giovedì 29 gennaio 2015

Clash of Civilizations? E' la crisi dello Stato-nazione a rafforzare il ruolo politico delle religioni (tutte)

Copertina Guerra santa e santa alleanza
Manlio Graziano: Guerra santa e santa alleanza. Religioni e disordine internazionale nel XXI secolo, Il Mulino

Risvolto
Nel tormentato scenario globale contemporaneo, il rapporto religione-politica è spesso visto in una prospettiva parziale, che dà risalto solo all’islam e a certe sue correnti più fondamentaliste. In realtà, nel corso degli ultimi decenni, tutte le religioni tradizionali sono tornate ad avere un peso sulla scena politica. Su questo ritorno, sono state costruite delle teorie di politica internazionale, come quella dello «scontro tra civiltà». Analizzandone i presupposti e le finalità geopolitiche, il libro intende mostrare come la «guerra santa» non sia che una forma del ruolo politico delle religioni. Nell’attuale crisi della politica come sfera autonoma e dello Stato come fonte della sovranità, l’autore si interroga sulla possibilità che si delinei una «santa alleanza» fra le principali confessioni, volta a riportare una «morale universale» nel cuore della polis.



Manlio Graziano insegna Geopolitica e Geopolitica delle religioni alla American Graduate School di Parigi, a Paris – Sorbonne e alla Skema Business School. Ha pubblicato tra l’altro «Italia senza nazione? Geopolitica di un’identità problematica» (Donzelli, 2007) e «Il secolo cattolico. La strategia geopolitica della Chiesa» (Laterza, 2010). Collabora a «Limes – Rivista italiana di geopolitica».

Il saggio Guerra santa e santa alleanza (Il Mulino) di Manlio Graziano, della American Graduate School di Parigi
Come cambia la politica mondiale delle religionidi Armando Torno Il Sole 29.1.15

Il mondo globalizzato ha rimesso in discussione il rapporto religione-politica? Sembrerebbe di sì: lo sostiene un osservatore qualificato quale Manlio Graziano, della American Graduate School di Parigi. Lo studioso indica nuovi percorsi di indagine nella geopolitica delle religioni, disciplina non particolarmente in auge in Italia, che registrò comunque numerosi entusiasmi nell’America di George W. Bush (2001-2009). Il quale, è il caso di ricordarlo, durante i due mandati alla Casa Bianca amava autodefinirsi «il presidente più religioso della storia», sostenendo che la fede era diventata «parte centrale» della sua vita. «Ogni mattina comincio la mia giornata in ginocchio e con le mani giunte», dichiarò. I democratici sostennero che con il suo mandato fu eliminata l’illuministica e romantica linea di demarcazione tra Stato e Chiesa; molti suoi oppositori interpretarono le operazioni militari Usa, che seguirono l’attentato di New York dell’11/9, come una sorta di crociata divina contro il terrorismo.
La tesi di Manlio Graziano, ora esposta nel saggio Guerra santa e santa alleanza (tradotto in questi giorni da Il Mulino), è possibile sintetizzarla in termini semplici: le religioni tradizionali, sovente interpretate con una prospettiva parziale che ha posto in primo piano negli ultimi tempi soltanto l’Islam e le correnti fondamentaliste comunque richiamanti questa fede, nel corso degli ultimi decenni sono tornate ad avere un peso politico. Un ritorno sul quale si sono costruite diverse e variegate teorie internazionali, quali lo “scontro di civiltà”, o talune congetture per trovare ragioni a diversi conflitti in corso, molti dei quali non analizzati dai nostri media (nel mondo potrebbero essere una ventina circa, anche se sovente sono chiamati con altri nomi e per cui sentiamo un interesse marginale).
Graziano non esita a rilevare che si è sostanzialmente formata, a due secoli di quella del Congresso di Vienna, una nuova Santa Alleanza tra le principali confessioni religiose che desidera dare vita a una morale globalizzata. Né dimentica, tra le mille possibili, due risposte a chi si pone un quesito del genere di un santo come Giovanni Paolo II, il cui peso politico non necessita di spiegazioni. Nel 2000 il pontefice dichiarò: «Potremo, insieme, costruire il futuro e la storia dell’umanità». E aggiunse nel 2005: «La legge di stabilità dell’uomo, dai parlamenti, da ogni altra istanza legislativa umana, non può essere in contraddizione con la legge di natura, cioè, in definitiva, con l’eterna Legge di Dio».
Il percorso potrebbe essere, dopo i grandi progetti di emancipazione dell’Illuminismo, quello che va dalla «morte di Dio» (strillata da Nietzsche ma già presente nel primo romanticismo tedesco) al «ritorno di Dio», o meglio a una «rivincita di Dio». Il tentativo di laicizzare la politica, al di là di ogni fede, sembra un sogno del passato. E questo anche se il Novecento ha cercato di concretizzare tale intento. Nel secolo scorso, difficile dimenticarlo, si è avuta la prima costituzione che prevedeva uno Stato ateo (è il caso dell’Albania comunista) o l’insegnamento pubblico dell’ateismo. Quando crollò l’Urss, un quarto di secolo fa, le cattedre che cercavano di dimostrare l’inesistenza di Dio erano circa una novantina, collocate sia in territorio sovietico che negli Stati socialisti satelliti. Cominciarono a essere attive nel 1964, mese più mese meno, durante i giorni burocratici di Brežnev, giacché né Krusciov né l’ex seminarista Stalin resero attivo il decreto che le autorizzava.
Che aggiungere? Semplicemente che il peso politico delle religioni non significa un aumento di fede, né successo delle manifestazioni liturgiche. Sta accadendo altro. Di certo gli sforzi compiti dalle cattedre sovietiche oggi sembrano svaniti e non resta un’opera che riesca a testimoniare tutta quella fatica. Anzi, per un russo attempato, ha avuto più incidenza la distribuzione di alcuni libri di d’Holbach con la Pravda, avvenuta alla fine degli anni 60, dei congressi dei filosofi atei (il Piccolo trattato di ateismo, del ricordato barone d’Holbach, successo del quotidiano sovietico, è stato tradotto da Il Melangolo).
Marc Fumaroli scriveva nel 2003 che Il Genio del cristianesimo di Chateubriand, opera brillante ma apologetica e consigliata già nell’800 dai confessori, «è oggi guardata a distanza e con annoiata condiscendenza». Einaudi che l’ha pubblicata prima di Natale, nella magnifica cura di Mario Richter, l’ha quasi esaurita.

La santa alleanza che verrà
La religione occupa i vuoti lasciati dallo Stato E il cattolicesimo, non l’islam, guida la riscossadi Antonio Carioti Corriere La Lettura 1.2.15
Lungi dall’essere irreversibile, la secolarizzazione è sulla via del tramonto, insieme allo Stato laico figlio dell’Illuminismo. Questo giudizio, da cui parte Manlio Graziano nel saggio di geopolitica Guerra santa e santa alleanza (Il Mulino), in apparenza ricorda lo scenario su cui si dipana il romanzo Sottomissione di Michel Houellebecq. Ma lo studioso italiano, pur vivendo e insegnando a Parigi, si distacca nettamente dallo scrittore francese. Non pensa affatto che l’islam dominerà in Europa, prevede piuttosto una riscossa della Chiesa cattolica su scala mondiale.
Gli intellettuali laici, spiega Graziano alla «Lettura», hanno preso in passato un grosso abbaglio: «Negli anni Settanta erano convinti che la fede in Dio stesse scomparendo. Ancora nel 1994 il lungo saggio di Henry Kissinger Diplomacy trascurava il fattore religioso e non citava neppure Khomeini. Lo stesso errore della sinistra iraniana, che nel 1979 aveva snobbato gli ayatollah come un’anticaglia e poi ne era stata travolta. Eppure Karl Marx ha chiarito che la religione è un prodotto delle condizioni sociali: se l’uomo vive nell’incertezza, è inevitabile che si rivolga a Dio per trovare conforto».
Fornire sicurezza, continua Graziano, sarebbe appunto il compito principale dello Stato, che però ci riesce sempre meno: «La sua sovranità è erosa dalla finanza globale e dalle organizzazioni internazionali. In più la crisi fiscale lo costringe a tagliare i servizi sociali su cui basa il consenso. Opprime i cittadini comuni con le tasse e non li aiuta a risolvere i problemi. Così si è creato un vuoto che le religioni tendono a colmare, offrendo un riferimento identitario, ma anche prestazioni assistenziali. La vita sociale non si può fondare solo sulla ricerca del profitto: le fede diventa così un correttivo rispetto all’individualismo esasperato».
Lascia però perplessi l’idea che sia la Chiesa cattolica la massima beneficiaria di questo processo. Non è la rinascita islamica il fenomeno più vistoso e purtroppo anche violento? «L’afflusso nelle grandi città di masse contadine legate al culto tradizionale ha alimentato il fondamentalismo musulmano, che vari apprendisti stregoni, leader locali e potenze straniere, hanno cercato di usare per i loro scopi, per poi magari ritrovarselo nemico. Un effetto boomerang di cui sono stati vittime, per esempio, lo statista egiziano Anwar al-Sadat e il pachistano Ali Bhutto. Non bisogna però sopravvalutare i fautori della guerra santa, le cui posizioni estreme non derivano dall’islam originario, ma piuttosto dall’imitazione di movimenti rivoluzionari moderni. L’imperversare del Califfato, in Siria e in Iraq, è un effetto della rivalità geopolitica tra Iran, Arabia Saudita e Turchia. Boko Haram, in Nigeria, è un gruppo tribale, che nobilita la sua sete di potere con il richiamo all’islam. E va ricordato che il fanatismo sanguinario s’incontra anche tra seguaci di altre religioni: in ambito musulmano ha più spazio perché l’islam sunnita, largamente maggioritario, manca di autorità religiose investite del compito di delimitare il perimetro della legge divina, la sharia , e condannare i devianti».
La forza della Chiesa cattolica, sostiene Graziano, risiede invece proprio nella sua struttura centralizzata e gerarchica, che ha ricominciato a far valere con Giovanni Paolo II: «Papa Wojtyla non si è limitato a combattere il comunismo (del resto lui stesso negava di aver fatto cadere l’impero sovietico) e a ridare prestigio al Vaticano. La sua opera va ben oltre la Guerra fredda, perché ha opposto allo “scontro di civiltà”, teorizzato da Samuel Huntington, il progetto una “santa alleanza” fra tutte le grandi religioni per far arretrare il secolarismo e riportare la fede al centro della sfera pubblica, contro chi vorrebbe ridurla a un fatto privato».
Ma il suo successore Benedetto XVI, con il discorso di Ratisbona, non ha aperto un conflitto con l’islam? «Credo semmai che abbia tentato di stanare le autorità religiose musulmane per trovare interlocutori con cui dialogare, non sul piano teologico, dove le posizioni sono inconciliabili, ma proprio sulla necessità di ridare alla religione un ruolo pubblico. D’altronde il confronto è difficile anche con i cristiani ortodossi, che sono divisi e diffidenti verso la Santa sede».
Per giunta non pare che la Chiesa cattolica stia mietendo successi. Le vocazioni calano e la gente non va più a messa. «In realtà su scala globale — replica Graziano — dal 1978 al 2012 i seminaristi sono raddoppiati e anche i sacerdoti sono aumentati, sia pure non di molto, mentre i diaconi sono passati da meno di 8 mila a 41 mila. E in diversi Paesi, persino in Gran Bretagna, si registra una crescita della pratica religiosa cattolica. Non bisogna confondere l’Europa con il mondo».
Tuttavia la battaglia di Ratzinger sui «valori non negoziabili» sembra fallita, tanto che papa Francesco l’ha accantonata. «Però in India la Corte suprema, con il plauso dei cattolici, ha ripristinato nel 2013 le sanzioni penali per gli omosessuali. E la campagna ratzingeriana è comunque servita a mobilitare gruppi militanti, le “minoranze creative”, che hanno ridato visibilità e influenza alla Chiesa. In Francia i vescovi non sono riusciti a bloccare le nozze gay, ma contro la legge hanno portato in piazza folle che nessun partito o sindacato riuscirebbe a smuovere. E hanno assunto una posizione egemonica nel consiglio dei responsabili di culto, che riunisce esponenti di tutte le confessioni ed è diventato interlocutore del Parlamento. Lo stesso Bergoglio ha smorzato i toni sulla bioetica, ma ha rilanciato lo spirito missionario, che consente ai cattolici di fronteggiare la concorrenza dei gruppi evangelici in America Latina. La Chiesa di Roma ha molti problemi, ma mi sembra l’istituzione religiosa più attrezzata per approfittare delle opportunità offerte dal deperimento dello Stato».


La mondanità rimossa della religione 
Saggi. «Guerra santa e santa alleanza» di Manlio Graziano per il Mulino. Il ventilato ritorno del sacro ignora il fatto che da sempre è presente nella scena pubblica Alessandro Santagata il Manifesto 29.5.2015
L’ultimo sag­gio di Man­lio Gra­ziano (Guerra santa e santa alleanza. Reli­gioni e disor­dine inter­na­zio­nale nel XXI secolo, Il Mulino) indaga la tra­sfor­ma­zione in corso nel rap­porto tra poli­tica e reli­gioni e demo­li­sce i cavalli di bat­ta­glia delle nuove destre. Il punto di vista è quello dello stu­dioso di geo­po­li­tica delle reli­gioni. In estrema sin­tesi, la tesi del libro è che la «guerra santa» e la ricerca di una «santa alleanza», di cui la Chiesa cat­to­lica inten­de­rebbe met­tersi a capo, sono due facce del mede­simo pro­cesso di dese­co­la­riz­za­zione. Con la crisi della sovra­nità degli Stati-nazione – spiega Gra­ziano – le reli­gioni sono tor­nate a for­nire un oriz­zonte di senso e per que­sto sono sfrut­tate oggi a scopi non reli­giosi: vin­cere le ele­zioni, mobi­li­tare le masse, fare le guerre. L’inizio del ritorno risa­li­rebbe agli anni Set­tanta, quando nel Terzo Mondo una rapida indu­stria­liz­za­zione ha scon­volto equi­li­bri plu­ri­se­co­lari e il mondo avan­zato non è stato più in grado di man­te­nere le sue pro­messe di «magni­fi­che sorti progressive».
Negli Stati Uniti e in Europa la «crisi della moder­nità» ha resti­tuito alle reli­gioni la loro fun­zione di con­forto e di sup­plenza alle insuf­fi­cienze del sistema pub­blico. In alcuni paesi isla­mici lo sce­na­rio si è modi­fi­cato radi­cal­mente: alla metà del Nove­cento Bagh­dad era una città in cui digiu­nare per il Rama­dan era con­si­de­rato una stra­va­ganza; a Kabul le donne pote­vano andare all’università in mini­gonna. A pro­vo­care tale tra­sfor­ma­zione – pro­se­gue l’autore – sono stati pro­cessi di urba­niz­za­zione di massa e la dif­fu­sione delle «teo­lo­gia della pro­spe­rità» (evan­ge­li­che, isla­mi­che, con­fu­ciane, ecc). Infine, le reli­gioni sono state uti­liz­zate per ride­fi­nire le iden­tità poli­ti­che, e in que­sta pro­spet­tiva rien­trano lo «scon­tro di civiltà» nella ver­sione di Samuel Hun­ting­ton e il Jihad fon­da­men­ta­li­sta. Decli­nata la para­bola del nazio­na­li­smo arabo, l’islamizzazione del potere è sca­tu­rita dai movi­menti stu­den­te­schi che negli anni Set­tanta e Ottanta hanno infiam­mato le uni­ver­sità in l’Egitto, Afgha­ni­stan e Iran.
In «Occi­dente» è stato deci­sivo il tra­monto dell’ordine inter­na­zio­nale nato dalla Seconda guerra mon­diale. Già il rilan­cio della pre­senza cat­to­lica in poli­tica da parte di Gio­vanni Paolo II, da un lato, e il cre­scente ricorso alla reli­gione nelle com­pa­gne pre­si­den­ziali ame­ri­cane, dall’altro, ave­vano segnato un cam­bio di passo. Dopo l’11 set­tem­bre, le inat­tese dif­fi­coltà in Iraq e l’ascesa rapi­dis­sima della potenza cinese hanno san­cito l’idea del declino ame­ri­cano ali­men­tando la sin­drome da asse­dio. Agli occhi dell’Occidente l’islam ha assunto un pro­filo uni­ta­rio e intran­si­gente, fun­zio­nale alla poli­tica aggres­siva sta­tu­ni­tense e alla cam­pa­gna della destra euro­pea con­tro i pro­cessi migra­tori. Nello stesso tempo, sono sca­tu­riti nuovi assi stra­te­gici come quello iraniano-europeo, venuto meno nel 2003, e l’«Alleanza delle civiltà» pro­mossa dalla Spa­gna e dalla Tur­chia con­tro la Glo­bal War on Ter­ror.
Nel giu­sti­fi­care que­ste alleanze – argo­menta l’autore – le reli­gioni hanno svolto una fun­zione pre­ziosa, tut­ta­via solo la Chiesa cat­to­lica, unica isti­tu­zione gerar­chica glo­bale, rie­sce oggi ad avere un ruolo non pura­mente stru­men­tale. Sotto i pon­ti­fi­cati di Woj­tyla e Bene­detto XVI il cat­to­li­ce­simo si è pro­po­sto come un media­tore etico pri­ma­rio coin­vol­gendo tutte le con­fes­sioni che inten­dono con­tra­stare la «deriva antro­po­lo­gica». In que­sto qua­dro, l’attuale pon­ti­fi­cato rap­pre­sen­te­rebbe l’ultima evo­lu­zione di una Chiesa che «non si fonda più sulle ren­dite di posi­zione e diventa “Chiesa in uscita”».
Un’affermazione con­di­vi­si­bile, ma che non coglie la discontinuità.
La novità di papa Fran­ce­sco, infatti, con­si­ste nella scelta di recu­pe­rare una teo­lo­gica poli­tica che metta in primo piano il «discer­ni­mento» a disca­pito del modello «post-secolare» tar­gato Habermas-Ratzinger, un modello che pun­tava al ritorno della reli­gione come stru­mento di uni­fi­ca­zione poli­tica del con­ti­nente euro­peo e come oriz­zonte con­di­viso di valori cul­tu­rali dai quali attin­gere anche in poli­tica. Come dimo­stra anche il recente discorso del papa al Par­la­mento di Stra­sburgo, que­sta impo­sta­zione non è stata abban­do­nata del tutto, ma sicu­ra­mente è uscita modi­fi­cata in alcuni punti sostan­ziali. Il pro­getto «post-secolare» ha lasciato il posto alla «linea della testi­mo­nianza» (nel rispetto della lai­cità) e alla denun­cia sociale, pro­ba­bil­mente molto più effi­cace nel garan­tire alla Chiesa visi­bi­lità e con­senso. Tor­nando al qua­dro gene­rale, biso­gna ancora riflet­tere sul con­cetto di de-secolarizzazione, peral­tro con­te­stato da molti socio­logi sulla base di inchie­ste e sta­ti­sti­che, e doman­darci se ciò che avver­tiamo come un «ritorno» non sia piut­to­sto una ricom­po­si­zione dello sce­na­rio reli­gioso e un ripo­si­zio­na­mento (attivo e pas­sivo) della reli­gione nella gerar­chia della poli­tica. Dalla sfera pub­blica il credo non era infatti mai uscito e il suo uti­lizzo stru­men­tale è una costante facil­mente riscontrabile.

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