Nel tormentato scenario globale contemporaneo, il rapporto religione-politica è spesso visto in una prospettiva parziale, che dà risalto solo all’islam e a certe sue correnti più fondamentaliste. In realtà, nel corso degli ultimi decenni, tutte le religioni tradizionali sono tornate ad avere un peso sulla scena politica. Su questo ritorno, sono state costruite delle teorie di politica internazionale, come quella dello «scontro tra civiltà». Analizzandone i presupposti e le finalità geopolitiche, il libro intende mostrare come la «guerra santa» non sia che una forma del ruolo politico delle religioni. Nell’attuale crisi della politica come sfera autonoma e dello Stato come fonte della sovranità, l’autore si interroga sulla possibilità che si delinei una «santa alleanza» fra le principali confessioni, volta a riportare una «morale universale» nel cuore della polis.
Come cambia la politica mondiale delle religionidi Armando Torno Il Sole 29.1.15
La santa alleanza che verrà
La religione occupa i vuoti lasciati dallo Stato E il cattolicesimo, non l’islam, guida la riscossadi Antonio Carioti Corriere La Lettura 1.2.15
Lungi dall’essere irreversibile, la secolarizzazione è sulla via del tramonto, insieme allo Stato laico figlio dell’Illuminismo. Questo giudizio, da cui parte Manlio Graziano nel saggio di geopolitica Guerra santa e santa alleanza (Il Mulino), in apparenza ricorda lo scenario su cui si dipana il romanzo Sottomissione di Michel Houellebecq. Ma lo studioso italiano, pur vivendo e insegnando a Parigi, si distacca nettamente dallo scrittore francese. Non pensa affatto che l’islam dominerà in Europa, prevede piuttosto una riscossa della Chiesa cattolica su scala mondiale.
Gli intellettuali laici, spiega Graziano alla «Lettura», hanno preso in passato un grosso abbaglio: «Negli anni Settanta erano convinti che la fede in Dio stesse scomparendo. Ancora nel 1994 il lungo saggio di Henry Kissinger Diplomacy trascurava il fattore religioso e non citava neppure Khomeini. Lo stesso errore della sinistra iraniana, che nel 1979 aveva snobbato gli ayatollah come un’anticaglia e poi ne era stata travolta. Eppure Karl Marx ha chiarito che la religione è un prodotto delle condizioni sociali: se l’uomo vive nell’incertezza, è inevitabile che si rivolga a Dio per trovare conforto».
Fornire sicurezza, continua Graziano, sarebbe appunto il compito principale dello Stato, che però ci riesce sempre meno: «La sua sovranità è erosa dalla finanza globale e dalle organizzazioni internazionali. In più la crisi fiscale lo costringe a tagliare i servizi sociali su cui basa il consenso. Opprime i cittadini comuni con le tasse e non li aiuta a risolvere i problemi. Così si è creato un vuoto che le religioni tendono a colmare, offrendo un riferimento identitario, ma anche prestazioni assistenziali. La vita sociale non si può fondare solo sulla ricerca del profitto: le fede diventa così un correttivo rispetto all’individualismo esasperato».
Lascia però perplessi l’idea che sia la Chiesa cattolica la massima beneficiaria di questo processo. Non è la rinascita islamica il fenomeno più vistoso e purtroppo anche violento? «L’afflusso nelle grandi città di masse contadine legate al culto tradizionale ha alimentato il fondamentalismo musulmano, che vari apprendisti stregoni, leader locali e potenze straniere, hanno cercato di usare per i loro scopi, per poi magari ritrovarselo nemico. Un effetto boomerang di cui sono stati vittime, per esempio, lo statista egiziano Anwar al-Sadat e il pachistano Ali Bhutto. Non bisogna però sopravvalutare i fautori della guerra santa, le cui posizioni estreme non derivano dall’islam originario, ma piuttosto dall’imitazione di movimenti rivoluzionari moderni. L’imperversare del Califfato, in Siria e in Iraq, è un effetto della rivalità geopolitica tra Iran, Arabia Saudita e Turchia. Boko Haram, in Nigeria, è un gruppo tribale, che nobilita la sua sete di potere con il richiamo all’islam. E va ricordato che il fanatismo sanguinario s’incontra anche tra seguaci di altre religioni: in ambito musulmano ha più spazio perché l’islam sunnita, largamente maggioritario, manca di autorità religiose investite del compito di delimitare il perimetro della legge divina, la sharia , e condannare i devianti».
La forza della Chiesa cattolica, sostiene Graziano, risiede invece proprio nella sua struttura centralizzata e gerarchica, che ha ricominciato a far valere con Giovanni Paolo II: «Papa Wojtyla non si è limitato a combattere il comunismo (del resto lui stesso negava di aver fatto cadere l’impero sovietico) e a ridare prestigio al Vaticano. La sua opera va ben oltre la Guerra fredda, perché ha opposto allo “scontro di civiltà”, teorizzato da Samuel Huntington, il progetto una “santa alleanza” fra tutte le grandi religioni per far arretrare il secolarismo e riportare la fede al centro della sfera pubblica, contro chi vorrebbe ridurla a un fatto privato».
Ma il suo successore Benedetto XVI, con il discorso di Ratisbona, non ha aperto un conflitto con l’islam? «Credo semmai che abbia tentato di stanare le autorità religiose musulmane per trovare interlocutori con cui dialogare, non sul piano teologico, dove le posizioni sono inconciliabili, ma proprio sulla necessità di ridare alla religione un ruolo pubblico. D’altronde il confronto è difficile anche con i cristiani ortodossi, che sono divisi e diffidenti verso la Santa sede».
Per giunta non pare che la Chiesa cattolica stia mietendo successi. Le vocazioni calano e la gente non va più a messa. «In realtà su scala globale — replica Graziano — dal 1978 al 2012 i seminaristi sono raddoppiati e anche i sacerdoti sono aumentati, sia pure non di molto, mentre i diaconi sono passati da meno di 8 mila a 41 mila. E in diversi Paesi, persino in Gran Bretagna, si registra una crescita della pratica religiosa cattolica. Non bisogna confondere l’Europa con il mondo».
Tuttavia la battaglia di Ratzinger sui «valori non negoziabili» sembra fallita, tanto che papa Francesco l’ha accantonata. «Però in India la Corte suprema, con il plauso dei cattolici, ha ripristinato nel 2013 le sanzioni penali per gli omosessuali. E la campagna ratzingeriana è comunque servita a mobilitare gruppi militanti, le “minoranze creative”, che hanno ridato visibilità e influenza alla Chiesa. In Francia i vescovi non sono riusciti a bloccare le nozze gay, ma contro la legge hanno portato in piazza folle che nessun partito o sindacato riuscirebbe a smuovere. E hanno assunto una posizione egemonica nel consiglio dei responsabili di culto, che riunisce esponenti di tutte le confessioni ed è diventato interlocutore del Parlamento. Lo stesso Bergoglio ha smorzato i toni sulla bioetica, ma ha rilanciato lo spirito missionario, che consente ai cattolici di fronteggiare la concorrenza dei gruppi evangelici in America Latina. La Chiesa di Roma ha molti problemi, ma mi sembra l’istituzione religiosa più attrezzata per approfittare delle opportunità offerte dal deperimento dello Stato».
La mondanità rimossa della religione
Saggi. «Guerra santa e santa alleanza» di Manlio Graziano per il Mulino. Il ventilato ritorno del sacro ignora il fatto che da sempre è presente nella scena pubblica Alessandro Santagata il Manifesto 29.5.2015
L’ultimo saggio di Manlio Graziano (Guerra santa e santa alleanza. Religioni e disordine internazionale nel XXI secolo, Il Mulino) indaga la trasformazione in corso nel rapporto tra politica e religioni e demolisce i cavalli di battaglia delle nuove destre. Il punto di vista è quello dello studioso di geopolitica delle religioni. In estrema sintesi, la tesi del libro è che la «guerra santa» e la ricerca di una «santa alleanza», di cui la Chiesa cattolica intenderebbe mettersi a capo, sono due facce del medesimo processo di desecolarizzazione. Con la crisi della sovranità degli Stati-nazione – spiega Graziano – le religioni sono tornate a fornire un orizzonte di senso e per questo sono sfruttate oggi a scopi non religiosi: vincere le elezioni, mobilitare le masse, fare le guerre. L’inizio del ritorno risalirebbe agli anni Settanta, quando nel Terzo Mondo una rapida industrializzazione ha sconvolto equilibri plurisecolari e il mondo avanzato non è stato più in grado di mantenere le sue promesse di «magnifiche sorti progressive».
Negli Stati Uniti e in Europa la «crisi della modernità» ha restituito alle religioni la loro funzione di conforto e di supplenza alle insufficienze del sistema pubblico. In alcuni paesi islamici lo scenario si è modificato radicalmente: alla metà del Novecento Baghdad era una città in cui digiunare per il Ramadan era considerato una stravaganza; a Kabul le donne potevano andare all’università in minigonna. A provocare tale trasformazione – prosegue l’autore – sono stati processi di urbanizzazione di massa e la diffusione delle «teologia della prosperità» (evangeliche, islamiche, confuciane, ecc). Infine, le religioni sono state utilizzate per ridefinire le identità politiche, e in questa prospettiva rientrano lo «scontro di civiltà» nella versione di Samuel Huntington e il Jihad fondamentalista. Declinata la parabola del nazionalismo arabo, l’islamizzazione del potere è scaturita dai movimenti studenteschi che negli anni Settanta e Ottanta hanno infiammato le università in l’Egitto, Afghanistan e Iran.
In «Occidente» è stato decisivo il tramonto dell’ordine internazionale nato dalla Seconda guerra mondiale. Già il rilancio della presenza cattolica in politica da parte di Giovanni Paolo II, da un lato, e il crescente ricorso alla religione nelle compagne presidenziali americane, dall’altro, avevano segnato un cambio di passo. Dopo l’11 settembre, le inattese difficoltà in Iraq e l’ascesa rapidissima della potenza cinese hanno sancito l’idea del declino americano alimentando la sindrome da assedio. Agli occhi dell’Occidente l’islam ha assunto un profilo unitario e intransigente, funzionale alla politica aggressiva statunitense e alla campagna della destra europea contro i processi migratori. Nello stesso tempo, sono scaturiti nuovi assi strategici come quello iraniano-europeo, venuto meno nel 2003, e l’«Alleanza delle civiltà» promossa dalla Spagna e dalla Turchia contro la Global War on Terror.
Nel giustificare queste alleanze – argomenta l’autore – le religioni hanno svolto una funzione preziosa, tuttavia solo la Chiesa cattolica, unica istituzione gerarchica globale, riesce oggi ad avere un ruolo non puramente strumentale. Sotto i pontificati di Wojtyla e Benedetto XVI il cattolicesimo si è proposto come un mediatore etico primario coinvolgendo tutte le confessioni che intendono contrastare la «deriva antropologica». In questo quadro, l’attuale pontificato rappresenterebbe l’ultima evoluzione di una Chiesa che «non si fonda più sulle rendite di posizione e diventa “Chiesa in uscita”».
Un’affermazione condivisibile, ma che non coglie la discontinuità.
La novità di papa Francesco, infatti, consiste nella scelta di recuperare una teologica politica che metta in primo piano il «discernimento» a discapito del modello «post-secolare» targato Habermas-Ratzinger, un modello che puntava al ritorno della religione come strumento di unificazione politica del continente europeo e come orizzonte condiviso di valori culturali dai quali attingere anche in politica. Come dimostra anche il recente discorso del papa al Parlamento di Strasburgo, questa impostazione non è stata abbandonata del tutto, ma sicuramente è uscita modificata in alcuni punti sostanziali. Il progetto «post-secolare» ha lasciato il posto alla «linea della testimonianza» (nel rispetto della laicità) e alla denuncia sociale, probabilmente molto più efficace nel garantire alla Chiesa visibilità e consenso. Tornando al quadro generale, bisogna ancora riflettere sul concetto di de-secolarizzazione, peraltro contestato da molti sociologi sulla base di inchieste e statistiche, e domandarci se ciò che avvertiamo come un «ritorno» non sia piuttosto una ricomposizione dello scenario religioso e un riposizionamento (attivo e passivo) della religione nella gerarchia della politica. Dalla sfera pubblica il credo non era infatti mai uscito e il suo utilizzo strumentale è una costante facilmente riscontrabile.
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