mercoledì 19 novembre 2014

Toni Negri su Agamben e "L'uso dei corpi"

L'uso dei corpi
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Giorgio Agamben, quando l’inoperosità è sovrana
Saggi. «L’uso dei corpi» del filosofo italiano affronta il problema di una vita felice da conquistare politicamente. Ma dopo aver preso congedo dalle teorie marxiste e anarchiche sul potere, l’esito è uno spaesante sporgersi sul nulla
Toni Negri, il Manifesto 19.11.2014

È un gran libro meta­fi­sico, que­sto di Gior­gio Agam­ben che espli­ci­ta­mente con­clude la vicenda dell’Homo sacer (L’uso dei corpi, Neri Pozza Edi­tore, pp. 366, euro 18). Pro­prio per­ché meta­fi­sico è anche un libro poli­tico, che in molte sue pagine ci resti­tui­sce l’unico Agam­ben poli­tico che cono­sciamo (quando «poli­tica» signi­fica «fare» e non sem­pli­ce­mente stro­lo­gare sul domi­nio, alla maniera dei giu­ri­sti e degli ideo­logi), quello de La comu­nità che viene. Ma in senso inverso, rove­sciato. Il pro­blema è sem­pre quello di una vita felice da con­qui­stare poli­ti­ca­mente ma, dopo vent’anni, que­sta ricerca non con­clude né alla costru­zione di una comu­nità pos­si­bile né alla defi­ni­zione di una potenza – a meno di non con­si­de­rare tale la «potenza desti­tuente», auspi­cata in con­clu­sione della ricerca. In quella pro­spet­tiva, la feli­cità con­si­ste­rebbe nella sin­go­lare con­tem­pla­zione di una «forma di vita» che ricom­ponga zoé e bíos e d’altra parte nella disat­ti­va­zione della loro sepa­ra­zione, impo­sta dal dominio. 
Nella «forma di vita» così defi­nita, la potenza si pre­senta come uso ino­pe­roso; la «nuda vita» non sarebbe allora più iso­la­bile da parte del potere; qui invece sta­rebbe il prin­ci­pio del comune: «comu­nità e potenza si iden­ti­fi­cano senza resi­dui, per­ché l’inerire di un prin­ci­pio comu­ni­ta­rio in ogni potenza è fun­zione del carat­tere neces­sa­ria­mente poten­ziale di ogni comu­nità». Solo allora avremmo di nuovo una poli­tica della feli­cità. E qui comin­cia il dif­fi­cile: quel «solo allora», quel futuro… Se tutto ciò si svolge nel tempo, in un tempo non ancora finito – richiede una strana teleo­lo­gia, que­sto per­corso: una forma di vita che è anche una forma di spe­ranza? Comun­que, già nell’«Avvertenza», Agam­ben ci svezza da ogni illu­sione – que­sto libro non è «né un nuovo ini­zio né una con­clu­sione», la teo­ria «sgom­bera solo il campo dagli errori», e quando li ha ridotti all’inoperosità, la teo­ria apre alla pratica. 

Assenza di movimento 
Se le cose stanno così, occor­rerà in primo luogo fis­sare uno stru­mento, costruire un punto di vista che inse­gua quell’orizzonte non ancora finito. Come dare futuro alla forma di vita e potenza all’inoperosità: alla «potenza desti­tuente»? La trama del libro si con­cen­tra su que­sto com­pito. Ritor­niamo un momento indie­tro. Si sa che nella nuda vita risiede la con­di­zione dell’esercizio del potere. È nell’eccezione che l’homo sacer è incluso/escluso dalla città ed è sull’eccezionalità che il potere si fonda. Que­sta, di tono sch­mit­tiano, è null’altro che una nuova maniera di dire Tho­mas Hob­bes. Su que­sto snodo, tut­ta­via, l’insistenza è stata estrema. Come uscire da que­sta con­di­zione? La comu­nità che viene nel ’90 ci mostrava il nega­tivo, la man­canza, risco­perti e coperti dal desi­de­rio – oggi invece vi è solo potenza desti­tuente, la con­vin­zione che non vi sia alter­na­tiva alla fuga nel con­fronto con il potere. Il potere è domi­nio. Esso non ha interna dina­mica né rela­zione, sostiene Agam­ben. Nes­sun movi­mento: quindi, per esem­pio, ogni potere costi­tuente non è ete­ro­ge­neo ma con­su­stan­ziale al potere costi­tuito; ed ogni arché è insieme ori­gine e domi­nio, sor­gente e ordine – quindi que­sti rap­porti vanno in ogni caso disin­ne­scati per­ché in quella pro­spet­tiva l’archeologia filo­so­fica può solo rag­giun­gere un punto di ori­gine ambi­guo, e si tratta, secondo Agam­ben, di disat­ti­vare que­sta ori­gine. La sua disat­ti­va­zione è l’inoperosità. Resta il pro­blema: e se invece il rap­porto arche­tipo, origine-comando, fosse solo modello di misti­fi­ca­zione, di legit­ti­ma­zione di un potere sovrano? È a que­sta que­stione che deve rispon­dere il filo­sofo poli­tico: che fare? Come aprire la temporalità? 
Agam­ben si era a que­sto scopo in pas­sato affi­dato a Hei­deg­ger – ora non più. Già nel Regno e la glo­ria, l’allontanamento da Hei­deg­ger era sem­brato par­ti­co­lar­mente forte. Qui, è con­fer­mato, e lo è in maniera defi­ni­tiva. La rot­tura infatti riguarda la dimen­sione stessa dell’essere hei­deg­ge­riano, la sua costi­tu­tiva rela­zione tem­po­rale, la tona­lità emo­tiva fon­da­men­tale che domina il pen­siero di Hei­deg­ger. È una pos­si­bi­lità ancora troppo densa, troppo piena di tem­po­ra­lità: essa asse­gna ancora all’uomo l’umanità come com­pito e que­sta deter­mi­na­zione può sem­pre aprirsi ad un’indicazione poli­tica, ad un com­pito poli­tico (affer­ma­tivi? reali? il nazi­smo di Hei­deg­ger lo è certo stato). Ed anche quando il vivente si è nell’ultimo Hei­deg­ger ridotto ad un esserci che ha affer­rato la sua ani­ma­lità e ha fatto di que­sta la pos­si­bi­lità dell’umano, Agam­ben con­si­dera tutto ciò ancora interno ad una sto­ria meta­fi­sica dell’essere, lo imputa all’incapacità di sot­trarsi alla rela­zione e all’opera. Che estrema, ma anche strana, con­clu­sione! Per evi­tare una rispo­sta al que­sito sulla tem­po­ra­lità, ripiega anche lui – Agam­ben – sull’animalità, retro­gre­dendo il pro­blema, lo ada­gia su un natu­ra­li­smo mitico. L’intero «Inter­mezzo II» mostra la disar­ti­co­la­zione della tem­po­ra­lità e del pro­getto in Hei­deg­ger come defi­ni­ti­va­mente con­trad­di­to­rie ed inso­lu­bil­mente legate all’incapacità di distin­guere l’«essere-gettato» e l’«essere-portato». 

Le cop­pie irriducibili 
Anche a Fou­cault, Agam­ben aveva dato fidu­cia nel ten­tare di risol­vere quel pro­blema della tem­po­ra­lità. Ora non più. Altret­tanto vio­lenta è infatti qui la rot­tura con il pen­siero di Fou­cault e con la tema­tica bio­po­li­tica. Ciò che ad Agam­ben è insop­por­ta­bile in Fou­cault è il fatto che egli abbia evi­tato quel con­fronto con la sto­ria dell’ontologia che Hei­deg­ger si era dato come com­pito pre­li­mi­nare (ma non era appunto quanto si rim­pro­vera ad Hei­deg­ger?). La forma di vita in Fou­cault non si distacca mai dalla rela­zione con sé e con gli altri, rimanda ad una sog­get­ti­va­zione etica che s’organizza in rap­porti stra­te­gici – tutto ciò è da Agam­ben viva­mente riget­tato. È solo nell’ingovernabile, nell’inoperoso, dun­que, visto dal punto di vista etico, che la vita si dà. Nell’«Intermezzo I», Agam­ben fa i conti con Fou­cault e li fa di nuovo attorno alla cop­pia potere costituente-potere costi­tuito, soggettivazione-governo che costi­tui­scono per lui un rap­porto onto­lo­gi­ca­mente irri­du­ci­bile. «Ciò che Fou­cault non sem­bra vedere … è la pos­si­bi­lità di una rela­zione con sé e di una forma di vita che non assu­mano mai la figura di un sog­getto libero; cioè (se le rela­zioni di potere riman­dano neces­sa­ria­mente ad un sog­getto) di una zona dell’etica del tutto sot­tratta ai rap­porti stra­te­gici, di un Ingo­ver­na­bile che si situa al di là tanto degli stati di domi­nio che delle rela­zioni di potere». 
Non era dif­fi­cile imma­gi­nare che sarebbe andata a finire così e cioè nella ripe­ti­zione di una fuga dall’essere nella quale anche lo sbat­tere sul niente viene ricon­ver­tito nella feli­cità. Agam­ben, dopo tanti anni, corre il rischio di ritro­varsi d’accordo con Mas­simo Cac­ciari. Che quella ino­pe­ro­sità dovesse rea­liz­zarsi in un amplesso senza gioia di gene­rare e dove solo il con­tatto, pun­tuale e dispe­rato col nulla, por­tasse testi­mo­nianza dell’essere – i volumi pre­ce­denti, l’intero corso di Homo sacer lo aveva fatto sospet­tare. Ora è detto. Quanto dolore ci sta dentro. 

Il pro­blema della tecnica 
Ma pren­dia­mole una per una que­ste derive dell’inoperosità. Pren­diamo ad esem­pio l’affermazione che il potere costi­tuente sia del tutto legato e null’altro che imma­nente a quello costi­tuito. Il potere costi­tuente è, prima di tutto, lotta con­tro il potere costi­tuito: certo, ma anche lotta con­tro se stesso. Il potere costi­tuente è, sem­pre, desi­de­rio, movi­mento, rap­porto di forza. Nel bio­po­li­tico esso è ricon­dotto al con­cetto di lavoro-vivo, è dun­que posto in una rela­zione che lo rende, ad un tempo, asim­me­trico rispetto al potere costi­tuito e deci­sivo tut­ta­via non solo nel riqua­li­fi­care la realtà di quest’ultimo ma anche nel supe­rarne la deter­mi­na­zione. Se la deriva ino­pe­rosa di Agam­ben è intesa a chia­rire que­sta dina­mica costi­tuente e quindi (senza che egli lo voglia) a chia­rirne anche l’effetto desti­tuente che in esso vige, la deriva è utile. 
C’è un altro punto par­ti­co­lar­mente inte­res­sante in que­sto libro ed è l’analisi lar­ga­mente por­tata da Agam­ben sul pen­siero hei­deg­ge­riano della tec­nica. La prende da lon­tano, Agam­ben, que­sta sto­ria, dalla figura dello schiavo così come è defi­nito in Ari­sto­tele – per giun­gere a con­clu­sioni che rove­sciano la desti­na­lità nihi­li­sta della tec­nica in Hei­deg­ger. «La schia­vitù sta all’uomo antico come la tec­nica all’uomo moderno: entrambe, come la nuda vita, custo­di­scono la soglia che con­sente di acce­dere alla con­di­zione vera­mente umana ed entrambe si sono rive­late ina­de­guate allo scopo, la vita moderna rive­lan­dosi alla fine non meno disu­mana dell’antica». Eppure, die­tro la scon­so­lata con­sta­ta­zione, c’è qui un recu­pero (final­mente!) della cor­po­reità, dell’ergon (lavoro) come uso ope­roso del corpo – se la tec­nica ha un destino eti­ca­mente nega­tivo, vi è tut­ta­via qui per la prima volta un recu­pero del corpo al destino, una «stru­men­ta­lità ani­mata», die­tro la quale appare con forza quella stessa rela­zione costitutiva-destitutiva che il potere costi­tuente pro­po­neva. Una riap­pro­pria­zione di capitale-fisso da parte del lavoro vivo? 
E ancora, quando vogliamo espe­rire il mondo come bene supremo, quando ponendo il rifiuto della pro­prietà, del pro­prio, rico­no­sciamo l’uso in rela­zione all’inappropriabile – anche in que­sto caso quell’ambiguità intrin­seca della rela­zione si spacca: per­ché da un lato c’è nell’uso il rischio di annul­larsi nell’inappropriabile; dall’altro, den­tro que­sta ten­sione all’inappropriabile, rico­no­sciamo l’enorme posi­ti­vità dell’essere comune della potenza. All’animale la prima desti­na­zione, all’uomo la seconda. Il fran­ce­sca­ne­simo ha vis­suto que­sta alternativa. 
Ed è così ovun­que, in que­sto libro, dove ogni qual­volta la rela­zione pone con tutta la sua forza l’opera a con­fronto dell’effetto nega­tivo del domi­nio che la divora e la distrugge, ogni volta ci ritro­viamo nell’alternativa fra il chiu­dere la rela­zione fuori dalla rela­zione stessa, nell’illusione astrat­ta­mente logica di un esser fuori da ogni rela­zione – di immer­gersi in una sorta di béance, una ino­pe­ro­sità come vuoto impos­si­bile da riem­pire – oppure, come in ogni radi­cale espe­rienza dell’immanenza (come in Spi­noza), lì si trova l’altro corno della con­trad­di­zione, quello della pie­nezza ope­rosa, etica, poli­tica della beatitudine. 

Il fon­da­mento del soggetto 
A me, che sono mar­xi­sta, que­ste para­bole agam­be­niane fanno l’effetto di assi­stere ad uno spet­ta­colo nel quale qual­cuno ha colto il pro­blema e non vuole, meglio, non può più risol­verlo. Che cosa vuol dire disat­ti­vare il dispo­si­tivo dell’operare? Per un mar­xi­sta signi­fica disat­ti­vare la rela­zione fra il domi­nio capi­ta­li­sta e il lavoro vivo: una rela­zione che è sem­pre chiusa den­tro il capi­tale ma che, allo stesso tempo, è sem­pre fuori, asim­me­trica, auto­noma dal capi­tale – una rela­zione che il lavoro vivo mostra del tutto fuori-misura sul lato della pro­dut­ti­vità che solo il lavoro vivo pro­duce. Può il lavoro vivo stac­carsi dal capi­tale o essere stac­cato dal capi­tale? Lo può, orga­niz­zan­dosi e rom­pendo il rap­porto. Una rot­tura mai piena, ma che sem­pre si ripete e si ripe­terà, inscri­ven­dosi onto­lo­gi­ca­mente nella sto­ria dell’essere. Rifiu­tare di vedere que­sta rela­zione come l’unico destino pre­sente all’opera, è il difetto di Agamben. 
Agam­ben, in que­sto suo lavoro, ha tut­ta­via in modo netto e posi­tivo defi­nita l’attuale situa­zione della ricerca onto­lo­gica. Dopo Hei­deg­ger, nel post­mo­derno, l’ontologia si defi­ni­sce non più come il fon­da­mento del sog­getto ma come una mac­china lin­gui­stica, pra­tica e coo­pe­ra­tiva, come tes­suto della pra­xis, ed il dispo­si­tivo onto­lo­gico come asse di ricom­po­si­zione costi­tuente dell’operare e del lin­guag­gio nel comune. Que­sta riqua­li­fi­ca­zione dell’ontologia porta a tutt’altro che al nulla. Una banda di «filo­sofi non pro­fes­sio­ni­sti», da Nie­tzsche a Ben­ja­min a Fou­cault, ha comin­ciato a leg­gere que­sto nuovo rap­porto onto­lo­gico come deci­sivo sull’orizzonte dell’operare. Ed ha ria­perto a Marx un ter­reno di azione. Que­sto Agam­ben sem­bra il dise­gno in nega­tivo di que­sta vicenda – ma il rico­no­sci­mento di una nuova epoca dell’ontologia è pieno. Grazie!


Giorgio Agamben e la politicità dello schiavo
Saggi . Le anticipazioni critiche dei temi divenuti poi centrali nella teoria politica. Dallo stato d’eccezione ai campi di internamento per migranti—  Marco Pacioni, il Manifesto 19.11.2014

Con L’uso dei corpi (Neri Pozza) Gior­gio Agam­ben porta a ter­mine una ricerca ini­ziata nel 1995 con Homo sacer:pro­getto e libro che hanno segnato la rifles­sione poli­tica di que­sti ultimi vent’anni. E ciò anche per­ché alcuni temi qui discussi hanno in alcuni casi per­sino anti­ci­pato o comun­que toc­cato sul vivo eventi tut­tora sen­si­bili. Si pensi ai geno­cidi che hanno chiuso il ven­te­simo secolo, ai nuovi campi di con­cen­tra­mento, ai muri nuo­va­mente innal­zati per sepa­rare le popo­la­zioni, allo stato di ecce­zione per­ma­nente dopo l’11 set­tem­bre, all’altrettanto per­ma­nente con­di­zione di debito cui la finan­zia­riz­za­zione dell’economia ha con­fi­nato i popoli, ai pro­fu­ghi, alle recru­de­scenti riven­di­ca­zioni di iden­tità etnica, al pro­blema di sta­bi­lire quando e quanto un corpo sia morto o ancora in vita. 
L’uso dei corpi non costi­tui­sce tut­ta­via una vera con­clu­sione, né tan­to­meno un nuovo ini­zio. Piut­to­sto, come avverte lo stesso Agam­ben, que­sto libro è una rica­pi­to­la­zione e uno svi­luppo ulte­riore di que­stioni trat­tate lungo l’intero tra­gitto di Homo sacer. 
Al prin­ci­pio di L’uso dei corpi vi è una que­stione a lungo dibat­tuta nella sto­ria: la figura dello schiavo, affron­tata qui a par­tire dalla Poli­tica di Ari­sto­tele e del diritto romano. 
Dall’interpretazione che Agam­ben dà del testo ari­sto­te­lico emerge che più che una classe sepa­rata di indi­vi­dui gli schiavi sono una parte inse­pa­ra­bile di noi stessi che dob­biamo tenere in con­si­de­ra­zione e in qual­che modo gover­nare per far sì che pos­siamo acce­dere alla vita poli­tica e diven­tare così pie­na­mente umani. Lo schiavo non è solo una figura rele­gata al pas­sato o pro­pria di cul­ture che non si sono eman­ci­pate demo­cra­ti­ca­mente, ma una con­di­zione rie­mer­gente con la quale sotto diverse forme con­ti­nuiamo a fare i conti. Lo schiavo non è chia­mato a pro­durre un’opera spe­ci­fica, ma a fare «uso del corpo», a fare quelle azioni che per­met­tono al resto del corpo indi­vi­duale e sociale di libe­rarsi. La sua atti­vità è in tal senso «ino­pe­rosa» non per­ché non fa nulla, ma per­ché non si iden­ti­fica in un pro­dotto finale. Svi­lup­pando quanto aveva già ampia­mente trat­tato in Altis­sima povertà Agam­ben sug­ge­ri­sce qui di assu­mere tali «uso del corpo» e «ino­pe­ro­sità» come le strade della poli­tica a venire. 
Si deli­nea così il biso­gno di un supe­ra­mento della stessa onto­lo­gia: la desti­tu­zione della domanda meta­fi­sica ed essen­zia­li­sta del «che cosa» con la domanda del «come». Per riu­scire in que­sto diventa cru­ciale supe­rare la stessa idea di rela­zione tra i due poli dell’essere. E ciò per­ché, come si è visto e come la sto­ria del pen­siero e quella poli­tica hanno dimo­strato, qual­siasi rela­zione tra atto e potenza si è tra­dotta sem­pre in una strut­tura gerar­chica che ha favo­rito sem­pre l’atto. Anche lad­dove, come in Kant, si è teo­riz­zata l’inaccessibilità all’essenza dell’essere, l’atto nella forma del dover-fare ha pre­valso ponen­dosi de facto come essenza. 
Per Agam­ben dun­que, atto e potenza non vanno pen­sati in rap­porto, ma sem­pli­ce­mente a con­tatto. Nel con­tatto si genera l’uso che va a costi­tuire l’essere stesso il quale non esi­ste prima o dopo atto e potenza. In tal senso, si potrebbe dire che l’uso è quell’atto impro­dut­tivo, inap­pro­pria­bile e inco­sti­tui­bile che mostra sol­tanto la forma della potenza. Potenza inco­sti­tui­bile è quella che, nella parte finale del libro dove la teo­ria filo­so­fica torna alla poli­tica, Agam­ben chiama «potenza desti­tuente», con rife­ri­mento cri­tico sia alle teo­rie rivo­lu­zio­na­rie che vedono l’emancipazione poli­tica nella pri­mi­ge­nia forza del potere costi­tuente, sia a quelle anar­chi­che che, pur abo­lendo il prin­ci­pio costi­tuente, non pos­sono però fare a meno di per­pe­tuare la vio­lenza del comando. Alla fine, diri­mente diventa il nodo tra vio­lenza e poli­tica che Agam­ben invita a scio­gliere sulla strada trac­ciata da Ben­ja­min in una nuova figura che sia oltre il diritto, in grado di desti­tuire ogni maschera del sovrano. Forse que­sta figura è simile a quella della schiava alla quale veniva affi­data la matassa del pen­sus – lon­tana e sem­pre pre­sente desti­na­ta­ria, custode e con­tem­pla­trice dell’unica atti­vità umana libera dal pro­durre iden­tità e gerar­chie che sepa­rano: il pen­siero.

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