meridiani Mondadori), era tutta vermiglia, coperta da una tenda di sciàmito vermiglio: quattro trombe e molti timpani suonavano a festa. I signori, i chierici e i laici, umili e potenti, mostrarono un tale entusiasmo «che non si vide e non si udì l’eguale, né mai fu vista una simile flotta». I preti cantarono il Veni Creator Spiritus; e piansero per l’emozione e la gioia. Duecento trombe, in argento e bronzo, squillarono alla partenza insieme a timpani, tamburi e altri strumenti. Sembrava che il mare fosse un vasto brulichio, infiammato di gioia. «Era a vedersi la più bella cosa — dice Robert de Clari — che non fosse dal principio del mondo». 
Quando le navi arrivarono a Costantinopoli, furono ornate e guarnite in modo sontuosissimo. Appena gli abitanti di Costantinopoli scorsero quella flotta così splendidamente equipaggiata, la guardarono ammirati, salendo sulle mura e sui tetti delle case; mentre quelli della flotta osservarono la grandezza della città tanto estesa in larghezza quanto in lunghezza, quelle alte mura e quelle torri possenti, quei ricchi palazzi e le ricchissime chiese, e provarono un intenso stupore. 
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Il terzo volume della Grandezza e catastrofe di Bisanzio di Niceta Coniata ( Narrazione cronologica , testo critico di Jan-Louis van Dieten, traduzione di Anna e Filippo Maria Pontani, commento di Anna Pontani, Fondazione Valla-Mondadori, pagine LXXX-650, e 30) ci racconta la quarta crociata con lo sguardo della classe dirigente bizantina. Niceta Coniata nacque, intorno al 1150, a Coni, in Asia Minore, da una famiglia di piccola nobiltà locale. Andò a Costantinopoli da bambino, per prepararsi alla carriera amministrativa. Rivestì la carica di segretario imperiale, di oratore di corte, di governatore di Filippopoli, di giudice superiore, di capo degli uffici centrali. Durante la quarta crociata, fu il primo ministro dell’imperatore di Bisanzio. La Narrazione cronologica è uno dei più grandi libri di storia che siano mai stati scritti: ricchissimo di patos, di tragedia, di immaginazione metaforica, di furibondo grottesco. 
Niceta Coniata amava appassionatamente e disperatamente Costantinopoli, l’impero, la cristianità bizantina. «O impero romano — scriveva —, realtà celeberrima, dignità invidiata e venerata da tutti i popoli, che gente violenta hai dovuto soffrire! Che bruti si sono rivoltati contro di te! Che amanti sono impazziti per te!… Ah quali nefandezze! Quali cose hai dovuto vedere!...». «O città, città, pupilla di tutte le città, fama mondiale, spettacolo oltremondano, nutrice della Chiesa, guida della fede, custode dell’ortodossia, dimora di ogni bellezza… Chi tra gli uomini ha tanta copia di lacrime e di lamenti da poter degnamente piangere e salutare con le lacrime tutto questo?». Adorava le chiese, i palazzi, gli altari, gli ori, le gemme e le reliquie delle chiese, e tutti i luoghi attorno a Costantinopoli: dove spirava sempre una mite e vivificante brezza da settentrione, delfini saltavano piacevolmente sulle onde, da ogni parte sorridevano le dolcezze dei bagni, e le orecchie si ricreavano «col magico verso» degli usignoli. 
Nella seconda metà del XII secolo, Niceta Coniata scorgeva con i suoi occhi acuti e tragici — solo l’acume della vista permette di raccontare la storia — la decadenza dell’impero allargarsi, diffondersi e diventare catastrofe. I bizantini avevano perduto l’esperienza politica e guerriera del passato: avevano distrutto gli elementi sani della società, l’aristocrazia militare e provinciale: le famiglie regali erano state sterminate o allontanate dal potere; e la corte era in mano alla burocrazia degli eunuchi. «L’impero dei romani era ridotto a nient’altro che a crapula e ad ebbrezza», commentava Niceta Coniata. «Il peggio vince sempre, soprattutto presso i costantinopolitani». Non credo che il suo sguardo fosse oggettivo, tanto era dominato dal furore. I suoi ritratti imperiali sono terribili, più terribili di quelli che aveva tracciato due secoli prima Michele Psello: egli non scorgeva negli imperatori che avidità, avarizia, prodigalità, dissipazione, licenza, arroganza, sfrontatezza, stoltezza, malattie dei corpi troppo nutriti. Non c’era via di scampo: dove Niceta guardava era male: erano avidi ed empi i banchieri, i commercianti, gli artigiani, il popolo che si rivoltava continuamente, distruggendo i palazzi nobiliari e le chiese e rovinando gli imperatori. 
Come tutti gli scrittori e i politici bizantini, Niceta Coniata aveva una profonda passione teologica: discuteva, nella Narrazione cronologica , la presenza di Cristo nelle specie del pane e del vino; ma non tollerava che le cose sacre fossero portate alla luce e discusse nei trivi, come se fossero cose di poco conto. Non sopportava nemmeno la diffusione della cultura magica e astrologica, e tanto meno che gli imperatori e le imperatrici invocassero le stelle e scrutassero le costellazioni prima di prendere una qualsiasi decisione o semplicemente «muovere un passo». 
Da un lato, Niceta Coniata pensava che il caso fosse presente in modo intensissimo in ogni evento: tutto era caso, il passato, il presente e il futuro; non possiamo mai prevedere ciò che accadrà, perché il futuro non affonda nel passato. Dall’altro lato, egli era un cristiano: i libri e le dottrine sacre gli avevano insegnato che la Provvidenza domina gli eventi, li guida e li trasforma a suo modo. «Dio mostra che è lui il padrone delle ore e dei tempi, e che è lui a dirigere o a impedire il passo dei mortali». La giustizia divina osserva attentamente le azioni degli uomini e li premia e li punisce. 
Ma l’azione di Dio è oscura. Non riusciamo a capire cosa Egli ci voglia dire o ci suggerisca. La Provvidenza può essere doppia o molteplice; e propone lo stesso uomo come «esempio di altezza sovrumana» o di infinita umiliazione. Nel caso della distruzione di Costantinopoli, ora sembra che Niceta Coniata vi scorga soltanto l’opera di un caso o di un fato maligno, ora sembra che tutto ciò che accade dal 1202 al 1207 sia foggiato dalle nascoste mani di Dio, che voleva mandare un segno agli amati ma peccaminosi abitanti di Costantinopoli. I bizantini dovevano cogliere questo segno, comprendendo che la distruzione della città era stata una punizione provvisoria, perché Dio «si astiene dall’eccesso». Così a volte Niceta Coniata si libera dal suo pessimismo e cerca luci che lascino intravedere il ritorno dei bizantini a Costantinopoli. 
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Il giudizio di Niceta Coniata sui crociati non potrebbe essere più negativo, sebbene a tratti — per lampi — egli senta in loro qualcosa di robusto e di nobile. Sono iracondi: «Hanno gli orecchi rossi dal riverbero del fuoco dell’ira»; e sempre pronti a prendere in mano la spada e a ferire, uccidere, distruggere, senza ascoltare mai la ragione. Sono dissennati: ignorano completamente quella sottile diplomazia, alla quale i bizantini ricorrevano per avere rapporti con tutti i popoli e le persone. Sono vanitosi. Sono incapaci di amare il bello: «Nessuna delle Grazie e delle Muse trova ricetto presso di loro», dice Niceta Coniata. Pretendono di liberare il sepolcro di Cristo: mentre «inseguendo la vendetta del Santo Sepolcro, infuriano apertamente contro Cristo e, con la croce, perpetuano le distruzioni della croce che recano sul dorso». Molto più intelligenti sono i musulmani, e specialmente il loro capo, il Saladino: con loro i bizantini intrattengono da secoli un rapporto discreto. 
Costantinopoli era piena di statue greche, che Costantino I e i suoi successori avevano portato dalla Grecia. Piuttosto che un’interpretazione cristiana, i bizantini davano loro un’interpretazione magico-profetica: per esempio la statua stendeva il braccio destro verso la Luna e il Sole, affinché smettessero di procedere verso la città. Niceta Coniata descrive con squisita eleganza la statua di Atena Promachos eretta da Fidia ad Atene, all’esterno del Partenone, e quella di Elena. Atena era una gigantesca statua bronzea, che portava sul petto l’immagine della Gorgone. «A tal punto — diceva Coniata — il bronzo si trasformava docile ad imitare ogni singola parte, che le labbra davano l’impressione, che, a voler aspettare, si sarebbe udita una voce soave. Il capo tutto morbido si piegava nei punti in cui doveva, e, pur essendo ben lungi dalla vita, aveva preso della sua fioritura, come se fosse vivo, e faceva fluire negli occhi ogni desiderio. I capelli che scendevano dalla fronte erano una delizia per gli occhi, in quanto non erano interamente contenuti dall’elmo, ma lasciavano intravedere qualche ricciolo. Aveva il capo lievemente inclinato verso sud, e lo sguardo degli occhi che si volgeva in eguale direzione». Per questa ragione, la folla di Costantinopoli sostenne che l’Atena di Fidia volesse invitare gli invasori crociati ad assalire la città; e la distrusse furiosamente. 
Alla fine Niceta Coniata contemplò, rabbrividendo, l’incendio che distrusse la sua amatissima città d’oro, di diamante e di perle. I crociati si collocarono in molti luoghi di Costantinopoli, distanti gli uni dagli altri, e appiccarono il fuoco alle case. Il fuoco si levò più alto di ogni immaginazione per tutta quella notte, per il giorno seguente e fino alla sera del giorno successivo, consumando ogni cosa. L’incendio si disperdeva in vari luoghi, interrompeva la sua continuità e poi di nuovo si richiudeva su sé stesso, come un gorgo di fuoco. Rovinavano portici, splendidi ornamenti di piazze erano abbattuti, possenti colonne ardevano in pezzi come legna da ardere. L’incendio era inusitato, superiore ad ogni facoltà di racconto: lo spettacolo era ineffabile, com’è ineffabile tutta la storia, che Niceta Coniata ci racconta con tanto ardore e dolore. 

Historia magistra? Dannate crociate!
di Carlo Carena Il Sole Domenica 8.3.15
Niceta Coniata era figlio di piccoli nobili, nato a metà del XII secolo nella piccola cittadina di Cone in Asia Minore nell’immenso impero bizantino. La sua vita trascorse attraverso gli alti e bassi del suo tempo catastrofico per chiunque, imperatore o contadino, militare o letterato. Fu oratore a corte, alto magistrato e burocrate, finché nella primavera del 1204 il turbine della Quarta Crociata travolse tutto e tutti e il povero Coniata come Enea alla caduta di Troia si carica in braccio i figlioletti e assieme agli altri familiari migra verso Nicea, dove i Bizantini cercano di ristabilire le loro forze. E a Nicea morirà, sessantenne, nel 1217, lasciando un racconto storico e una testimonianza diretta impressionanti – per forza di cose e di fantasia – del suo secolo: «Una delle opere storiche più significative del Medioevo» suggerisce Alexander Kazhdan, bizantinista alla Harvard University, nell’Introduzione all’edizione critica greco-italiana che ne dà la Fondazione Valla-Mondadori. Coniata, ci spiega ancora Kazhdan, «fu un uomo onesto e coraggioso, un grande storico, un grande scrittore, con una capacità tutta sua di afferrare le emozioni della massa e un vocabolario immensamente ricco» La vastità della sua opera è attestata dall’impegno richiesto e profuso in questa stessa edizione, che iniziata nel ’94 si conclude ora col terzo volume, anch’esso curato da Anna Pontani: 200 pagine di greco, 200 di italiano, 200 di note.
La catena degli avvenimenti che si snoda in tutto il corso dell’opera come un turbine ininterrotto culmina in questi ultimi libri, XV-XIX, col racconto autoptico della catastrofe finale, la presa e devastazione della capitale dell’Impero d’Oriente e il destino dei suoi abitanti, quando vi si avventano i crociati occidentali. Francesi e veneziani, partiti per la Palestina su esortazione e con la benedizione di Innocenzo III, essi deviarono verso terreni più pingui e proficui; verso il vacillante e ricco impero dei Romani, come i Bizantini si definivano di fronte a questi europei, spregevoli Latini.
Niceta sciorina una tale quantità di dettagli sull’assedio e sulla loro irruzione nella città del Bosforo da meritare l’entrata ai primi posti in un’antologia dell’horror che, iniziata con gli Edipidi, sembra non avere mai fine. In verità non occorrevano nemmeno doti di scrittore per tracciare pagine imbarazzanti. Lo stesso Innocenzo III nei suoi Gesta accusò i Crociati di non aver rispettato nella loro libidine né età né sesso né religione commettendo in pieno giorno «le azioni delle tenebre». Anche il bottino materiale fu immenso, ori sete velluti arricchirono quegli «stallieri e bovari» trattenuti a stento dai loro capi. Dalla cattedrale di Santa Sofia fu asportato ogni fregio, paramento, reliquia. A loro volta, gli intrecci di parentele e gli intrighi alla corte dei “Romani” si susseguono regolarmente a ogni morte e assassinio di sovrano con poche amene e geniali variazioni negli strumenti e nelle citazioni della Bibbia. Esemplare nel secondo tomo la storia dell’ascesa al trono di Andronico Comneno nel 1181, che nel fasto della regalità e nella sacralità della basilica cristiana, dopo essersi comunicato col corpo e col sangue di Cristo, tesse le lodi del nipote Alessio e poco dopo lo fa strangolare prendendo a calci nell’inguine il cadavere prima di farlo gettare in mare e citando un verso di Omero per cui «non è bello il comando di molti». Alessio aveva quindici anni ed era fidanzato con una principessa francese di undici. Andronico la sposa, lui «un vecchione incestuoso aggrinzito e cadente» e lei «una ragazzina dai seni diritti»: che però ci sta. Niceta, col suo greco massiccio, è altrettanto formidabile nell’uso delle metafore per descrivere tutti questi stati d’animo e questi atteggiamenti, o le rivolte popolari e le danze nelle piazze. In coda a questo terzo volume della Cronaca “di Niceta Coniata Buonanima” si trova anche un suo supplemento di poche pagine dal titolo Le statue: un prospetto riassuntivo dei saccheggi, distruzioni e profanazioni operati in occasione di quella Crociata dai Veneziani a Costantinopoli, «secondo chissà quale disegno del Signore che ha allestito e guida questa nave che è il mondo» e sotto la guida del nuovo patriarca imposto da Venezia, un personaggio bieco «di statura media e più pingue di un maiale all’ingrasso». Gruppi statuari in bronzo della più varia bellezza e fantasia, di dèi e animali furono fusi per farne monete. Così un’Elena splendida come sempre, sorridente con gli occhi vaghi e la chioma al vento; un Ercole di Lisimaco enorme, seduto sulla pelle del leone Nemeo il quale anche nel bronzo lanciava sguardi terribili, e col braccio mancino appoggiato sul ginocchio non come un atleta ma come un filosofo e come un qualsiasi mortale piangendo sulle proprie sventure... Ultimo sfregio a una civiltà, compiuto «da barbari analfabeti», impazienti perfino per la lentezza con cui Dio ritardava le loro conquiste. Quando parla di loro Niceta ha il vigore e lo sdegno mutuati dagli antichi profeti, e come un antico profeta piange ad alti toni per la desolazione di chi un tempo illustre è ridotto senza città e senza focolare.

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