sabato 6 dicembre 2014

Storia globale o ideologia globalista? La nuova "Storia del mondo" Einaudi fa discutere

Storia del mondo. Vol. 6
Storia del mondo. Vol. 6. Il mondo globalizzato. Dal 1945 ad oggi, a cura di Akira Iriye, Einaudi

Risvolto

Due tra i piú autorevoli storici a livello internazionale - Jürgen Osterhammel e Akira Iriye - coordinano un progetto editoriale di grande respiro: un'équipe d'eccezione ricostruisce la storia del nostro pianeta da un punto di vista globale, proponendone una panoramica mai cosí equilibrata, oggettiva e vasta. Il primo volume a uscire è quello dedicato al mondo contemporaneo in senso stretto: il libro ricostruisce l'epoca successiva alla fine della Seconda guerra mondiale, «l'immediata preistoria» del nostro presente, segnata dai primi impulsi alla connessione transnazionale del mondo.

Da sempre la storia del mondo è stata scritta come una storia di ascesa e declino di un esiguo numero di culture dominanti. Fra queste, nel corso degli ultimi secoli, e facendo riferimento a parametri quali potenza, ricchezza e creatività culturale, l'Europa e l'Occidente atlantico hanno ricoperto un ruolo indubbiamente centrale. Questa nuova Storia del mondo in sei volumi, diretta da un'équipe di importanti storici internazionali, si discosta radicalmente da tale tradizione. Pur non rinnegando le grandi conquiste dell'Occidente, essa le pone in rapporto con i piú importanti sviluppi che hanno avuto luogo nella stessa epoca in altre parti del mondo. Da tale impostazione emerge con ogni evidenza la graduale, problematica nascita dell'età contemporanea come frutto di una complessa e pluralistica rete di relazioni mondiali. Per la prima volta autorevoli specialisti dei vari campi disciplinari mettono a disposizione del lettore i risultati di decenni di ricerca internazionale sulla preistoria della globalizzazione, sullo sviluppo delle società e sugli ordinamenti politici dei vari continenti. La storia del mondo che ne emerge, lungi dal risultare una mera concatenazione di singole storie specialistiche, ricostruisce piuttosto relazioni trasversali e interazioni finora poco esplorate dagli studiosi: le migrazioni di singoli e di gruppi e la fondazione di nuove società, la diffusione intercontinentale delle tecnologie, religioni o idee politiche, le reti di connessione globale, i flussi commerciali e i modelli di consumo, l'imperialismo, il colonialismo, le grandi guerre.


Zero in storia Einaudi stecca L’editore scorda la lezione di Gramsci per sposare un ottimismo benevolente
Nel volume “Il mondo globalizzato. Dal 1945 a oggi”, appena pubblicato si riflette una sconcertante frattura culturale, che mette da parte non soltanto la prospettiva nazionale, ma la stessa dimensione politica

di Ernesto Galli della Loggia Corriere 6.12.14
«Evidentemente ogni stagione ha la sua storia»: questo è quello che mi è venuto di pensare dopo aver letto il volume, appena uscito da Einaudi, Il mondo globalizzato. Dal 1945 ad oggi (a cura di Akira Iriye) ultimo di sei — gli altri cinque devono ancora essere pubblicati — di una Storia del mondo diretta dallo stesso Iriye e da Jürgen Osterhammel. 
L’altra storia che avevo in mente è naturalmente la Storia d’Italia Einaudi. Pubblicata circa quarant’anni fa (tra il 1972 e il 1976) e largamente ispirata al pensiero di Gramsci, essa volle essere, e a suo modo fu, la premessa culturale della fase politica interamente nuova che sembrava delinearsi alla metà di quel lontano decennio: cioè il raggiungimento di una «piena democrazia», identificata con l’ingresso del Partito comunista nell’area del potere. Grazie al quale, s’immaginava, l’acquisto irrinunciabile dello Stato nazionale sarebbe riuscito a superare le proprie tare d’origine e a far finalmente suo il mondo moderno. La Storia d’Italia Einaudi voleva per l’appunto aprire la strada in quella direzione. 
Ne è passato di tempo da allora. Oggi, a Torino, più che alla Penisola si preferisce guardare al mondo. Sotto la Mole non pulsa più il fervore della Pietrogrado d’Italia: semmai brilla, remoto, il miraggio di Detroit. 
Sia chiaro: occuparsi invece che di cose italiane delle cose del mondo nell’ultimo settantennio mi va benissimo. Ciò che però mi colpisce è che nel momento in cui la più prestigiosa editrice di cultura del nostro Paese fa per l’appunto questo, essa non trovi necessario o comunque opportuno rivolgersi ad alcun autore italiano per affidarsi invece alla traduzione di un’opera straniera. 
Bisognerebbe dedurne che all’Einaudi non si giudichi alcuno studioso italiano capace di fornire un’analisi approfondita e interessante su quanto è successo sulla faccia della terra dal 1945 ad oggi. Ovvero, che si giudichi che su tutto ciò un punto di vista italiano sia in quanto tale irrilevante o comunque di scarso momento. In qualunque caso (alla convenienza economica di tradurre come unico motivo della pubblicazione non riesco a pensare), mi pare l’ennesima spia di un fenomeno che incalza su più fronti. La spia — insieme per esempio alla misura del ministero dell’Istruzione di far impartire in inglese l’insegnamento di almeno una materia dei vari curricula scolastici; insieme alla pubblicazione interamente in inglese di riviste accademiche di carattere non scientifico; insieme alla grottesca presenza obbligatoria di un commissario straniero nelle commissioni delle abilitazioni universitarie — la spia, dicevo, di un oggettivo deperimento della dimensione nazionale nell’ambito della vita culturale del Paese. 
Un deperimento che sa molto di abdicazione. Tanto più significativo quando, come in questo caso, riguarda uno dei centri più importanti, non dico della nostra cultura, ma sicuramente della sua rappresentazione pubblica, come per l’appunto la casa editrice Einaudi. Dalla cui mitica sede di via Biancamano, nei quarant’anni intercorsi tra l’attenzione di un tempo per la storia della Penisola e l’attenzione attuale per il «mondo», evidentemente è una qualunque idea forte dell’Italia stessa che sembra essersi dileguata. 
E a pro di che cosa poi? Di una narrazione storica come quella di questa Storia del mondo , che per la prima parte, cioè la storia politica e le vicende dell’economia, si limita a ripercorrere prospettive in tutto e per tutto tradizionali; mentre nella seconda parte — la quale ambirebbe ad avere un carattere anche storiografico di rottura, con i due saggi più emblematici dell’intera opera e in specie di questo volume dal 1945 ad oggi: il saggio di Petra Goedde, Culture globali , e quello di Akira Iriye, La costruzione di un mondo transnazionale , per un totale di 340 pagine — la narrazione, dicevo, si presenta come un’accozzaglia di banalità pretenziose e di osservazioni scucite senza capo né coda. 
La grande novità di cui il curatore Iriye si fa vanto è la storia «globale». Cioè l’idea che specie la storia contemporanea «debba essere compresa nel contesto globale e non solo come storia regionale o storia nazionale a sé stante» (si prenda nota della strabiliante novità), nonché l’idea che «questa storia globale sia composta da molti livelli (…) comunque connessi fra loro» (anche questa una cosa a cui nessuno finora aveva mai pensato…). 
Compimento di tale storia globale sarebbe il mondo «transnazionale». E per l’appunto, sia Iriye che Goedde intendono ricostruire la «transnazionalizzazione del mondo»: ovvero «gli incontri, le attività e i pensieri transnazionali» che l’avrebbero prodotto. Ne viene fuori una ridda di figure, movimenti, ideologie e istituzioni, all’insegna del chi più ne ha più ne metta. Tutti sullo stesso piano, senza alcun ordine, senza alcun legame interno o di causa ed effetto. Si va dai migranti, ai turisti, agli ebrei, agli studenti all’estero, ai missionari, ai reduci di guerra; senza dimenticare l’arte, la musica, la memoria condivisa, l’Onu, Toynbee, l’anticolonialismo, il femmi-nismo, il programma Fulbright, i festival del cinema, l’arte, la musica, Hollywood, le grandi fondazioni Usa, l’allunaggio di Neil Armstrong, il consumismo, la psicoanalisi, e così via affastellando. 
Tutto fa brodo, insomma, tra una «figura transnazionale» e «un’esperienza transnazionalmente condivisa», ai fini dell’auspicata vittoria della «transnazionalizzazione dell’umanità» (espressione vagamente agghiacciante, simile a una sorta di mutazione genetica) e insieme del «transazionalismo come ideologia»: frutto, ci viene detto, «degli sforzi compiuti dai singoli individui e dagli attori non statali di vari Paesi per gettare ponti tra uno Stato e l’altro e impegnarsi in attività comuni». 
 È sorprendente come tuttavia, di fronte alla novità che molte delle cose sopra elencate di sicuro rappresentano prese singolarmente, non vi sia alcuna capacità, da parte dei due autori, di delineare un’autentica problematica storica, di mettere a fuoco un nesso interpretativo appena circostanziato. In che misura, ad esempio, l’insieme dei fenomeni in questione designano più che una «transnazionalizzazione», un’«americanizzazione» o un’«occidentalizzazione» del mondo? In che misura essi interagiscono con la dimensione dello Stato nazionale e della sua sovranità? In che senso ad essi può essere attribuito un connotato «democratico», come qui viene suggerito? Quali modifiche antropologiche veicolano e sollecitano? Nulla: di simili domande neppure la più pallida ombra. 
Al loro posto si dispiega invece in queste pagine un pressoché unico criterio interpretativo: quello consigliato da una sfocata ideologia illuministico-progressista, tutta affissata alle «magnifiche sorti» rappresentate dalla «pace», dai «diritti umani», dall’«ambientalismo», dall’«ecoturismo», dal «femminismo». Ovvero, per la penna di Petra Goedde, dall’auspicio di una chimerica «religione dell’umanità» nella versione fantasticata dall’ineffabile Martha Nuss-baum. Il tutto, come se non bastasse, intramezzato da uno strampalato sinistrismo da campus americano. Quello che per esempio fa scrivere alla suddetta Goedde che le idee di Lenin sulla religione «non erano molto diverse da quelle dei liberali occidentali fondate sulla separazione tra Chiesa e Stato», o che «il sistema sovietico di Lenin non aveva proibito la pratica religiosa». Ovvero, per dirne un’altra, quello che, a proposito dell’attacco dell’11 settembre, induce Iriye alla singolare affermazione che «anche la reazione statunitense minò l’unità del genere umano» in quanto avrebbe riaffermato i «valori nazionalistici»: con la conclusione che «perciò non furono tanto i terroristi quanto la risposta americana al terrorismo a fiaccare il processo di transnazionalismo in corso». 
Della lucidità di giudizio dei due autori sono del resto una testimonianza eloquente le rispettive conclusioni dei loro lunghi saggi, che è difficile immaginare più stravaganti. La Goedde ci intrattiene per tre pagine (tre pagine!) sull’esemplare «ibridizzazione culturale» a suo avviso rappresentata dall’opera dell’artista concettuale nigeriano Yinka Shonibare, il cui materiale preferito è il batik , un tessuto presunto africano; ma «Shonibare», leggiamo, «comincia a esplorare il problema di che cosa significhi l’arte autentica africana» per gli imperialisti bianchi (come anche per i post-imperialisti). Questo lo conduce alla scoperta dell’origine giavanese-olandese del batik e, infine, a comprendere «la superficialità della nozione di autenticità nell’arte e nella cultura in generale». Dal canto suo Iriye ci assicura che «nessuno incarna meglio di Barack Obama le tendenze nonché le speranze transnazionali dell’umanità», dal momento che nella sua figura sarebbe «possibile leggere in filigrana le forze che stavano modellando il mondo contemporaneo», visto che egli «fu (il singolare uso dei tempi verbali è della traduzione italiana, non sempre impeccabile) un individuo ibrido in un’epoca in cui l’ibridismo stava senza dubbio diventando un fatto ricorrente»: sicché «la causa della costruzione del transnazionalismo non avrebbe potuto trovare portavoce più autorevole». 
Di fronte a una tale poltiglia concettuale è difficile non riandare con il ricordo a quell’altra Storia di cui dicevo prima. È difficile resistere alla tentazione di gridare: «Ma se è così, per favore ridateci Gramsci!, ridateci l’Italia!». Ciò che tuttavia, me ne rendo conto, servirebbe a ben poco. Ha più senso invece considerare un simile libro come un sintomo della situazione dell’epoca. Una spia del modo in cui l’epoca — in uno dei suoi punti intellettualmente più «alti» quale certamente è l’Università americana — si rispecchia nella propria storia e la ricostruisce, delle categorie culturali che a tal fine essa mette in campo. Tutto ciò in un momento cruciale: quello in cui il punto di vista adottato nei suddetti luoghi più «raffinati» della ricerca non vuole più essere quello dell’«Occidente» ma cerca, invece, di divenire un punto di vista «mondiale» all’insegna del «transnazionale». 
Ciò che, come si vede dalle pagine di cui si sta parlando, non significa per nulla un semplice ampliamento o mutamento di prospettive. In questo passaggio, infatti, quella che si produce è la vera e propria dissoluzione dell’antica scena storica dove eravamo abituati a veder muoversi gli Stati, gli ambiti nazionali, le grandi personalità; ad agitarsi le lotte per il potere che decidono del destino delle collettività, a formarsi le idee e i movimenti dei popoli, a sorgere e tramontare le civiltà con le loro specificità e i loro antagonismi. Tutti questi protagonisti, infatti, sono ora giudicati conflittuali e divisivi, ideologicamente sopraffattori, nonché orientati alla «parzialità» a causa del loro statuto eurocentrico. 
Ecco allora che l’antica scena sulla quale essi si muovevano viene sostituita da una scena storica nuova, al cui centro si collocano attori completamente diversi: per l’appunto le «culture globali» (surrettiziamente presentate come culture universalistiche, prive di un’origine storicamente determinata e quindi in teoria fruibili indistintamente da tutti); quelle fatte proprie da soggetti per antonomasia deboli e storicamente inediti quali migranti, donne, giovani, pacifisti, artisti, dissidenti di varie specie. «Culture globali» all’insegna della «contiguità», della «propagazione», dell’«ibridazione», e che pur con qualche contraddizione appaiono invariabilmente orientate in senso moralmente positivo. Destinate quindi a scontrarsi per forza con il «potere» nei suoi vari aspetti invariabilmente negativi: e proprio perciò chiamate a rappresentare l’anticipazione del futuro «mondo transnazionale». 
La frattura culturale che tutto ciò produce è profonda. Per questa via, infatti, l’etica s’infiltra sottilmente, ma massicciamente nella storia. La quale alla fine, per ripetere una felice espressione di Croce, diventa in sostanza «una storia poetica esprimente qualche aspirazione del cuore umano». Il nocciolo duro del «politico» viene di fatto radicalmente eliminato. La storia finisce per acquisire un carattere sempre più unidimensionale — con i «buoni» contro i «cattivi»: per esempio la dimensione transnazionale contro quella nazionale — dovendo in tal modo registrare il fortissimo indebolimento anche della dimensione dialettica: tutto tende ad avere un solo colore, a significare una sola cosa, ad avere un solo, univoco, effetto. E al posto dell’antico realismo pessimistico della storiografia politica otto-novecentesca tende a subentrare — in stupefacente contrasto con quella che a molti di noi sembra l’aria dei tempi — una nuova narrazione del mondo e delle sue nuove idee, intrisa di ottimismo benevolente. 
E infine, sempre per questa via, si delinea un ultimo fatto di non poco conto che bisognerà pur dire. Una certa cultura americana, fedele all’orientamento idealistico della propria tradizione, forte dell’atteggiamento indomitamente «ingenuo» di molte sue élite intellettuali, chiusa nel politicamente corretto delle proprie istituzioni accademiche, segna una nuova vittoria sulla tradizione culturale dell’Europa: sempre meno sicura di sé, sempre più subalterna. 

L’opera Il lungo viaggio dell’umanità ripercorso in sei tappe
Corriere 6.12.14
È partita con l’uscita del sesto volume, Il mondo globalizzato. Dal 1945 ad oggi (Einaudi, pagine XXX-954, e 90), la Storia del mondo , un vasto ed ambizioso progetto editoriale internazionale coordinato dal tedesco Jürgen Osterhammel e dal giapponese Akira Iriye. Questo volume, che chiude l’opera anche se è il primo a essere pubblicato, è curato da Iriye (docente ad Harvard) e termina con un suo saggio. Comprende anche contributi di Wilfried Loth, Thomas W. Zeiler, John R. McNeill e Peter Engelke, Petra Goedde. Gli altri volumi previsti sono: Le prime civiltà , a cura di Hans-Joachim Gehrke; Le sfide dell’agricoltura e del nomadismo , a cura di Emily S. Rosenberg; Imperi e oceani , a cura di Wolfgang Reinhard;
Verso il mondo moderno , a cura di Sebastian Conrad e Jürgen Osterhammel; I mercati e le guerre mondiali , a cura di Emily S. Rosenberg.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Non si capisce perche' un commento cosi sarcastico.
si puo' non apprezzare non condividere ma diventare antipatici perche'?

Anonimo ha detto...

Un tedesco e un giapponese.
Perché non anche un italiano?
L'Asse non era Berlino-Tokyo-Roma?
E noi chi siamo?
Domestici?