martedì 9 dicembre 2014
La genesi del suprematismo occidentale nel Medioevo secondo Rodney Stark
Risvolto
L’Occidente non è più di moda, non sono più di moda i suoi valori e il
ruolo che ha svolto nella creazione della nostra civiltà è
sistematicamente contestato. Il politically correct lo ha
definitivamente ostracizzato, tanto che i corsi sulla civiltà
occidentale sono stati eliminati dalla maggior parte delle università
americane. La motivazione è che si tratterebbe di corsi «intrinsecamente
di destra», come di recente ha sentenziato il corpo docente
dell’University of Texas. Quanto a Yale, è arrivata al punto di
restituire un finanziamento di 20 milioni di dollari piuttosto che
reintrodurre tale materia d’insegnamento.
In aperta polemica con
questa posizione, Stark offre un’attenta e precisa analisi
dell’Occidente e dei suoi valori iniziando dal mondo antico. Seguendo
una rigorosa articolazione (epoca classica, alto Medioevo, basso
Medioevo, alba della modernità, epoca moderna), Stark confuta non solo i
luoghi comuni, ma anche le teorie enunciate da storici più o meno
illustri a partire dal cosiddetto Illuminismo, e ormai così radicate nel
sentire comune da essere considerate verità inconfutabili: dal ruolo
oscurantista della Chiesa in campo scientifico (Galileo docet, anche se
in realtà le cose non stanno proprio come si è voluto far credere), alle
innovazioni e scoperte erroneamente attribuite alla cultura islamica
(della quale si loda la «tolleranza» nei confronti di ebrei e cristiani,
in realtà mai esistita), al carattere esclusivamente oppressivo e
repressivo del colonialismo (di cui si dimentica la funzione
civilizzatrice). Per non parlare della tecnologia, oggi molto spesso
demonizzata, anche se è impossibile negarne l’importanza per la nascita e
lo sviluppo del mondo moderno.
Rodney Stark è sociologo della
religione e docente di Scienze sociali presso la Baylor University, in
Texas. Tra le sue numerose pubblicazioni, ricordiamo: La vittoria
della Ragione, Ascesa e affermazione del cristianesimo, La scoperta di
Dio, Un unico vero Dio, Gli eserciti di Dio, Le città di Dio, A gloria
di Dio, e Il trionfo del cristianesimo, tutte edite dalla nostra casa editrice.
Rodney Stark esalta la nostra civiltà, ne rilegge i momenti bui e critica aspramente il mondo islamico
Rino Cammilleri - il Giornale Ven, 12/12/2014 - 08:40
La rivoluzione del medioevo
Non un’epoca buia ma un tempo fecondo preparò le conquiste dell’occidente
di Paolo Mieli Corriere 9.12.14
Si
calcola che nel 430 a.C. gli abitanti di Atene fossero all’incirca 155
mila e che due o trecentomila persone vivessero nelle altre città-Stato
(70 mila a Corinto, 40 mila a Sparta). Al massimo i «greci» ammontavano a
mezzo milione di individui. I persiani, nella stessa epoca, erano
quaranta milioni. Eppure i primi ebbero la meglio sia sulla terra, a
Maratona (490 a.C.), che sui mari, a Salamina (480 a.C.). Di più. La
geografia della Grecia contraddice la tesi secondo cui in tempi
successivi la supremazia europea sarebbe stata riconducibile a
favorevoli condizioni geografiche. In Grecia, ha fatto osservare Leopold
Migeotte, persino le terre migliori erano sassose e la loro
produttività «mediocre». Victor Davis Hanson ha sottolineato che la
Grecia «non dispone neanche di un solo fiume navigabile e ha la
disgrazia di non avere risorse naturali». E invece i grandi imperi
dell’epoca — Egitto, Persia, Cina — occupavano enormi e fertili pianure,
attraversate da grandi fiumi. Eppure è lì — nell’Atene del VI e V
secolo a.C. — che ha avuto inizio quella che oggi chiamiamo la «civiltà
occidentale». Civiltà alla quale Rodney Stark ha dedicato un libro, La
vittoria dell’Occidente. La negletta storia del trionfo della modernità,
pubblicato dall’editore Lindau.
Per Stark il termine «modernità»
vuole indicare «quella miniera di conoscenze e procedure scientifiche,
di efficaci tecnologie, di successi artistici, di libertà politiche, di
meccanismi economici, di sensibilità morali e di miglioramento delle
condizioni di esistenza che caratterizzano le nazioni occidentali e ora
stanno rivoluzionando la vita nel resto del mondo». Con l’esplicita
implicazione che «quanto più le altre culture non sono state in grado di
adottare almeno gli elementi principali di quella occidentale, tanto
più sono rimaste arretrate e impoverite». I cinesi, ad esempio,
inventarono la polvere da sparo molto presto, eppure molti secoli dopo
non avevano artiglieria né armi da fuoco. Un’industria siderurgica fiorì
nel Nord della Cina nell’XI secolo, ma i mandarini della corte
imperiale dichiararono il ferro monopolio di Stato, se ne impadronirono e
così distrussero la produzione siderurgica cinese.
Già
nell’antichità, su tantissime tecnologie cruciali la Cina era molto
avanti rispetto all’Europa. Quando però i portoghesi vi arrivarono nel
1517, scrive provocatoriamente Stark, «trovarono una società arretrata
in cui le classi privilegiate ritenevano più importante azzoppare le
ragazzine bendando loro i piedi, che sviluppare tecniche agricole più
produttive di quelle che avevano per far fronte alle frequenti
carestie». Perché? E come è stato possibile «per un pugno di funzionari
inglesi coadiuvati da pochi ufficiali, di carriera e non, governare
l’enorme subcontinente indiano?» Perché la scienza e la democrazia sono
nate in Occidente, insieme all’arte figurativa, ai camini, al sapone,
alle canne dell’organo e a un sistema di notazione musicale? Perché è
accaduto che, per parecchie centinaia di anni a partire dal XIII secolo,
soltanto gli europei avevano gli occhiali e gli orologi meccanici? E
successivamente telescopi, microscopi e periscopi?
Il merito di
tutto quel che è accaduto in materia di sviluppo della civiltà va
attribuito alla circolazione delle idee. Sono le «idee», più che le
«forze economiche e materiali», all’origine della modernità. Sono le
«idee» che spiegano «perché la scienza sia nata soltanto in Occidente»:
solo gli occidentali «hanno pensato che la scienza fosse possibile, che
l’universo funzionasse secondo regole razionali che potevano essere
scoperte». E nel momento in cui riconosciamo il primato delle idee, «ci
rendiamo conto dell’irrilevanza delle interminabili discussioni
accademiche per stabilire se determinate invenzioni vennero messe a
punto autonomamente in Europa o furono importate dall’Oriente». Come la
polvere da sparo in Cina. Partito da queste premesse, Stark passa alla
confutazione di alcune opinioni assai diffuse sulla storia
dell’Occidente. Il primo impero sorse in Mesopotamia più di seimila anni
fa, poi vennero quelli egiziano, cinese, persiano e indiano. Tutti
furono travagliati da croniche lotte per il potere all’interno delle
élite dominanti, ma, a parte queste lotte, qualche guerra con i popoli
confinanti e progetti di grandiose opere pubbliche, nella loro storia
«accadde poco o nulla». I cambiamenti, sia tecnologici che culturali,
«erano così lenti da passare quasi inosservati». I secoli si
susseguivano e la maggior parte della gente continuava a vivere, come ha
scritto Marvin Harris, «un pelo al di sopra della pura e semplice
sussistenza; poco meglio dei loro buoi». Fu solo la Grecia del VI e V
secolo a.C. che fece fare un salto alla storia dell’umanità. Un salto
preparato da molto tempo. Dal momento che lì «condizioni geografiche
sfavorevoli» con le conseguenti «mancanza di unità e competizione»
provocarono appunto la «rivoluzione delle idee». I greci, precisa Stark,
«non furono i primi a interrogarsi sul senso della vita e sulle cause
dei fenomeni naturali; furono però i primi a farlo in modo sistematico».
Come ha scritto Martin West, «insegnarono a se stessi a ragionare».
Poi fu la volta di Roma. Anzi, di quello che Stark chiama l’«intermezzo
romano». Perché, scrive, «nella migliore delle ipotesi considero
l’impero romano una pausa nell’ascesa dell’Occidente, e più
probabilmente una battuta d’arresto». Oltre alla mancanza di innovazioni
tecnologiche, «i romani sfruttarono poco o nulla alcune tecnologie già
esistenti; per esempio, conoscevano perfettamente la ruota ad acqua, ma
preferivano usare il lavoro degli schiavi per macinare la farina». E
anche i celebrati testi di Plauto e Terenzio furono per intero di
derivazione greca. Per Stark «ai fini dello sviluppo della civiltà
occidentale, la caduta dell’impero romano non è stata un’immane
tragedia, bensì il fatto in assoluto più benefico». I «molti soporiferi
secoli di dominazione romana» hanno visto due soli significativi fattori
di progresso: «L’invenzione del cemento e l’ascesa del cristianesimo,
quest’ultima avvenuta nonostante i tentativi dei romani di impedirla». A
cadere poi «fu Roma, non la civiltà; i goti non tornarono
improvvisamente alla barbarie; e i milioni di abitanti dell’ex impero
non dimenticarono improvvisamente quel che sapevano». Al contrario,
scrive Stark, «con la fine dei paralizzanti effetti della repressione
romana, riprese il glorioso cammino verso la modernità». Quanto alla
svolta di Costantino, scrive l’autore, l’immenso favore dimostrato da
quell’imperatore romano al cristianesimo «finì per danneggiarlo». Nella
sua storia del papato, Eamon Duffy ha fatto notare che Costantino elevò
il clero a tali livelli di ricchezza, potere e status che i vescovi
«divennero figure eminenti al pari dei senatori più ricchi». Con la
corruzione che ne derivò.
Successivamente i «secoli bui» non furono
mai tali; al contrario, il Medioevo è stato un’epoca di notevole
progresso e innovazione, tra cui «l’invenzione del capitalismo». La
maggior parte degli europei «iniziarono a mangiare meglio di come
avessero mai mangiato nel corso della storia e di conseguenza divennero
più grandi e forti di coloro che vivevano altrove». Nel 732, gli
invasori islamici, quando penetrarono in Gallia, si trovarono di fronte
«un esercito di franchi splendidamente armati ed addestrati e furono
sconfitti». In seguito, «i franchi conquistarono la maggior parte
dell’Europa e misero sul trono un nuovo imperatore». Ma presto quel
sogno si infranse. Un peccato? No, reagisce l’autore, «è una fortuna che
quella costruzione sia andata in frantumi» e la «creativa disunità
dell’Europa» sia stata ristabilita. Va poi aggiunto che «sebbene
svariati storici abbiano dedicato molta più attenzione all’impero
carolingio che ai vichinghi, questi ultimi, per l’ascesa dell’Occidente,
hanno avuto un ruolo di gran lunga più significativo e duraturo dei
primi». Non è vero, poi che i crociati, in seguito, abbiano «marciato
verso oriente per conquistare terre e bottino». Anzi. Si erano
«indebitati fino al collo per finanziare la propria partecipazione a
quella che consideravano una missione religiosa». I più «ritenevano
improbabile la possibilità di sopravvivere e di tornare in patria (e
infatti non tornarono)». Come dimostrano le crociate, «per gli europei
la vera base dell’unità era il cristianesimo, che si era trasformato in
una ben organizzata burocrazia internazionale». A tal punto che «sarebbe
più corretto parlare di Cristianità più che di Europa, dal momento che,
all’epoca, quest’ultima aveva ben poco significato sociale o
culturale». Fu questo il periodo in cui nacque davvero il capitalismo.
Gli europei si arricchivano dopo aver imparato a sfruttare le fonti di
energia. Alla fine del XII secolo, racconta Stark, «l’Europa era così
affollata di mulini a vento che i proprietari cominciarono a denunciarsi
a vicenda con l’accusa di portarsi via il vento».
Nel XVII secolo,
infine, non c’è stata nessuna «rivoluzione scientifica»: i brillanti
successi di quell’epoca «sono stati semplicemente il culmine di un
normale progresso scientifico, iniziato nel XII secolo con la fondazione
delle università». La Riforma «non ha portato alcuna libertà religiosa,
ma ha semplicemente sostituito repressive e accentratrici Chiese
cattoliche con altrettanto repressive e accentratrici Chiese
protestanti». L’Europa «non si è arricchita drenando ricchezza dalle sue
colonie sparse per il mondo»; al contrario «sono state le colonie ad
aver drenato ricchezza dall’Europa, nel contempo acquisendo i benefici
della modernità». Stark ci esorta a paragonare le tragedie di
Shakespeare a quelle dell’antica Grecia. Non che Edipo «fosse senza
colpe, però non aveva fatto nulla per meritare la sua triste fine: fu
semplicemente vittima del destino; al contrario, Otello, Bruto e i
Macbeth non furono prigionieri di un destino cieco». Che significa
questo discorso? Che «uno dei fattori più importanti nel favorire
l’ascesa dell’Occidente è stata la fede nel libero arbitrio; mentre la
maggior parte delle antiche società (se non tutte) credevano nel fato,
gli occidentali giunsero alla convinzione che gli esseri umani sono
relativamente liberi di seguire quello che detta la propria coscienza e
che, essenzialmente, sono artefici del proprio destino». E qui l’autore
smonta punto per punto la famosa tesi di Max Weber secondo cui l’etica
protestante sarebbe all’origine del capitalismo (ma a quest’opera di
demolizione aveva già pensato Fernand Braudel definendola «debole tesi»
per di più «chiaramente falsa»).
Esattamente «come gli insegnamenti
di Sant’Agostino avevano segnato un cambiamento nell’atteggiamento
cristiano nei confronti del commercio, i teologi che hanno poi assistito
alle fiorenti attività economiche dei grandi ordini religiosi,
cominciarono a rivedere le dottrine su profitto e interesse». Fu lì, a
ridosso dell’anno Mille, che nacque una sorta di protocapitalismo «molti
secoli prima che esistessero i protestanti». Poi, a metà del Trecento,
dopo l’epidemia provocata dalla Peste Nera, «la scarsità di manodopera»,
come ha dimostrato David Herlihy, «stimolò le invenzioni e lo sviluppo
di tecnologie che consentissero di risparmiare forza lavoro». Quindi
l’Europa medievale «vide l’ascesa del sistema bancario, di un’elaborata
rete manifatturiera, di rapide innovazioni in campo tecnologico e
finanziario, nonché una dinamica rete di città commerciali». Va
anticipato ad allora l’inizio, o quantomeno i «primi passi», di quella
che avremmo definito la «Rivoluzione industriale». Già da molto tempo
l’Europa era più avanti del resto del mondo in fatto di tecnologia, «ma
alla fine del XVI secolo quel divario era ormai diventato un abisso».
E
qui Stark si avvale di una notazione ai margini della battaglia di
Lepanto (ottobre 1571). Quando saccheggiarono le imbarcazioni turche
ancora non affondate, i marinai cristiani vittoriosi scoprirono un
autentico tesoro in monete d’oro a bordo della «sultana», l’ammiraglia
di Ali Pasha, e ricchezze quasi altrettanto ingenti furono trovate nelle
galee di parecchi altri ammiragli. Il perché lo ha spiegato Victor
Davis Hanson: «Non essendoci un sistema bancario, temendo una confisca
qualora avesse scontentato il sultano e sempre attento a tenere i propri
averi al riparo dell’attenzione degli esattori fiscali, Ali Pasha si
era portato la sua immensa ricchezza a Lepanto». Eppure, fa notare
Stark, Ali Pasha «non era un contadino che nascondeva il surplus del
raccolto, ma un membro dell’élite dominante… se una persona come lui non
era in grado di trovare investimenti sicuri e non se la sentiva di
lasciare i suoi soldi a casa, come era possibile che qualcun altro
potesse sperare di far meglio?». Il concetto che, in epoca medievale, la
cultura islamica fosse molto più avanzata di quella europea «è
un’illusione». E in queste pagine sono trasparenti le allusioni agli
abbagli provocati di recente dalle cosiddette primavere arabe. Più che
trasparenti: esplicite.
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