venerdì 9 gennaio 2015

Ce n'est qu'un debut: Sinistra Imperiale scatenata, delirio continuo in Europa

Un delirio nel quale Cacciari diventa per contrasto un gigante. L'appello di Cardini a farla finita con la colonizzazione è poi irricevibile, ormai, per il 90% dell'opinione pubblica [SGA].

Lo storico Franco Cardini “Contrastiamo la Jihad, non il vero Islam”

di Roberta Zunini il Fatto 3.1.15
La diffusione del video in cui Vanessa e Greta appaiono impaurite e chiedono al nostro Stato di tirarle fuori da lì, suona come un messaggio da parte dei rapitori affinché l'Italia le ricompri. I rapitori cioè hanno alzato la posta dopo un'interruzione delle trattative causate da qualcosa che noi, come opinione pubblica, non conosciamo, ma i nostri servizi sì, se hanno portato avanti in modo corretto le procedure. Se invece i nostri servizi avessero fatto un errore nelle procedure, e non si tratta dunque di un'interruzione dovuta a un tentativo di non pagare un riscatto troppo alto, il video potrebbe essere tradotto come un invito a riprendere le trattative pena l'uccisione delle ragazze. Oppure potrebbe essere letto ancora in un altro modo: il gruppo di Al Nusra che le ha sequestrate si è trovato in disaccordo al proprio interno sul modo di procedere e ha bloccato le trattative. Ma ora la frattura si è ricomposta e con questo video hanno fatto sapere all'Italia che è pronto a riprendere le negoziazioni”. Così si esprime lo storico e saggista Franco Cardini, esperto di Medioevo e Islam, raggiunto al telefono in Giordania. Dopo la diffusione del video con le due ragazze italiane rapite - in cui chiedono al governo italiano di essere liberate – è di nuovo sceso il silenzio sulla loro sorte. Le ragazze sarebbero rimaste nella regione dove sono state rapite questa estate: a sud-ovest di Aleppo, nella campagna di Abizmu, una zona fuori dal controllo sia delle truppe del regime che dei miliziani di al Nusra (l'ala siriana di al Qaeda), che tuttavia tramite un suo miliziano, ne avrebbe rivendicato la detenzione.
È stato chiesto il riserbo assoluto alla stampa. Perché a suo avviso?
La richiesta di riserbo assoluto da parte dei nostri servizi è legittima perché questa è sicuramente la fase più delicata delle trattative avviate per riportare a casa le ragazze, detto questo è evidente che qualcosa si è inceppato nel meccanismo (ieri avevamo scritto che fonti riservate avevano detto al Fatto che poco prima di Natale sembrava tutto pronto per il loro rilascio, ndr) ed è altrettanto legittimo riflettere sulla situazione che non è semplice.
Ed è anche molto pericolosa?
È pericolosa perché la comunità internazionale non sa bene che pesci pigliare. Se è vero che l'Isis e Al-Nusra, cioè i gruppi integralisti islamici, possono essere sconfitti militarmente, a patto che si mettano gli scarponi sul terreno, va anche detto che questi rinasceranno perché ciò che va sconfitta è l'ideologia islamista, non l'Islam.
Vuol spiegare questa differenza?
Intanto, ribadisco, i jihadisti che sono musulmani sunniti, vanno combattuti e sconfitti dagli stessi sunniti e non da noi occidentali, altrimenti servirebbe a poco; mentre noi occidentali possiamo fare di più non alimentando i motivi per i quali sono nati questi gruppi di super integralisti.
Quali sono questi motivi?
La frustrazione sociale ed economica. Come ha saggiamente avvertito Papa Francesco: ‘Il male dei popoli poveri può essere il fanatismo’. Dobbiamo pensare che il mondo islamico è una cerniera tra un Occidente ricco e un sud povero. I musulmani abitano un'ampia fascia geografica (dal Vicino Oriente al Sud-Est asiatico fino all'Africa nera dove vivono i più poveri tra i ricchi e i più ricchi tra i poveri), se non li aiutiamo a migliorare la loro condizione la valvola può saltare e, in un certo senso, è già saltata ma non del tutto. Dobbiamo smetterla di proseguire quella sorta di colonizzazione partita con i mandati inglesi e francesi.
Questi jihadisti rappresentano il nuovo volto dell'Islam?
No. Ci sono un miliardo e mezzo di musulmani nel mondo e gli integralisti sono una minima parte. Certo potrebbe aumentare, ma, pur essendo l'Islam come l'ebraismo una religione di “Legge”, cioè finalizzata alla realizzazione della giustizia divina e non della pace in senso stretto tra gli uomini, non vedo i presupposti per una sua trasformazione globale in senso estremista.
E come definisce i combattenti stranieri, cioè i giovani nati in Europa, figli di immigrati già di seconda generazione, che sono andati a combattere nelle file del califfato?
A mio avviso si tratta di schegge impazzite. Ragazzi frustrati e arrabbiati in questo caso non per mancanza di cultura o denaro ma per l'emarginazione sociale in cui sentono di vivere, a torto o a ragione.
La comunità internazionale dovrebbe riconoscere il Califfato islamico (Is o Isis ndr) come uno Stato ?
L'Onu è il grande assente, come da parecchio tempo a questa parte, ma poniamo il caso che esista ancora e allora sì, dico che dovrebbe ma nel senso di considerare lo Stato islamico come uno Stato nemico e quindi combatterlo militarmente per legittima difesa, fino in fondo.


Emma Bonino: "Laici di tutto il mondo, unitevi contro l'intolleranza"
Per contrastare i semi dell'odio che invadono un'Europa debole con i razzisti e impotente con i dittatori è necessario coltivare il laicismo Unica arma contro i talebani di ogni credo intervista di Wlodek Goldkorn l’Espresso 6.1.15

di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa 9.1.15

Pensiero critico per andare contro gli estremismi

di Marco Belpoliti La Stampa 9.1.15
Alla fine degli Anni Ottanta Salman Rushdie, scrittore angloindiano, riceve la fatwa, una condanna a morte, per via del suo romanzo «I versi satanici». La decreta Khomeini, leader religioso iraniano, per il trattamento irriguardoso nel romanzo riservato a suo dire al profeta Maometto. Rushdie, che nel libro ha fornito del capo spirituale e politico dell’Iran un ritratto ben poco lusinghiero, è costretto a nascondersi per due decenni protetto dai servizi segreti britannici. Quasi ventisei anni dopo un altro scrittore, il francese Michel Houellebecq, pubblica alla vigilia del sanguinoso massacro di Rue Nicolas Appert, un romanzo, «Sottomissione» (Bompiani), in cui descrive uno scenario completamente opposto. Non ci sono più due attori indiani che precipitano dal cielo, dopo un attentato terroristico all’aereo su cui volavano, bensì un raffinato intellettuale parigino che discetta di simbolismo e autori cattolici, e si dedica al sesso. Decide di convertirsi, ovvero di arrendersi all’Islam trionfante. Nella distopia architettata da Houellebecq la Francia è ora dominata dal partito della Fratellanza islamica, che ha vinto le elezioni, e il suo leader, Mohammed Ben Abbes, ha avuto i voti degli avversari del Front National ed ha istituito una repubblica islamica. Nella provocazione, intelligente e letterariamente accattivante dello scrittore francese, tutto si è rovesciato. Come si sa il suo romanzo ha anticipato di un giorno o poco più la vicenda dell’assalto al giornale satirico. Si tratta di qualcosa che con Jung si può chiamare «sincronicità»; qui la coincidenza tra l’immaginazione dell’arte e i fatti della vita. Il romanzo, pur non parlando di attentati a giornalisti e disegnatori, ha indicato uno dei temi che si celano dentro le ultime vicende che stanno insanguinando il Pianeta: l’eccesso. Da qualche tempo il fanatismo ha fatto ritorno sulla scena. Fanatico è uno che è ispirato, che è posseduto da una divinità o da un demone, che è colto da entusiasmi e compie atti eccessivi, fuori luogo. L’eccesso domina oggi molti campi. Uno psicoanalista inglese di grande talento, Adam Philipps, ha tenuto qualche anno fa alla Bbc cinque conversazioni sul tema dell’eccesso, in cui ha spiegato come abbracci diverse esperienze umane, dall’anoressia ai kamikaze, dal giocatore compulsivo al bambino che reclama attenzioni. Segna soprattutto i principali conflitti politici e religiosi oggi in atto, ed anche eccessive sono le sproporzioni economiche tra singoli individui, classi sociali e nazioni; ma anche sesso e violenza ne mostrano sempre nuove facce. Discorso difficile quello sull’eccesso, che Houellebecq condensa nel suo romanzo, perché, come dice Philipps, «niente è più eccessivo dei discorsi sull’eccesso». Quello che colpisce nella coincidenza di romanzo e attentato è questa comune radice, che in un caso, nello scrittore, assume le forme della distopia politico-sociale, e nell’assalto dei terroristi quella della ben più terribile e reale della strage di vite umane. L’eccesso è la libertà di uscire, dice Phillips. Da cosa? Dalle regole, prima di tutto, dalle giuste misure stabilite attraverso patti più o meno scritti in ogni società. L’eccesso è contagioso e permette di essere eccessivi a propria volta. Ogni eccesso rivela i desideri e le convinzioni che vi si occultano in modo più o meno palese. Il protagonista del romanzo di Houellebecq rinuncia a ciò che è il valore per eccellenza della cultura dei Lumi, la libertà, per sottomettersi – questo il significato della parola Islam – a un regime religioso in forte contrasto con il suo passato d’intellettuale. Compie un eccesso, così come eccessivo è in fondo tutto il suo estetismo e la sua sessualità di maschio occidentale dedito al godimento. Pasolini ha ben descritto nel suo nerissimo «Salò Sade» l’arbitrio che si cela nella libertà. Nell’eccesso della nuova fede cui si converte, il protagonista trova ragioni per suo sadomasochismo. Cosa ha in comune questo personaggio di carta con i giovani che armati di mitragliatori hanno fatto strage nella sede di Charlie Hebdo? Nulla, se non l’eccesso che connota oggi la realtà contemporanea e ne fa senza dubbio un’età dell’estremismo. La convinzione di Hoellebecq è che l’Occidente sia perso, che non abbia più futuro e la depressione sia il nostro unico destino. Allora perché resistere? Perché tutto ciò non risolve il problema dell’eccesso, quello degli altri, come il nostro. «Ogni nostro eccesso è il segno di una privazione ignota», conclude Philipps. Davanti all’attacco assassino alla rivista satirica francese non è tanto la bandiera della libertà che bisogna issare, bensì il vessillo del nostro pensiero critico, che non deve indietreggiare nell’indagare anche quanto di oscuro c’è in noi. Solo così l’eccesso non l’avrà vinta.



Vogliono uccidere la nostra anima
Non sono pazzi criminali, li muove un’ideologia politica Più l’Occidente si autocensura, più diventeranno audaci

di Ayaan Hirsi Ali Corriere 9.1.15
Dopo la carneficina di mercoledì, forse l’Occidente metterà finalmente da parte le tante scuse artificiose impiegate finora per negare ogni nesso tra violenza e Islam radicale.

Questo non è stato un attacco sferrato da uno squilibrato, da un lupo solitario. Non è stata un’aggressione per mano di delinquenti qualunque. Era stata programmata per fare più morti possibile, durante una riunione di redazione, con armi automatiche e un piano di fuga. Gli assassini volevano seminare il terrore, e ci sono riusciti. Ma di cosa ci sorprendiamo? Se c’è una lezione da imparare, è che tutto ciò che noi crediamo dell’Islam non ha alcun peso. Questo tipo di violenza, la jihad, rappresenta quello in cui credono gli islamisti. Il Corano è disseminato di appelli alla jihad violenta, ma non solo. In troppa parte dell’Islam, la jihad si è evoluta in un’ideologia moderna. La «bibbia» del jihadista del ventesimo secolo è «Il concetto coranico della guerra», scritto dal generale pakistano S.K. Malik.
Nella sua analisi l’anima umana — e non il campo di battaglia fisico — rappresenta il centro dove portare il conflitto. E il modo migliore di colpire l’anima è attraverso il terrore, «il punto in cui il mezzo e il fine si ricongiungono». Ogni volta che giustifichiamo la loro violenza in nome della religione, ci pieghiamo alle loro richieste. Nell’Islam, è un grave peccato rappresentare o denigrare il profeta Maometto. I musulmani sono liberi di crederci, ma perché devono imporlo ad altri? L’Islam, con i suoi 1.400 anni di storia e un miliardo e mezzo di fedeli, dovrebbe riuscire a tollerare qualche vignetta. L’Occidente deve costringere i musulmani, specie quelli della diaspora, a rispondere a questa domanda: che cosa è più offensivo per un credente, l’uccisione, la tortura, la schiavitù, la lotta armata e gli attacchi terroristici in nome di Maometto, o la produzione di disegni, film e libri che si fanno beffe degli estremisti e della loro visione di ciò che Maometto rappresenta?
Per rispondere a Malik, la nostra anima in Occidente crede nella libertà di coscienza e parola. Sono le libertà che formano l’anima della nostra civiltà. Ed è proprio in questo che gli islamisti ci hanno attaccato. Tutto dipende da come reagiremo. Se ci convinciamo di combattere contro un manipolo di pazzi criminali, non saremo in grado di fornire risposte. Dobbiamo riconoscere che gli islamisti di oggi sono motivati da un’ideologia politica, radicata nella dottrina fondante dell’Islam. Sarebbe un notevole cambiamento di rotta per l’Occidente, che troppo spesso ha reagito alla violenza jihadista con tentativi di conciliazione. Cerchiamo di blandire i capi di governo islamici che premono per costringerci a censurare stampa, università, libri di storia, programmi scolastici. Loro alzano la voce, e noi obbediamo. In cambio cosa otteniamo? I kalashnikov nel cuore di Parigi. Più ci sforziamo di attenuare, placare, conciliare, più ci autocensuriamo, più il nemico si fa audace ed esigente.
C’è una sola risposta a questo vergognoso attacco jihadista contro Charlie Hebdo : l’obbligo di media e leader occidentali, religiosi e laici, di proteggere i diritti elementari di libertà di espressione, che sia la satira o altro. L’Occidente non deve più inchinarsi, non deve più tacere. Dobbiamo inviare ai terroristi un messaggio univoco: la vostra violenza non riuscirà a distruggere la nostra anima. Traduzione di Rita Baldassarri

Clericalismi Il fondamentalismo si combatte soltanto con la laicità assoluta

di Paolo Flores d’Arcais il Fatto 9.1.15
Eroi delle libertà democratiche, pronunzia tempestivamente il presidente Hollande. È vero. Wolinski e i suoi compagni di Charlie Hebdo erano infatti libertini sessuomani, estremisti di sinistra, atei, anarchici-e-comunisti, e infine irresponsabili, come recitava cristallinamente e orgogliosamente il sottotitolo del settimanale. Oggi ne fanno il ditirambo governanti reazionari e giornalisti d’establishment, despoti e finte sinistre, Papi e Leghe arabe, con tassi di ipocrisia diversi e che non proviamo neppure a misurare. Meglio così, devono ora tutti allinearsi a difesa del diritto alle “enormità” con cui gli “estremisti” irresponsabili appena assassinati avevano caratterizzato le loro vite, riempito le pagine di Charlie e nutrito le nostre libertà.

Mentre avevano ancora la matita in mano li hanno solo attaccati, mal sopportati, diffamati. L’elogio che obtorto collo devono farne oggi è perciò la vignetta e l’editoriale che Wolinski e Charb avrebbero potuto scrivere sull’ipocrisia del potere. Non dimentichiamolo.
La strage è stata fatta in nome di Dio, il dio monoteista, creatore e onnipotente, il Dio di Maometto, Allah il Clemente e Misericordioso (sono i primi due dei suoi novantanove nomi). L’islam dunque, ma quello fondamentalista e terrorista, si è detto. L’altro islam è una vittima, si sottolinea. Senza dubbio. A un patto: che questo altro islam parli in modo forte, chiaro, senza contorsionismi semantici, e con adamantina coerenza di comportamenti. Non basta perciò che condanni come mostruosa la strage di rue Nicolas Appert 10 (ci mancherebbe!) è ineludibile che riconosca la legittimità e la normalità democratica di quanto Charlie praticava in modo esemplare per intransigenza: il diritto di criticare tanto i fanti che i santi, fino alla Madonna, al Profeta e a Dio stesso nelle sue multiformi confessioni concorrenziali.
ANCHE, e verrebbe da dire soprattutto, quando tale critica è vissuta dal credente come un’offesa alla propria fede. Questo esige la libertà democratica, poiché tale diritto svanisce se dei suoi limiti diviene arbitro e padrone il fedele.
La laicità più rigorosa, che esclude Dio, qualsiasi Dio, dalla vita pubblica (scuole, tribunali, comizi elettorali, salotti televisivi, ecc.), è perciò l’unica salvaguardia contro l’incubazione di un brodo di coltura clericale che inevitabilmente può diventare pallottola fondamentalista.



L’appello di Garton Ash ai giornali europei “Pubblicate le vignette no al veto degli assassini”
di Timothy Garton Ash Repubblica 9.1.15

PROPONGO che tutti i media d’Europa rispondano all’azione assassina dei terroristi islamisti coordinandosi per pubblicare la prossima settimana una selezione delle vignette di Charlie Hebdo assieme ad un comunicato che spieghi i motivi dell’iniziativa. Una settimana si solidarietà e di libertà, in cui tutti gli europei, musulmani inclusi, ribadiscano il loro impegno in difesa della libertà di parola, l’unico strumento che ci consente di armonizzare la diversità con la libertà.
In caso contrario a vincere sarà il veto imposto dagli assassini. Perché nonostante le prese di posizione risolute dei media, le vignette solidali e le commoventi manifestazioni all’insegna del motto “Je suis Charlie”, gran parte delle pubblicazioni, lasciate a se stesse, in futuro si autocensureranno per paura. E gli estremisti violenti di altre convinzioni ne trarranno insegnamento: se vuoi imporre il tuo tabù, imbraccia un fucile. Le diversità non si risolvono con la violenza. Si risolvono con la parola. Questo è il principio fondamentale che dobbiamo difendere uniti, soprattutto noi che ci guadagniamo la vita con le parole e con le immagini. Possiamo infuriarci, essere brutali, sarcastici, offensivi — ed essere offesi. Esistono dei limiti, imposti da leggi che possiamo tentare di cambiare in parlamento. Possiamo manifestare pacificamente, ricorrendo anche alla disubbidienza civile. Ma solo lo stato democratico può far uso legittimo delle violenza, che in quel caso chiamiamo forza. La moneta sovrana della libertà ha due facce. Su un sito web dedicato al dibattito sulla libertà di parola ho formulato il principio in questi termini: «Non minacciamo di ricorrere alla violenza né accettiamo l’intimidazione violenta». E’ la seconda affermazione che ora esige questo momento straordinario di solidarietà da parte dei media europei.
Propongo che durante questa settimana si pubblichino non solo le vignette di Charlie Hebdo relative a Maometto, ma anche alcune mirate ad altri soggetti, così da evidenziar- ne il carattere satirico, offensivo per diverse categorie di persone. La satira è proprio questo. Il comunicato avrà il compito di motivare la pubblicazione delle vignette satiriche da parte di media che non ne hanno normalmente l’abitudine. I lettori e gli spettatori dovranno essere avvertiti in anticipo della pubblicazione, ma le immagini non dovranno essere in alcun modo censurate o modificate.
Ci vorrà tempo per organizzare un’azione del genere, ma non sarà un male, anzi, contribuirà a tenere alta l’attenzione sul tema, dato che i media macinano notizie a ritmo inesorabile. Sarebbe ottimo se i media liberi di tutto il mondo aderissero all’iniziativa, ma spetta soprattutto agli europei in questo momento mostrarsi solidali in difesa della libertà di parola, per noi valore determinante, nonché chiave del nostro modo di vivere. E’ la libertà da cui le altre in gran parte dipendono.
Il commento verrà redatto in forma autonoma da ogni singolo quotidiano, rivista, sito web, blog o pagina di rete sociale, come è giusto che sia. Io comunque scriverei così: «Non si deve mai permettere che la violenza limiti la libertà di parola. Per questo, pur non pubblicando normalmente vignette satiriche, abbiamo scelto di farlo oggi, assieme ad altri media in tutta Europa. Solo questa solidarietà dimostrerà agli assassini e aspiranti tali che non possono dividere i media per renderli succubi ricorrendo all’intimidazione affinché si autocensurino. L’attacco contro uno è attacco contro tutti. In questo senso nous sommes tous Charlie .
Così gli assassini otterranno come unico risultato che le vignette su Maometto saranno sotto gli occhi di milioni di persone che altrimenti non le avrebbero mai viste. Sono gli assassini, non i vignettisti, a far questo all’immagine del Profeta. E’ sorto infatti un enorme, legittimo, interesse da parte dell’opinione pubblica riguardo alla causa verosimile del grottesco massacro dei vignettisti francesi Charb, Cabu, Honore, Wolinski e Tignous — nomi ormai entrati nella storia — dei loro colleghi e dei poliziotti per mano dei terroristi.
La pubblicazione coordinata delle vignette non è un gesto gratuito. Non è contro l’Islam. Al contrario, è proprio in difesa della realtà per cui i musulmani d’Europa — a differenza dei cristiani e degli atei in gran parte del Medio Oriente — possono esprimere liberamente le loro convinzioni più radicate e sfidare quelle altrui. È in gioco il destino dell’Europa e della libertà. La nostra convivenza nella libertà dipende da questo: che non prevalga il veto degli assassini». Traduzione Emilia Benghi

Cacciari: “Politica di accoglienza o avremo il conflitto in Europa”

intervista di Rodolfo Sala Repubblica 9.1.15
MILANO «I fatti orrendi di Parigi dovrebbero imporre a tutti noi di ragionare alla grande, ma in questo clima sono in pochi a ragionare, soprattutto in Italia. Il livello del dibattito è deprimente». Lo dice il filosofo Massimo Cacciari E quale sarebbe, professore, la prima riflessione da fare?

«Negli ultimi venti-trent’anni abbiamo vissuto tutti nell’illusione che la storia potesse in qualche modo cancellare la propria dimensione tragica. Che la nostra Penisola potesse restare fuori dalle trasformazioni epocali che hanno rivoluzionato la geopolitica e prodotto una serie di conflitti (Afghanistan, Iraq, la questione irrisolta dei rapporti tra Israele e palestinesi) che anche per colpa dell’Occidente restano pesantemente irrisolti».
Risultato?
«Vedo un rischio terribile e concreto. Il rischio di una guerra civile in Europa. Mi spiego: dobbiamo tenere presente che nel 2050 la metà della popolazione del nostro continente sarà di origine extracomunitaria, quindi è impensabile ritenerci in guerra, noi europei, con l’altra parte, con il mondo islamico. Per questo dico che bisogna ragionare alla grande. Il problema è con chi».
A che cosa allude?
«In Europa, per non dire dell’Italia, in questo momento c’è una deficienza paurosa di personale politico in grado di affrontare il problema. Qui non c’è un’Europa in guerra, ci sono conflitti da disinnescare anche con le armi dell’intelligenza. E con la consapevolezza che si tratta di un processo lungo, difficile, faticoso. Ma non c’è alternativa, altrimenti si va dritti verso quello scontro di civiltà a cui puntano proprio i terroristi».
Le armi dell’intelligenza, lei dice...
«Certo. Se durante il secondo conflitto mondiale ci fosse stato solo il generale Patton, e non anche la lungimiranza di leader come Churchill e Roosevelt, avrebbe vinto Hitler. Affontare il problema solo dal lato della semplice repressione non basta, non può bastare. Anche se questi islamisti hanno compiuto un indiscutibile salto di qualità».
In che senso?
«Non siamo in presenza del kamikaze solitario, della bomba anonima. Le azioni come quella di Parigi sono programmate con una logica militare che punta, voglio ripeterlo, allo scontro di civiltà».
Quindi?
«Fino a quando la nostra democrazia non dimostrerà di essere accogliente, e continuerà con le disuguaglianze, questo tipo di terrorismo troverà sempre terreno favorevole. Sullo scenario europeo, ora si pensa di far fuori la Grecia, mentre si allargano i confini dell’Unione alla Lituania: è pazzesco».
Ma i toni salgono, Salvini dice che siamo in guerra...
«Una battuta che si commenta da sé, sotto il profilo culturale. Sarebbe un errore madornale additare nell’Islam il nemico, il modo per moltiplicare gli jihadisti».
Aggiunge che il Papa non deve dialogare con l’Islam...
«Figuriamoci che cosa importa al Pontefice delle parole di Salvini. Che insieme alla Le Pen sta facendo di tutto per ostacolare il dialogo. Se si votasse domani la Lega e il Front national prenderebbero una valanga di voti. Sarebbe pericolosissimo, allora sì che saremmo in guerra. Certo, poi occorre realismo ».
E cioè?
«Riconoscere che fino a quando non sarà abbattuto lo Stato islamico dobbiamo aspettarci il peggio. Ma lo si abbatte solo se non si invoca il conflitto di civiltà. Purtroppo quando la storia appare tragica si fa molto fatica a ragionare. È del tutto logico, e porta anche voti: ma è anche pericolosissimo. Bisognerebbe fare un grande sforzo a partire da noi italiani, non credo sia inutile. In fin dei conti, con la storia che abbiamo, dovremmo essere vaccinati. Anche se adesso non pare così».


Pennac: “Solo ora capiamo che per le nostre guerre lontane rischiamo di morire qui a casa”

Dopo la strage e lo shock, lo scrittore riflette sulle cause dell’assalto: “La Francia ha esportato il conflitto in paesi come Mali e Afghanistan, credendo che gli estremisti non avrebbero colpito. C’è un solo rimedio: combattere sempre violenza e intolleranza”

intervista di Fabio Gambaro Repubblica 9.1.15
PARIGI «SONO tristissimo. Conoscevo bene Tignous e Bernard Maris. E poco tempo fa avevo cenato con Charb e Cabu. Mi era anche capitato d’incontrare Wolinski. Di fronte alla loro morte sono senza parole». Appena avuta la notizia dell’attacco a Charlie Hebdo , l’altra sera Daniel Pennac si è recato alla manifestazione sulla Place de la Republique, dove insieme a migliaia di altre persone ha protestato contro la barbarie di un odio ingiustificabile. «Erano persone coraggiose, capaci di continuare a fare il loro lavoro nonostante le molte minacce ricevute. Ma al di là delle qualità professionali erano persone adorabili, lontanissime da ogni violenza e aggressività. Grazie al loro entusiasmo, Charlie Hebdo ha sempre rappresentato la forza e il piacere di un’assoluta libertà di pensiero, che certo poteva scioccare chi preferisce trincerarsi dietro certezze incrollabili. I terroristi hanno voluto assassinare la loro libertà».

Gli assalitori gridavano «abbiamo ammazzato Charlie». Ci sono riusciti per davvero?
«Assolutamente no. Charlie Hebdo continuerà a vivere. Io, come molti altri, farò di tutto per aiutarli. Troveremo il modo di far sopravvivere lo spirito libero e irriverente del giornale, scrivendo, disegnando, abbonandosi, aiutando finanziariamente la redazione. L’ironia e l’autoironia sono sempre necessarie: un’anima senza ironia diventa un inferno ».
A chi parla dei limiti della satira, cosa risponde?
«È tutta la vita che ne sento parlare. Chi invoca questo tipo di limiti in realtà vuole solo imporre i propri limiti agli altri. I cattolici, i musulmani, i tradizionalisti, ciascuno vuole far prevalere le proprie regole. Ma ciò non ha senso. Solo una convinzione ottusa e prigioniera di certezze ideologiche e religiose può sentire il bisogno d’imporre un limite all’ironia. Gli unici limiti concepibili sono quelli che l’umorista, l’artista si pone da solo. Io so che ci sono ambiti su cui non scriverò mai, ma questo lo decido io. Nessuno potrà mai impormi gli argomenti su cui scrivere o meno».
La situazione, però, è diventata da guerra.
«La Francia è in guerra, solo che finora il campo di battaglia era geograficamente lontano, in Mali, in Afghanistan. Quindi ci siamo illusi che gli estremisti contro cui stavamo combattendo non avrebbe mai potuto colpirci. Oggi sappiamo che non è vero. E temo che in futuro assisteremo ad altri attacchi di questo tipo».
Come spiega la radicalizzazione di certi giovani che imboccano la strada del terrorismo?
«È il risultato di molti fattori, tra cui il capitalismo odierno che fa la guerra ai poveri e non alla povertà. In questo modo marginalizza una parte della popolazione che si sente esclusa e isolata dalla società. Se a ciò si aggiungono le discriminazioni subite, si comprende come certe persone possano progressivamente radicalizzarsi al punto da odiare la società in cui vivono. Spesso manipolati, costoro diventando disponibili alla violenza e alla follia del terrorismo».
Per la società francese, quali saranno le conseguenze di quanto è accaduto?
«Purtroppo le vittime simboliche di questa strage sono innanzitutto i musulmani di Francia che si ritrovano presi tra due fuochi. Da un lato, ci sono gli assassini che pretendono di parlare in loro nome. Dall’altra, un’opinione pubblica che chiede loro di dimostrare continuamente di essere diversi e lontani dagli assassini. Per i musulmani è una situazione molto difficile. Se i terroristi incarnano una malattia mortale, a modo suo anche l’estrema destra è una malattia mortale, sebbene di un altro tipo. Ma possiamo produrre degli anticorpi».
Come fare?
«Non dobbiamo cedere alla paura degli altri. Non cedere al terrore è il migliore degli anticorpi ».
La cultura può contribuire?
«Mi piacerebbe rispondere di sì, ma purtroppo l’esperienza del passato c’insegna che non è vero. La cultura non ha mai evitato le catastrofi. La Germania aveva la cultura più avanzata, ma questa non ha potuto evitare la Shoah. La cultura può alimentare le coscienze, non può disarmare gli assassini. Il che naturalmente non significa che non si debba continuare a battersi e a lottare contro tutte le forme d’intolleranza e di violenza».
(L’ultimo libro di Daniel Pennac è Storia di un corpo , pubblicato come gli altri da Feltrinelli)


Il vero complesso di inferiorità dei fondamentalisti fragili e confusi

di Slavoj Zizek Repubblica 9.1.15
ORA che siamo tutti sotto shock, dopo la carneficina negli uffici di Charlie Hebdo, è il momento giusto per trovare il coraggio di ragionare. Naturalmente dobbiamo condannare senza ambiguità gli omicidi come un attacco contro l’essenza stessa delle nostre libertà, e condannarli senza nessun distinguo mascherato. Ma questo afflato di solidarietà universale non è abbastanza. Il ragionamento di cui parlo non ha assolutamente nulla a che vedere con le relativizzazioni da quattro soldi di questo crimine (il mantra del «Chi siamo noi occidentali, che abbiamo compiuto massacri terribili nel terzo mondo, per condannare atti come questi? »). E ha ancora meno a che fare con la paura patologica di tanti liberali progressisti occidentali di macchiarsi di islamofobia. Per questi finti progressisti, qualsiasi critica dell’islam viene additata come espressione dell’islamofobia occidentale: Salman Rushdie è stato accusato di aver provocato gratuitamente i musulmani, e quindi di essere responsabile (almeno in parte) della fatwa che lo condanna a morte, e via così.

Il risultato di posizioni del genere è quello che ci si può aspettare in questi casi: più i progressisti occidentali rovistano nel loro senso di colpa, più vengono accusati dai fondamentalisti islamici di essere ipocriti che cercano di nascondere il loro odio per l’islam. Questa costellazione riproduce alla perfezione il paradosso del superego: più obbedisci a quello che l’Altro pretende da te, più ti senti colpevole. In pratica, più tollerate l’islam, più forte sarà la pressione su di voi… Molto tempo addietro Friedrich Nietzsche percepiva che la civiltà occidentale stava avanzando verso l’Ultimo Uomo, una creatura apatica, senza grandi passioni o grandi impegni. Incapace di sognare, stanco della vita, non si prende rischi, cerca soltanto comfort e sicurezza, una manifestazione di tolleranza reciproca: «Un po’ di veleno ogni tanto, per fare sogni piacevoli. E tanto veleno alla fine, per una morte piacevole ». In effetti può sembrare che la spaccatura fra il permissivo primo mondo e la reazione fondamentalista contro di esso coincida sempre più con la contrapposizione fra una vita lunga e soddisfacente, piena di benessere materiale e culturale, e una vita dedicata a qualche Causa trascendente. “I migliori” non sono più capaci di impegnarsi fino in fondo, mentre «i peggiori» si impegnano in un fanatismo razzista, religioso, sessista.
Ma i terroristi fondamentalisti corrispondono esattamente a questa descrizione? La cosa di cui mancano con ogni evidenza è una qualità che è facile discernere in tutti i fondamentalisti autentici, dai buddisti tibetani agli Amish americani: l’assenza di risentimento e invidia, la profonda indifferenza verso il modo di vivere dei non credenti. Se i cosiddetti fondamentalisti dei nostri giorni sono convinti davvero di aver trovato la via verso la Verità, perché dovrebbero sentirsi minacciati dai non credenti, perché dovrebbero invidiarli? Quando un buddista incontra un edonista occidentale, non lo condanna di certo: si limita a osservare benevolmente che la ricerca di felicità dell’edonista è controproducente. Al contrario dei veri fondamentalisti, gli pseudofondamentalisti terroristi sono profondamente infastiditi, intrigati, affascinati dalla vita peccaminosa dei non credenti: si ha la sensazione che combattendo il peccatore stiano combattendo la loro stessa tentazione di peccato. Il terrore del fondamentalismo islamico non è radicato nella convinzione dei terroristi della propria superiorità, in un desiderio di preservare la propria identità cultural-religiosa dal furibondo assalto della civiltà consumistica globale. Il problema dei fondamentalisti non è che li consideriamo inferiori a noi, ma al contrario che loro stessi si considerano segretamente inferiori. È per questo che quando li rassicuriamo, pieni di condiscendenza e political correctness, che non ci sentiamo assolutamente superiori a loro non facciamo altro che farli inferocire ancora di più e alimentare il loro risentimento. Il problema non è la differenza culturale (il loro sforzo per preservare la propria identità), ma il contrario, il fatto che i fondamentalisti sono già come noi, che segretamente hanno già interiorizzato i nostri parametri e misurano se stessi in base a essi.
Il fondamentalismo è una reazione — una reazione falsa e mistificatrice, naturalmente — contro un difetto reale del liberalismo, ed è per questo che il liberalismo lo genera, ripetutamente. Affinché questa tradizione fondamentale possa sopravvivere, il liberalismo necessita dell’aiuto fraterno della sinistra radicale. È il solo modo per sconfiggere il fondamentalismo, tagliargli l’erba sotto i piedi.
Ragionare in risposta agli omicidi di Parigi significa mettere da parte il compiacimento autocelebrativo del liberale permissivo e accettare che il conflitto tra la permissività liberale e il fondamentalismo in definitiva è un conflitto falso. Quello che Horkheimer aveva detto riguardo a fascismo e capitalismo, e cioè che chi non è disposto a parlare in modo critico del capitalismo non dovrebbe contestare neppure il fascismo, andrebbe applicato anche al fondamentalismo dei nostri giorni: chi non è disposto a parlare in modo critico della democrazia liberale non dovrebbe contestare neppure il fondamentalismo religioso.
Traduzione di Fabio Galimberti

Sergio Staino “Piango l’amico Georges uomo libero contro i dogmi”
intervista di Raffaella De Santis Repubblica 8.1.15
LA LORO è stata una grande amicizia. Georges Wolinski per Sergio Staino non era solo un collega. Il loro primo incontro risale a più di trent’anni fa. Wolinski allora era noto per il personaggio di Paulette, ricca ereditiera orgogliosamente comunista. Ad unirli una satira corrosiva, un’ironia dissacrante e politicamente scorretta.
A quando risale la vostra amicizia?
«Ai tempi di Linus. Collaboravamo entrambi alla rivista. Wolinski era per me, insieme a Reiser, un mito. Così un giorno andai a Parigi e gli suonai al campanello. Poi nel corso degli anni è venuto spesso a mia casa in Toscana, insieme abbiamo fatto un viaggio a Cuba negli anni ‘90. Ha anche partecipato al mio film Non chiamarmi Omar, nella parte di un giornalista erotomane. Gli piaceva ridere sul sesso».
Quali sono i limiti alla libertà di critica?
«Wolinski era un antidogmatico, un anarchico di sinistra. Le sue storie erano certamente molto feroci, ma è la satira stessa a richiedere questo atteggiamento. La satira è per sua natura seminatrice di dubbi. La sua arma è l’intelligenza e in questo fa più male di un fucile o di una bomba».
Charlie Hebdo era nel mirino dei fondamentalisti. Ne avevate mai parlato?
«No, non discutevamo di questo. Nessun vignettista lavora pensando ai rischi. La libertà di espressione non può essere fermata in nome di un dogma. La satira esagera, allude, sottintende, è il suo modo di guardare il mondo».
Crede che questa tragedia innescherà forme di autocensura?
«Certo, si rischia che alimenti reazioni nazionaliste, che aiuti Salvini e Le Pen. Ma per quanto mi riguarda, dopo quello che è successo, ho ancora più voglia di dire la mia. Non dobbiamo permettere che il riso venga soffocato. Il mondo auspicato da questi fondamentalisti è di una tristezza terribile. Hanno colpito Parigi come simbolo della laicità e della democrazia».
Bobo che direbbe?
«Si sentirebbe orgoglioso di appartenere a una schiera di personaggi di carta che muoiono per il diritto di parlare».
Una vignetta di Wolinski che ricorda.
«Un operaio con una ragazza bellissima seduta sulle ginocchia e la frase: “Nulla è troppo per la classe operaia”».

La stampa in trincea. Nella strage delle matite i giovani fanatici giustiziano i vecchi libertini
di Michele Serva Repubblica 8.1.15
Il ceppo di Charlie e del suo antenato Hara Kiri è quello del radicalismo laico e repubblicano, molto solido in Francia. Con una forte innervatura sessuomane, anarchica e anticlericale esplosa con lo spirito sessantottardo ma ben presente anche prima, lungo Nove e Ottocento
NON è vero che a Charlie Hebdo niente è sacro. Sacra, in quel vecchio giornale parigino, è la libertà. Danzava, la libertà, allegra e nuda come le donnine di Wolinsky, attorno alla fragile trincea di scrivanie coperte di carta, matite, giornali, pennarelli (l’arsenale delle vittime) sulle quali sono caduti gli impenitenti artisti della satira francese, molti dei quali anziani, freddati dai loro giovani assassini.
Ragazzi bigotti che uccidono vecchi libertini. Autori di lungo corso come Georges Wolinsky, Charb, Cabu, usciti indenni da cento processi per oscenità, scampati a licenziamenti, fallimenti e censure, sopravvissuti perfino alle tante rissose diaspore interne al mondo (litigiosissimo) del giornalismo satirico, per poi morire così, macellati da due imbecilli sanguinari che della libertà niente possono e vogliono sapere: la libertà sta ai fanatici come la bicicletta ai pesci. Il ceppo di Charlie e del suo antenato Hara Kiri è quello, così solido in Francia, del radicalismo laico e repubblicano. Con una forte innervatura sessuomane, anarchica e anticlericale esplosa con lo spirito sessantottardo ma ben presente anche prima, a ritroso lungo Nove e Ottocento. Ispiratore indiscusso della rivista fu François Cavanna (origini piacentine), un vecchio hippy ribelle autore di versi esilaranti e spietati sulla soggezione dei popoli al potere e alle religioni. È morto nel suo letto quasi un anno fa, novantenne, candido e magro come un sacerdote, risparmiandosi questo orrore, e lo strazio di sapere offesa così in profondità la sua ilare tribù.
Il marchio di fabbrica di quel milieu satirico, immutato negli ultimi decenni e attraverso numerose testate, è una sorta di oltranzismo libertario e libertino che irrita anche la sinistra perbenista ed è sempre stato odiato dalla destra tradizionalista: il precedente direttore del giornale Philippe Val, omosessuale, pochi anni fa venne inseguito e picchiato per la strada, dopo un dibattito televisivo, da un gruppo di cristiani omofobi che voleva insegnarli come si sta al mondo. Una umiliante rappresaglia, ma niente in confronto al mostruoso esito del nuovo conflitto nel quale Charlie Hebdo, diciamo così per sua natura, non poteva non immischiarsi: quello tra la libertà di espressione e il fondamentalismo islamista. La lunga guerra iniziata “ufficialmente” nell’ormai lontano 1989 con la fatwa contro Salman Rushdie e i suoi Versi satanici . Guerra intestina all’Europa, va ricordato, fino dal suo primo atto: pare certo che la condanna a morte di Rushdie sia stata ispirata da ambienti islamisti londinesi, come se la refrattarietà di quel pezzo di Islam alla libertà di parola e di immagine fosse acuita, irreparabilmente, dalla promiscuità con i nostri costumi, ivi compresa la nostra (benedetta) scostumatezza.
La satira è, di suo, un linguaggio di confine, estremo e poco conforme alla disciplina. Restando (e purtroppo ci tocca) nella metafora bellica, è come un corpo di guastatori, le cui sortite non possono che scompaginare i ranghi, destabilizzare i ruoli. Sarebbe del tutto immorale, qui e ora, aprire il dibattito sulla liceità della blasfemia, o se volete della insolenza verso i dogmi religiosi. Sarebbe la cosa più blasfema da fare accanto a quei morti innocenti, e certamente morti di libertà (a causa della libertà, in nome della libertà). Sarebbe come se dalle retrovie, e con il culo al caldo, ci permettessimo di discettare sul rischio che si sono presi quei caduti.
Limitiamoci a constatare che, sul fronte della libertà di parola e di immagine, la satira non può che essere in prima linea. E a Charlie Hebdo avevano deciso di non arretrare di un passo. Ben sapendo — tra l’altro — che per una rivista fatta sostanzialmente da disegnatori la collisione con l’iconoclastia islamista è nelle cose. Le vittime di questa carneficina avevano tutte, metaforicamente o nella realtà, la matita in mano. E’ la matita, in questo vero e proprio Ground Zero della libertà di stampa, il minimo eppure potentissimo grattacielo abbattuto. Mettetevi una matita nel taschino, nei prossimi giorni, per sentirvi più vicini a Charlie, anche se non l’avete mai letto, anche se la satira vi piace così così, e la trovate eccessiva o sguaiata o provocatoria.
Salutiamo con un sorriso aperto — loro non vorrebbero di meglio — quella gente appassionata, intelligente e inerme, il direttore Charb (Stéphane Charbonnier), Cabu (Jean Cabus), Tignous (Berdard Verlhac), Georges Wolinsky, ingoiati dal buco nero dell’odio politico-religioso insieme al giornalista Bernard Maris, ad altri cinque compagni di lavoro e a due agenti di polizia. Provate a immaginare, per prendere le misure della strage di rue Nicolas- Appert, se i vignettisti che ogni giorno vi fanno ragionare o ridere sui giornali italiani venissero falciati tutti o quasi da un pogrom di fanatici, lasciando vuoto, sulla pagina, quel quadrato così superfluo e così indispensabile. Non dimentichiamoci mai, neanche per un secondo, come profuma di buono la libertà, e quanto siamo debitori, come europei, alla Francia e a Parigi.

L’amaca
di Michele Serva Repubblica 8.1.15
AVREI voluto lasciare vuoto questo cubicolo di carta, oggi, in segno di lutto, e di sconsolata impotenza. Ma poi ho pensato che il terrorismo ha un nemico invincibile, e questo nemico è la normalità delle nostre vite quotidiane. Le abitudini, i gesti utili e quelli inutili, le banali incombenze, il lavoro, la lettura, la scrittura, lo scambio di parole, insomma quella fitta e potentissima trama sociale che il terrorismo intende squarciare, senza mai riuscirci del tutto. Il suo obiettivo è renderci diversi da ciò che siamo: o più spaventati o più cattivi o più disorientati. Se invece riusciamo — in caso di terrorismo — a rimanere uguali a noi stessi, allora non possiamo che vincere, come un fiume enorme e pacifico che sommerge ogni asperità malevola. Mio compito è scrivere ogni giorno e questo voglio e devo fare. Immagino anche a Parigi — come accadde a Londra dopo le stragi islamiste nel metrò — lo sbandamento, lo sgomento, un breve annaspare nel panico, e poi la città che ricomincia a macinare la sua giornata, semmai con una punta di convinzione e di orgoglio in più. Ognuno di noi — non solamente i vignettisti satirici — è un potenziale bersaglio, di bomba o di raffica. Ma siamo talmente tanti, e talmente vivi e indaffarati, che fermarci è impossibile, come fermare il tempo che scorre.

La satira, le religioni e il lato sacro del profano
Perché in principio era il ridere, il ridere era presso Dio
di Armando Torno Il Sole 8.1.15
È possibile ancora ridere trattando temi religiosi? Dopo l’attentato di ieri a Parigi, al settimanale satirico Charlie Hebdo con morti e feriti come in un’azione di guerra, la risposta diventa difficile. O meglio, è ritornato il tempo delle incomprensioni e quanto è lecito per taluni diventa un crimine per altri. La violenza, che mai è stata cacciata dalla storia, gioca la sua parte ancora una volta. Eppure nella Bibbia non è vietato il sorriso, anzi sovente è incoraggiato. Come possiamo immaginare gli innamorati del Cantico dei Cantici, che si inseguono in tutto il piccolo libricino del Primo Testamento, senza pensare ai loro risolini?
Gesù è descritto sovente dai Vangeli in ambiti conviviali: nessuno potrà sostenere che vi partecipasse tenendo il broncio, anche se la questione del “riso di Cristo” è stata argomento di dibattito dei teologi medievali. Lo stesso profeta dell’Islam, Muhammad, o Maometto come si usa dire a causa di una tradizione medievale, manifesta nella letteratura islamica un senso dell’umorismo. Basterà ricordare un passo da Vite e Detti di Maometto (Meridiani Mondadori 2014) per rendersene conto: «Una vecchietta si avvicina a Muhammad e gli chiede se mai troverà posto in Paradiso: “No”, risponde il Profeta con tono aspro, “nel Cielo di Allah non entrano le vecchie”. La donna resta raggelata dalla risposta, ma Muhammad sorride, le porge una rosa e sussurra:”Quando sarai in Paradiso, tornerai a essere la fanciulla bella e sana che fosti ”».
Poter sorridere di talune questioni religiose non significa irriderle o farsene beffa: è semplicemente concedersi uno spazio di libertà per esercitare una delle facoltà donate all’uomo dal Creatore. Henri Bergson, che ben aveva studiato l’argomento in un libro edito nel 1901 e tuttora fondamentale, Il riso. Saggio sul significato del comico, stabilì che la differenza tra l’uomo e la bestia risiede nella capacità di ridere. Intuizione che porterà taluni esponenti della psicologia delle folle, come Gustave Le Bon, a credere che si diventa criminali quando si smarrisce il senso dell'umorismo. La qual cosa è successa all’Inquisizione o alle dittature, allorché giunsero al punto di non riuscire più a sopportare anche lievi forme di ironia. D’altra parte, ne Il nome della rosa di Umberto Eco il venerabile Jorge è disposto a uccidere pur di non far conoscere il secondo libro della Poetica di Aristotele che tratta del comico, convinto nella sua intransigenza che il riso può distruggere il dogma. I morti e i feriti del Charlie Hebdo ricordano che le lancette dell’orologio della ragione umana sono tornate indietro di alcuni secoli.
Sovente si ride di talune interpretazioni di altri uomini e non certo di Dio: i fondamentalismi, quasi sempre, dimenticano di distinguere i due aspetti. Ci confidava Gianantonio Borgonovo, esegeta biblico e arciprete del Duomo di Milano: «Una religione che pensa di agire in nome di Dio è falsa per sua natura, perché è Dio che muove all’azione l’uomo. Un Dio che uccide l’altro non può essere il vero Dio ma è una creazione della nostra mente. Dio fa vivere, non vuole la morte dell’altro». Prova ne è che l’episodio di Isacco (in ebraico codesto nome significa “Dio sorrida” o “Dio sorride”), nel capitolo 22 della Genesi: il Signore mette alla prova Abramo chiedendogli di sacrificare suo figlio ma poi un angelo lo ferma. Dio non vuole la morte del giovane ma desidera che egli continui a vivere; insomma, il primo libro della Bibbia evidenzia che non ci sono giustificazioni per uccidere in nome dell’Altissimo. E Paolo nella Lettera ai Filippesi scrive quasi a conclusione dell’argomento in questione: «Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi» (4,4).
Tra l’altro, la critica occidentale alle istituzioni religiose o a talune condotte dei loro rappresentanti, da almeno tre secoli a questa parte, si è coniugata attraverso ogni mezzo di comunicazione con il liberalismo e la democrazia. Le osservazioni potevano essere o no condivise, ma si è almeno imparato che esse non si risolvono con la violenza. La Chiesa è più credibile (e ha maggior forza morale) da quando l’Inquisizione ha smesso di accendere roghi. Si potrà non condividere l’attacco che Voltaire fa al Corano nel Dizionario filosofico, ma se ne bruciassimo le copie faremmo un favore al celebre illuminista. E così va detto delle dure parole scritte da Arthur Schopenhauer ne Il mondo come volontà e rappresentazione sul medesimo argomento. L’Islam fu criticato da personaggi quali George Bernard Shaw o Rabindranath Tagore, da politici come Theodore Roosevelt o Winston Churchill o dal padre della patria turco Mustafa Kemal Atatürk (tra l’altro, depenalizzò le bevande alcoliche), da pensatori notissimi quali Bertrand Russell o Carl Gustav Jung. La miglior risposta che ad essi è possibile dare passa dalle argomentazioni, non certo ricorrendo a censure e violenza.


Germania al buio contro Pegida: “Saremo il Muro anti-razzisti”
Gli islamofobi riempiono le piazze, municipi e chiese spengono le lucidi Tonia Mastrobuoni La Stampa 7.1.15
Affatto scoraggiati che l’inno più bello della rivoluzione pacifica dell’89, «noi siamo il popolo», sia stato scippato dagli anti islamisti di Pegida, gli organizzatori della contromanifestazione di Berlino hanno reagito lunedì con uno slogan all’altezza: «Noi siamo il muro». E per due interminabili ore, seimila berlinesi - tra cui il ministro della Giustizia Heiko Maas (Spd) - sono riusciti ad impedire che i circa 450 manifestanti di «Baergida» (un acronimo che gioca con i termini «Berlino» e «Baer», l’orso simbolo della capitale, e Pegida) convenuti davanti al municipio, muovessero un solo passo.
Contromanifestazioni
Per la prima volta, gli organizzatori del movimento «contro l’islamizzazione dell’Occidente» avevano tentato di sbarcare nella capitale, ma sono stati seppelliti da una risata. Anche il Senato comunale ha deciso di dare un segnale forte: alle 19, l’orario in cui si sarebbero dovuti mettere in marcia, Berlino ha spento le luci della Porta di Brandeburgo, meta di Baergida.
L’idea di lasciare gli intolleranti al buio non è stata solo della capitale. A fare da apripista è stata una città simbolo dell’integrazione, Colonia, che ha preso una decisione clamorosa: spegnere le luci che illuminano il magnifico duomo. Il senso del gesto lo ha spiegato il decano, Norbert Feldhoff, «Pegida è composto da un sorprendente miscuglio di persone» che vanno da cittadini comuni a estremisti di destra. Spegnendo la luce «vogliamo far sì che coloro che partecipano alla marcia si fermino e pensino: considerate a fianco di chi state marciando».
Il portavoce «italonazi»
Anche nella città renana i manifestanti sono stati costretti a rinunciare al corteo causa numero schiacciante di contromanifestanti. Ma tra i protagonisti degli anti islamisti di «Koegida» c’è un italiano che sta facendo discutere. Dopo il flop dell’iniziativa, è stato addirittura nominato portavoce della costola coloniese del movimento. Sulla sua pagina Facebook c’è scritto a chiare lettere che l’italiano cresciuto in Svevia, ad Augusta, con un passato in movimenti di estrema destra come la «German Defense League», si definisce un «Italonazi».
Le contromanifestazioni sono state un successo ovunque e si sono tenute a Muenster, Monaco, Marburgo, Kassel, Rostock. A Stoccarda, dove non era neanche previsto un corteo di anti islamisti, duemila persone sono scese in piazza per esprimere solidarietà agli immigrati. Persino a Dresda, da cui Pegida ha preso tre mesi fa le mosse, il Comune ha lasciato al buio la Semperoper, dinanzi alla quale gli anti islamisti si danno appuntamento ogni lunedì. Tuttavia, il numero delle persone che protestano contro l’Islam sfilando per il centro della «Firenze sull’Elba», è nuovamente cresciuto, raggiungendo stavolta i 18.000.
Il monito della Merkel
Dopo le dure parole di condanna del discorso di fine anno della cancelliera Angela Merkel, su Pegida si sono fatti sentire molti esponenti del governo. Il ministro degli Esteri Steinmeier ha detto che il movimento getta una cattiva luce sulla Germania. Ursula von der Leyen, responsabile della Difesa, ha sostenuto che chi predica l’esclusione «non ha capito nulla del cristianesimo», mentre il suo collega delle Finanze Schaeuble ha sottolineato che «le parole non sostituiscono i fatti: la Germania ha bisogno degli immigrati». 


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