Lo storico Franco Cardini “Contrastiamo la Jihad, non il vero Islam”
di Roberta Zunini il Fatto 3.1.15
La diffusione del video in cui Vanessa e Greta appaiono impaurite e chiedono al nostro Stato di tirarle fuori da lì, suona come un messaggio da parte dei rapitori affinché l'Italia le ricompri. I rapitori cioè hanno alzato la posta dopo un'interruzione delle trattative causate da qualcosa che noi, come opinione pubblica, non conosciamo, ma i nostri servizi sì, se hanno portato avanti in modo corretto le procedure. Se invece i nostri servizi avessero fatto un errore nelle procedure, e non si tratta dunque di un'interruzione dovuta a un tentativo di non pagare un riscatto troppo alto, il video potrebbe essere tradotto come un invito a riprendere le trattative pena l'uccisione delle ragazze. Oppure potrebbe essere letto ancora in un altro modo: il gruppo di Al Nusra che le ha sequestrate si è trovato in disaccordo al proprio interno sul modo di procedere e ha bloccato le trattative. Ma ora la frattura si è ricomposta e con questo video hanno fatto sapere all'Italia che è pronto a riprendere le negoziazioni”. Così si esprime lo storico e saggista Franco Cardini, esperto di Medioevo e Islam, raggiunto al telefono in Giordania. Dopo la diffusione del video con le due ragazze italiane rapite - in cui chiedono al governo italiano di essere liberate – è di nuovo sceso il silenzio sulla loro sorte. Le ragazze sarebbero rimaste nella regione dove sono state rapite questa estate: a sud-ovest di Aleppo, nella campagna di Abizmu, una zona fuori dal controllo sia delle truppe del regime che dei miliziani di al Nusra (l'ala siriana di al Qaeda), che tuttavia tramite un suo miliziano, ne avrebbe rivendicato la detenzione.
È stato chiesto il riserbo assoluto alla stampa. Perché a suo avviso?
La richiesta di riserbo assoluto da parte dei nostri servizi è legittima perché questa è sicuramente la fase più delicata delle trattative avviate per riportare a casa le ragazze, detto questo è evidente che qualcosa si è inceppato nel meccanismo (ieri avevamo scritto che fonti riservate avevano detto al Fatto che poco prima di Natale sembrava tutto pronto per il loro rilascio, ndr) ed è altrettanto legittimo riflettere sulla situazione che non è semplice.
Ed è anche molto pericolosa?
È pericolosa perché la comunità internazionale non sa bene che pesci pigliare. Se è vero che l'Isis e Al-Nusra, cioè i gruppi integralisti islamici, possono essere sconfitti militarmente, a patto che si mettano gli scarponi sul terreno, va anche detto che questi rinasceranno perché ciò che va sconfitta è l'ideologia islamista, non l'Islam.
Vuol spiegare questa differenza?
Intanto, ribadisco, i jihadisti che sono musulmani sunniti, vanno combattuti e sconfitti dagli stessi sunniti e non da noi occidentali, altrimenti servirebbe a poco; mentre noi occidentali possiamo fare di più non alimentando i motivi per i quali sono nati questi gruppi di super integralisti.
Quali sono questi motivi?
La frustrazione sociale ed economica. Come ha saggiamente avvertito Papa Francesco: ‘Il male dei popoli poveri può essere il fanatismo’. Dobbiamo pensare che il mondo islamico è una cerniera tra un Occidente ricco e un sud povero. I musulmani abitano un'ampia fascia geografica (dal Vicino Oriente al Sud-Est asiatico fino all'Africa nera dove vivono i più poveri tra i ricchi e i più ricchi tra i poveri), se non li aiutiamo a migliorare la loro condizione la valvola può saltare e, in un certo senso, è già saltata ma non del tutto. Dobbiamo smetterla di proseguire quella sorta di colonizzazione partita con i mandati inglesi e francesi.
Questi jihadisti rappresentano il nuovo volto dell'Islam?
No. Ci sono un miliardo e mezzo di musulmani nel mondo e gli integralisti sono una minima parte. Certo potrebbe aumentare, ma, pur essendo l'Islam come l'ebraismo una religione di “Legge”, cioè finalizzata alla realizzazione della giustizia divina e non della pace in senso stretto tra gli uomini, non vedo i presupposti per una sua trasformazione globale in senso estremista.
E come definisce i combattenti stranieri, cioè i giovani nati in Europa, figli di immigrati già di seconda generazione, che sono andati a combattere nelle file del califfato?
A mio avviso si tratta di schegge impazzite. Ragazzi frustrati e arrabbiati in questo caso non per mancanza di cultura o denaro ma per l'emarginazione sociale in cui sentono di vivere, a torto o a ragione.
La comunità internazionale dovrebbe riconoscere il Califfato islamico (Is o Isis ndr) come uno Stato ?
L'Onu è il grande assente, come da parecchio tempo a questa parte, ma poniamo il caso che esista ancora e allora sì, dico che dovrebbe ma nel senso di considerare lo Stato islamico come uno Stato nemico e quindi combatterlo militarmente per legittima difesa, fino in fondo.
Per contrastare i semi dell'odio che invadono un'Europa debole con i razzisti e impotente con i dittatori è necessario coltivare il laicismo Unica arma contro i talebani di ogni credo intervista di Wlodek Goldkorn l’Espresso 6.1.15
Pensiero critico per andare contro gli estremismi
Alla fine degli Anni Ottanta Salman Rushdie, scrittore angloindiano, riceve la fatwa, una condanna a morte, per via del suo romanzo «I versi satanici». La decreta Khomeini, leader religioso iraniano, per il trattamento irriguardoso nel romanzo riservato a suo dire al profeta Maometto. Rushdie, che nel libro ha fornito del capo spirituale e politico dell’Iran un ritratto ben poco lusinghiero, è costretto a nascondersi per due decenni protetto dai servizi segreti britannici. Quasi ventisei anni dopo un altro scrittore, il francese Michel Houellebecq, pubblica alla vigilia del sanguinoso massacro di Rue Nicolas Appert, un romanzo, «Sottomissione» (Bompiani), in cui descrive uno scenario completamente opposto. Non ci sono più due attori indiani che precipitano dal cielo, dopo un attentato terroristico all’aereo su cui volavano, bensì un raffinato intellettuale parigino che discetta di simbolismo e autori cattolici, e si dedica al sesso. Decide di convertirsi, ovvero di arrendersi all’Islam trionfante. Nella distopia architettata da Houellebecq la Francia è ora dominata dal partito della Fratellanza islamica, che ha vinto le elezioni, e il suo leader, Mohammed Ben Abbes, ha avuto i voti degli avversari del Front National ed ha istituito una repubblica islamica. Nella provocazione, intelligente e letterariamente accattivante dello scrittore francese, tutto si è rovesciato. Come si sa il suo romanzo ha anticipato di un giorno o poco più la vicenda dell’assalto al giornale satirico. Si tratta di qualcosa che con Jung si può chiamare «sincronicità»; qui la coincidenza tra l’immaginazione dell’arte e i fatti della vita. Il romanzo, pur non parlando di attentati a giornalisti e disegnatori, ha indicato uno dei temi che si celano dentro le ultime vicende che stanno insanguinando il Pianeta: l’eccesso. Da qualche tempo il fanatismo ha fatto ritorno sulla scena. Fanatico è uno che è ispirato, che è posseduto da una divinità o da un demone, che è colto da entusiasmi e compie atti eccessivi, fuori luogo. L’eccesso domina oggi molti campi. Uno psicoanalista inglese di grande talento, Adam Philipps, ha tenuto qualche anno fa alla Bbc cinque conversazioni sul tema dell’eccesso, in cui ha spiegato come abbracci diverse esperienze umane, dall’anoressia ai kamikaze, dal giocatore compulsivo al bambino che reclama attenzioni. Segna soprattutto i principali conflitti politici e religiosi oggi in atto, ed anche eccessive sono le sproporzioni economiche tra singoli individui, classi sociali e nazioni; ma anche sesso e violenza ne mostrano sempre nuove facce. Discorso difficile quello sull’eccesso, che Houellebecq condensa nel suo romanzo, perché, come dice Philipps, «niente è più eccessivo dei discorsi sull’eccesso». Quello che colpisce nella coincidenza di romanzo e attentato è questa comune radice, che in un caso, nello scrittore, assume le forme della distopia politico-sociale, e nell’assalto dei terroristi quella della ben più terribile e reale della strage di vite umane. L’eccesso è la libertà di uscire, dice Phillips. Da cosa? Dalle regole, prima di tutto, dalle giuste misure stabilite attraverso patti più o meno scritti in ogni società. L’eccesso è contagioso e permette di essere eccessivi a propria volta. Ogni eccesso rivela i desideri e le convinzioni che vi si occultano in modo più o meno palese. Il protagonista del romanzo di Houellebecq rinuncia a ciò che è il valore per eccellenza della cultura dei Lumi, la libertà, per sottomettersi – questo il significato della parola Islam – a un regime religioso in forte contrasto con il suo passato d’intellettuale. Compie un eccesso, così come eccessivo è in fondo tutto il suo estetismo e la sua sessualità di maschio occidentale dedito al godimento. Pasolini ha ben descritto nel suo nerissimo «Salò Sade» l’arbitrio che si cela nella libertà. Nell’eccesso della nuova fede cui si converte, il protagonista trova ragioni per suo sadomasochismo. Cosa ha in comune questo personaggio di carta con i giovani che armati di mitragliatori hanno fatto strage nella sede di Charlie Hebdo? Nulla, se non l’eccesso che connota oggi la realtà contemporanea e ne fa senza dubbio un’età dell’estremismo. La convinzione di Hoellebecq è che l’Occidente sia perso, che non abbia più futuro e la depressione sia il nostro unico destino. Allora perché resistere? Perché tutto ciò non risolve il problema dell’eccesso, quello degli altri, come il nostro. «Ogni nostro eccesso è il segno di una privazione ignota», conclude Philipps. Davanti all’attacco assassino alla rivista satirica francese non è tanto la bandiera della libertà che bisogna issare, bensì il vessillo del nostro pensiero critico, che non deve indietreggiare nell’indagare anche quanto di oscuro c’è in noi. Solo così l’eccesso non l’avrà vinta.
Dopo la carneficina di mercoledì, forse l’Occidente metterà finalmente da parte le tante scuse artificiose impiegate finora per negare ogni nesso tra violenza e Islam radicale.
Clericalismi Il fondamentalismo si combatte soltanto con la laicità assoluta
Eroi delle libertà democratiche, pronunzia tempestivamente il presidente Hollande. È vero. Wolinski e i suoi compagni di Charlie Hebdo erano infatti libertini sessuomani, estremisti di sinistra, atei, anarchici-e-comunisti, e infine irresponsabili, come recitava cristallinamente e orgogliosamente il sottotitolo del settimanale. Oggi ne fanno il ditirambo governanti reazionari e giornalisti d’establishment, despoti e finte sinistre, Papi e Leghe arabe, con tassi di ipocrisia diversi e che non proviamo neppure a misurare. Meglio così, devono ora tutti allinearsi a difesa del diritto alle “enormità” con cui gli “estremisti” irresponsabili appena assassinati avevano caratterizzato le loro vite, riempito le pagine di Charlie e nutrito le nostre libertà.
Cacciari: “Politica di accoglienza o avremo il conflitto in Europa”
MILANO «I fatti orrendi di Parigi dovrebbero imporre a tutti noi di ragionare alla grande, ma in questo clima sono in pochi a ragionare, soprattutto in Italia. Il livello del dibattito è deprimente». Lo dice il filosofo Massimo Cacciari E quale sarebbe, professore, la prima riflessione da fare?
Pennac: “Solo ora capiamo che per le nostre guerre lontane rischiamo di morire qui a casa”
PARIGI «SONO tristissimo. Conoscevo bene Tignous e Bernard Maris. E poco tempo fa avevo cenato con Charb e Cabu. Mi era anche capitato d’incontrare Wolinski. Di fronte alla loro morte sono senza parole». Appena avuta la notizia dell’attacco a Charlie Hebdo , l’altra sera Daniel Pennac si è recato alla manifestazione sulla Place de la Republique, dove insieme a migliaia di altre persone ha protestato contro la barbarie di un odio ingiustificabile. «Erano persone coraggiose, capaci di continuare a fare il loro lavoro nonostante le molte minacce ricevute. Ma al di là delle qualità professionali erano persone adorabili, lontanissime da ogni violenza e aggressività. Grazie al loro entusiasmo, Charlie Hebdo ha sempre rappresentato la forza e il piacere di un’assoluta libertà di pensiero, che certo poteva scioccare chi preferisce trincerarsi dietro certezze incrollabili. I terroristi hanno voluto assassinare la loro libertà».
Il vero complesso di inferiorità dei fondamentalisti fragili e confusi
ORA che siamo tutti sotto shock, dopo la carneficina negli uffici di Charlie Hebdo, è il momento giusto per trovare il coraggio di ragionare. Naturalmente dobbiamo condannare senza ambiguità gli omicidi come un attacco contro l’essenza stessa delle nostre libertà, e condannarli senza nessun distinguo mascherato. Ma questo afflato di solidarietà universale non è abbastanza. Il ragionamento di cui parlo non ha assolutamente nulla a che vedere con le relativizzazioni da quattro soldi di questo crimine (il mantra del «Chi siamo noi occidentali, che abbiamo compiuto massacri terribili nel terzo mondo, per condannare atti come questi? »). E ha ancora meno a che fare con la paura patologica di tanti liberali progressisti occidentali di macchiarsi di islamofobia. Per questi finti progressisti, qualsiasi critica dell’islam viene additata come espressione dell’islamofobia occidentale: Salman Rushdie è stato accusato di aver provocato gratuitamente i musulmani, e quindi di essere responsabile (almeno in parte) della fatwa che lo condanna a morte, e via così.
intervista di Raffaella De Santis Repubblica 8.1.15
LA LORO è stata una grande amicizia. Georges Wolinski per Sergio Staino non era solo un collega. Il loro primo incontro risale a più di trent’anni fa. Wolinski allora era noto per il personaggio di Paulette, ricca ereditiera orgogliosamente comunista. Ad unirli una satira corrosiva, un’ironia dissacrante e politicamente scorretta.
A quando risale la vostra amicizia?
«Ai tempi di Linus. Collaboravamo entrambi alla rivista. Wolinski era per me, insieme a Reiser, un mito. Così un giorno andai a Parigi e gli suonai al campanello. Poi nel corso degli anni è venuto spesso a mia casa in Toscana, insieme abbiamo fatto un viaggio a Cuba negli anni ‘90. Ha anche partecipato al mio film Non chiamarmi Omar, nella parte di un giornalista erotomane. Gli piaceva ridere sul sesso».
Quali sono i limiti alla libertà di critica?
«Wolinski era un antidogmatico, un anarchico di sinistra. Le sue storie erano certamente molto feroci, ma è la satira stessa a richiedere questo atteggiamento. La satira è per sua natura seminatrice di dubbi. La sua arma è l’intelligenza e in questo fa più male di un fucile o di una bomba».
Charlie Hebdo era nel mirino dei fondamentalisti. Ne avevate mai parlato?
«No, non discutevamo di questo. Nessun vignettista lavora pensando ai rischi. La libertà di espressione non può essere fermata in nome di un dogma. La satira esagera, allude, sottintende, è il suo modo di guardare il mondo».
Crede che questa tragedia innescherà forme di autocensura?
«Certo, si rischia che alimenti reazioni nazionaliste, che aiuti Salvini e Le Pen. Ma per quanto mi riguarda, dopo quello che è successo, ho ancora più voglia di dire la mia. Non dobbiamo permettere che il riso venga soffocato. Il mondo auspicato da questi fondamentalisti è di una tristezza terribile. Hanno colpito Parigi come simbolo della laicità e della democrazia».
Bobo che direbbe?
«Si sentirebbe orgoglioso di appartenere a una schiera di personaggi di carta che muoiono per il diritto di parlare».
Una vignetta di Wolinski che ricorda.
«Un operaio con una ragazza bellissima seduta sulle ginocchia e la frase: “Nulla è troppo per la classe operaia”».
La stampa in trincea. Nella strage delle matite i giovani fanatici giustiziano i vecchi libertini
di Michele Serva Repubblica 8.1.15
Il ceppo di Charlie e del suo antenato Hara Kiri è quello del radicalismo laico e repubblicano, molto solido in Francia. Con una forte innervatura sessuomane, anarchica e anticlericale esplosa con lo spirito sessantottardo ma ben presente anche prima, lungo Nove e Ottocento
NON è vero che a Charlie Hebdo niente è sacro. Sacra, in quel vecchio giornale parigino, è la libertà. Danzava, la libertà, allegra e nuda come le donnine di Wolinsky, attorno alla fragile trincea di scrivanie coperte di carta, matite, giornali, pennarelli (l’arsenale delle vittime) sulle quali sono caduti gli impenitenti artisti della satira francese, molti dei quali anziani, freddati dai loro giovani assassini.
Ragazzi bigotti che uccidono vecchi libertini. Autori di lungo corso come Georges Wolinsky, Charb, Cabu, usciti indenni da cento processi per oscenità, scampati a licenziamenti, fallimenti e censure, sopravvissuti perfino alle tante rissose diaspore interne al mondo (litigiosissimo) del giornalismo satirico, per poi morire così, macellati da due imbecilli sanguinari che della libertà niente possono e vogliono sapere: la libertà sta ai fanatici come la bicicletta ai pesci. Il ceppo di Charlie e del suo antenato Hara Kiri è quello, così solido in Francia, del radicalismo laico e repubblicano. Con una forte innervatura sessuomane, anarchica e anticlericale esplosa con lo spirito sessantottardo ma ben presente anche prima, a ritroso lungo Nove e Ottocento. Ispiratore indiscusso della rivista fu François Cavanna (origini piacentine), un vecchio hippy ribelle autore di versi esilaranti e spietati sulla soggezione dei popoli al potere e alle religioni. È morto nel suo letto quasi un anno fa, novantenne, candido e magro come un sacerdote, risparmiandosi questo orrore, e lo strazio di sapere offesa così in profondità la sua ilare tribù.
Il marchio di fabbrica di quel milieu satirico, immutato negli ultimi decenni e attraverso numerose testate, è una sorta di oltranzismo libertario e libertino che irrita anche la sinistra perbenista ed è sempre stato odiato dalla destra tradizionalista: il precedente direttore del giornale Philippe Val, omosessuale, pochi anni fa venne inseguito e picchiato per la strada, dopo un dibattito televisivo, da un gruppo di cristiani omofobi che voleva insegnarli come si sta al mondo. Una umiliante rappresaglia, ma niente in confronto al mostruoso esito del nuovo conflitto nel quale Charlie Hebdo, diciamo così per sua natura, non poteva non immischiarsi: quello tra la libertà di espressione e il fondamentalismo islamista. La lunga guerra iniziata “ufficialmente” nell’ormai lontano 1989 con la fatwa contro Salman Rushdie e i suoi Versi satanici . Guerra intestina all’Europa, va ricordato, fino dal suo primo atto: pare certo che la condanna a morte di Rushdie sia stata ispirata da ambienti islamisti londinesi, come se la refrattarietà di quel pezzo di Islam alla libertà di parola e di immagine fosse acuita, irreparabilmente, dalla promiscuità con i nostri costumi, ivi compresa la nostra (benedetta) scostumatezza.
La satira è, di suo, un linguaggio di confine, estremo e poco conforme alla disciplina. Restando (e purtroppo ci tocca) nella metafora bellica, è come un corpo di guastatori, le cui sortite non possono che scompaginare i ranghi, destabilizzare i ruoli. Sarebbe del tutto immorale, qui e ora, aprire il dibattito sulla liceità della blasfemia, o se volete della insolenza verso i dogmi religiosi. Sarebbe la cosa più blasfema da fare accanto a quei morti innocenti, e certamente morti di libertà (a causa della libertà, in nome della libertà). Sarebbe come se dalle retrovie, e con il culo al caldo, ci permettessimo di discettare sul rischio che si sono presi quei caduti.
Limitiamoci a constatare che, sul fronte della libertà di parola e di immagine, la satira non può che essere in prima linea. E a Charlie Hebdo avevano deciso di non arretrare di un passo. Ben sapendo — tra l’altro — che per una rivista fatta sostanzialmente da disegnatori la collisione con l’iconoclastia islamista è nelle cose. Le vittime di questa carneficina avevano tutte, metaforicamente o nella realtà, la matita in mano. E’ la matita, in questo vero e proprio Ground Zero della libertà di stampa, il minimo eppure potentissimo grattacielo abbattuto. Mettetevi una matita nel taschino, nei prossimi giorni, per sentirvi più vicini a Charlie, anche se non l’avete mai letto, anche se la satira vi piace così così, e la trovate eccessiva o sguaiata o provocatoria.
Salutiamo con un sorriso aperto — loro non vorrebbero di meglio — quella gente appassionata, intelligente e inerme, il direttore Charb (Stéphane Charbonnier), Cabu (Jean Cabus), Tignous (Berdard Verlhac), Georges Wolinsky, ingoiati dal buco nero dell’odio politico-religioso insieme al giornalista Bernard Maris, ad altri cinque compagni di lavoro e a due agenti di polizia. Provate a immaginare, per prendere le misure della strage di rue Nicolas- Appert, se i vignettisti che ogni giorno vi fanno ragionare o ridere sui giornali italiani venissero falciati tutti o quasi da un pogrom di fanatici, lasciando vuoto, sulla pagina, quel quadrato così superfluo e così indispensabile. Non dimentichiamoci mai, neanche per un secondo, come profuma di buono la libertà, e quanto siamo debitori, come europei, alla Francia e a Parigi.
AVREI voluto lasciare vuoto questo cubicolo di carta, oggi, in segno di lutto, e di sconsolata impotenza. Ma poi ho pensato che il terrorismo ha un nemico invincibile, e questo nemico è la normalità delle nostre vite quotidiane. Le abitudini, i gesti utili e quelli inutili, le banali incombenze, il lavoro, la lettura, la scrittura, lo scambio di parole, insomma quella fitta e potentissima trama sociale che il terrorismo intende squarciare, senza mai riuscirci del tutto. Il suo obiettivo è renderci diversi da ciò che siamo: o più spaventati o più cattivi o più disorientati. Se invece riusciamo — in caso di terrorismo — a rimanere uguali a noi stessi, allora non possiamo che vincere, come un fiume enorme e pacifico che sommerge ogni asperità malevola. Mio compito è scrivere ogni giorno e questo voglio e devo fare. Immagino anche a Parigi — come accadde a Londra dopo le stragi islamiste nel metrò — lo sbandamento, lo sgomento, un breve annaspare nel panico, e poi la città che ricomincia a macinare la sua giornata, semmai con una punta di convinzione e di orgoglio in più. Ognuno di noi — non solamente i vignettisti satirici — è un potenziale bersaglio, di bomba o di raffica. Ma siamo talmente tanti, e talmente vivi e indaffarati, che fermarci è impossibile, come fermare il tempo che scorre.
Perché in principio era il ridere, il ridere era presso Dio
di Armando Torno Il Sole 8.1.15
È possibile ancora ridere trattando temi religiosi? Dopo l’attentato di ieri a Parigi, al settimanale satirico Charlie Hebdo con morti e feriti come in un’azione di guerra, la risposta diventa difficile. O meglio, è ritornato il tempo delle incomprensioni e quanto è lecito per taluni diventa un crimine per altri. La violenza, che mai è stata cacciata dalla storia, gioca la sua parte ancora una volta. Eppure nella Bibbia non è vietato il sorriso, anzi sovente è incoraggiato. Come possiamo immaginare gli innamorati del Cantico dei Cantici, che si inseguono in tutto il piccolo libricino del Primo Testamento, senza pensare ai loro risolini?
Gesù è descritto sovente dai Vangeli in ambiti conviviali: nessuno potrà sostenere che vi partecipasse tenendo il broncio, anche se la questione del “riso di Cristo” è stata argomento di dibattito dei teologi medievali. Lo stesso profeta dell’Islam, Muhammad, o Maometto come si usa dire a causa di una tradizione medievale, manifesta nella letteratura islamica un senso dell’umorismo. Basterà ricordare un passo da Vite e Detti di Maometto (Meridiani Mondadori 2014) per rendersene conto: «Una vecchietta si avvicina a Muhammad e gli chiede se mai troverà posto in Paradiso: “No”, risponde il Profeta con tono aspro, “nel Cielo di Allah non entrano le vecchie”. La donna resta raggelata dalla risposta, ma Muhammad sorride, le porge una rosa e sussurra:”Quando sarai in Paradiso, tornerai a essere la fanciulla bella e sana che fosti ”».
Poter sorridere di talune questioni religiose non significa irriderle o farsene beffa: è semplicemente concedersi uno spazio di libertà per esercitare una delle facoltà donate all’uomo dal Creatore. Henri Bergson, che ben aveva studiato l’argomento in un libro edito nel 1901 e tuttora fondamentale, Il riso. Saggio sul significato del comico, stabilì che la differenza tra l’uomo e la bestia risiede nella capacità di ridere. Intuizione che porterà taluni esponenti della psicologia delle folle, come Gustave Le Bon, a credere che si diventa criminali quando si smarrisce il senso dell'umorismo. La qual cosa è successa all’Inquisizione o alle dittature, allorché giunsero al punto di non riuscire più a sopportare anche lievi forme di ironia. D’altra parte, ne Il nome della rosa di Umberto Eco il venerabile Jorge è disposto a uccidere pur di non far conoscere il secondo libro della Poetica di Aristotele che tratta del comico, convinto nella sua intransigenza che il riso può distruggere il dogma. I morti e i feriti del Charlie Hebdo ricordano che le lancette dell’orologio della ragione umana sono tornate indietro di alcuni secoli.
Sovente si ride di talune interpretazioni di altri uomini e non certo di Dio: i fondamentalismi, quasi sempre, dimenticano di distinguere i due aspetti. Ci confidava Gianantonio Borgonovo, esegeta biblico e arciprete del Duomo di Milano: «Una religione che pensa di agire in nome di Dio è falsa per sua natura, perché è Dio che muove all’azione l’uomo. Un Dio che uccide l’altro non può essere il vero Dio ma è una creazione della nostra mente. Dio fa vivere, non vuole la morte dell’altro». Prova ne è che l’episodio di Isacco (in ebraico codesto nome significa “Dio sorrida” o “Dio sorride”), nel capitolo 22 della Genesi: il Signore mette alla prova Abramo chiedendogli di sacrificare suo figlio ma poi un angelo lo ferma. Dio non vuole la morte del giovane ma desidera che egli continui a vivere; insomma, il primo libro della Bibbia evidenzia che non ci sono giustificazioni per uccidere in nome dell’Altissimo. E Paolo nella Lettera ai Filippesi scrive quasi a conclusione dell’argomento in questione: «Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi» (4,4).
Tra l’altro, la critica occidentale alle istituzioni religiose o a talune condotte dei loro rappresentanti, da almeno tre secoli a questa parte, si è coniugata attraverso ogni mezzo di comunicazione con il liberalismo e la democrazia. Le osservazioni potevano essere o no condivise, ma si è almeno imparato che esse non si risolvono con la violenza. La Chiesa è più credibile (e ha maggior forza morale) da quando l’Inquisizione ha smesso di accendere roghi. Si potrà non condividere l’attacco che Voltaire fa al Corano nel Dizionario filosofico, ma se ne bruciassimo le copie faremmo un favore al celebre illuminista. E così va detto delle dure parole scritte da Arthur Schopenhauer ne Il mondo come volontà e rappresentazione sul medesimo argomento. L’Islam fu criticato da personaggi quali George Bernard Shaw o Rabindranath Tagore, da politici come Theodore Roosevelt o Winston Churchill o dal padre della patria turco Mustafa Kemal Atatürk (tra l’altro, depenalizzò le bevande alcoliche), da pensatori notissimi quali Bertrand Russell o Carl Gustav Jung. La miglior risposta che ad essi è possibile dare passa dalle argomentazioni, non certo ricorrendo a censure e violenza.
Germania al buio contro Pegida: “Saremo il Muro anti-razzisti”
Gli islamofobi riempiono le piazze, municipi e chiese spengono le lucidi Tonia Mastrobuoni La Stampa 7.1.15
Affatto scoraggiati che l’inno più bello della rivoluzione pacifica dell’89, «noi siamo il popolo», sia stato scippato dagli anti islamisti di Pegida, gli organizzatori della contromanifestazione di Berlino hanno reagito lunedì con uno slogan all’altezza: «Noi siamo il muro». E per due interminabili ore, seimila berlinesi - tra cui il ministro della Giustizia Heiko Maas (Spd) - sono riusciti ad impedire che i circa 450 manifestanti di «Baergida» (un acronimo che gioca con i termini «Berlino» e «Baer», l’orso simbolo della capitale, e Pegida) convenuti davanti al municipio, muovessero un solo passo.
Contromanifestazioni
Per la prima volta, gli organizzatori del movimento «contro l’islamizzazione dell’Occidente» avevano tentato di sbarcare nella capitale, ma sono stati seppelliti da una risata. Anche il Senato comunale ha deciso di dare un segnale forte: alle 19, l’orario in cui si sarebbero dovuti mettere in marcia, Berlino ha spento le luci della Porta di Brandeburgo, meta di Baergida.
L’idea di lasciare gli intolleranti al buio non è stata solo della capitale. A fare da apripista è stata una città simbolo dell’integrazione, Colonia, che ha preso una decisione clamorosa: spegnere le luci che illuminano il magnifico duomo. Il senso del gesto lo ha spiegato il decano, Norbert Feldhoff, «Pegida è composto da un sorprendente miscuglio di persone» che vanno da cittadini comuni a estremisti di destra. Spegnendo la luce «vogliamo far sì che coloro che partecipano alla marcia si fermino e pensino: considerate a fianco di chi state marciando».
Il portavoce «italonazi»
Anche nella città renana i manifestanti sono stati costretti a rinunciare al corteo causa numero schiacciante di contromanifestanti. Ma tra i protagonisti degli anti islamisti di «Koegida» c’è un italiano che sta facendo discutere. Dopo il flop dell’iniziativa, è stato addirittura nominato portavoce della costola coloniese del movimento. Sulla sua pagina Facebook c’è scritto a chiare lettere che l’italiano cresciuto in Svevia, ad Augusta, con un passato in movimenti di estrema destra come la «German Defense League», si definisce un «Italonazi».
Le contromanifestazioni sono state un successo ovunque e si sono tenute a Muenster, Monaco, Marburgo, Kassel, Rostock. A Stoccarda, dove non era neanche previsto un corteo di anti islamisti, duemila persone sono scese in piazza per esprimere solidarietà agli immigrati. Persino a Dresda, da cui Pegida ha preso tre mesi fa le mosse, il Comune ha lasciato al buio la Semperoper, dinanzi alla quale gli anti islamisti si danno appuntamento ogni lunedì. Tuttavia, il numero delle persone che protestano contro l’Islam sfilando per il centro della «Firenze sull’Elba», è nuovamente cresciuto, raggiungendo stavolta i 18.000.
Il monito della Merkel
Dopo le dure parole di condanna del discorso di fine anno della cancelliera Angela Merkel, su Pegida si sono fatti sentire molti esponenti del governo. Il ministro degli Esteri Steinmeier ha detto che il movimento getta una cattiva luce sulla Germania. Ursula von der Leyen, responsabile della Difesa, ha sostenuto che chi predica l’esclusione «non ha capito nulla del cristianesimo», mentre il suo collega delle Finanze Schaeuble ha sottolineato che «le parole non sostituiscono i fatti: la Germania ha bisogno degli immigrati».
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