giovedì 29 gennaio 2015

Il conflitto geostrategico tra Stati Uniti e Cina nel XXI secolo. E tanta Guerra Fredda culturale


In queste analisi c'è di solito un errore di fondo, che la recensione non evita: si dimentica che c'è una potenza Have che vuole continuare ad avere la supremazia e c'è una potenza Have-not che invece parla di ordine multipolare. C'è una aggressione continua e c'è chi si difende e difendendo se stesso difende una diversa concezione delle relazioni internazionali [SGA].

Noah Feld­man: Cool war. Stati uniti e Cina: il futuro della com­pe­ti­zione glo­bale, Il Sag­gia­tore, euro 18

Risvolto

Nel 1989, dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, la Guerra fredda si concluse con la vittoria dell’Occidente. Oggi una nuova epoca di bipolarismo mondiale è alle porte: l’era della Cool war, la «guerra fresca» che opporrà Stati Uniti e Cina. La corsa agli alleati e alle risorse è già ben visibile in Asia orientale, ma presto si estenderà in Medio Oriente, in Africa e oltre ancora. Eppure, questa Cool war è una guerra diversa da tutte le altre. Al contrario della Guerra fredda, non è un confl itto «a somma zero», in cui la vittoria di una parte corrisponde necessariamente alla sconfi tta dell’altra. La superpotenza statunitense e la sua grande rivale del XXI secolo mostrano un livello di interdipendenza economica senza precedenti. Un quarto delle esportazioni cinesi è diretto negli Stati Uniti, e l’8 per cento del macroscopico debito americano è detenuto dal governo di Pechino. Per cogliere i cambiamenti in atto e i possibili sviluppi, è necessario osservare lo scenario internazionale senza rigidità ideologiche, soffermandosi in particolare sul modello politico-economico della Cina contemporanea. Il quadro tracciato da Noah Feldman – che unisce dati, episodi di cronaca, politica comparata e teoria delle Relazioni internazionali – porta a conclusioni sorprendenti. Certo la Cina è lontana dal diventare una democrazia, ma il folgorante sviluppo economico degli ultimi anni conferisce al governo del Partito comunista un’elevata legittimità popolare. Le élite al potere non sono né impermeabili né immobili: alle carriere dei «principini» ereditari si affi ancano quelle dei «meritocrati». Il proverbiale pragmatismo delle classi dirigenti è tale da temperare la corruzione e consentire una governance nel complesso responsabile. La libertà di parola è fortemente limitata, ma l’opinione pubblica ha modo di protestare e denunciare gli scandali più di quanto non si creda. La Cool war avrà implicazioni profonde non solo per i due protagonisti, ma per il mondo intero: per gli stati e i loro sistemi di governo, per le istituzioni internazionali e i diritti umani, per le multinazionali e l’economia globale. Solo intrecciando cooperazione e competizione, la Cina, gli Stati Uniti e tutti gli attori di minor rilievo potranno scongiurare i rischi di caos e instabilità, o persino di una catastrofi ca «guerra calda».

Noah Feldman
insegna Diritto internazionale alla Harvard Law School. È membro del Council on Foreign Relations e scrive sul New York Times Magazine e su Bloomberg View. Tra i suoi libri, What We Owe Iraq (2004), Divided By God: America’s Church-State Problem (2005), The Fall and Rise of the Islamic State (2008), Scorpions: The Battles and Triumphs of fdr’s Great Supreme Court Justices (2010).



Le mappe cinesi di un potere imperiale 
Vicino Oriente. Le strategie del Pcc per riscattare il «secolo dell’umiliazione» e affermare il «made in China» su scala globale. Un percorso di lettura sulle aspirazioni egemoniche di Pechino

Simone Pieranni, 29.1.2015 

Può una nazione entrata nell’era «dell’ambizione» – una tra le tante epo­che della sua mil­le­na­ria sto­ria — svi­lup­parsi in modo paci­fico, senza entrare in con­tra­sto con altri paesi nella sua area di influenza e più in gene­rale nel mondo intero? Sono le domande che si pon­gono, in maniera diversa, due libri sulla Cina, usciti recen­te­mente. Il primo è ad opera di uno dei più impor­tanti – e bril­lanti — cor­ri­spon­denti stra­nieri in Cina, Evan Osnos, del New Yorker. 
Osnos ha scritto sul gigante cinese da Pechino, dal 2005 al 2014, con uno stile incon­fon­di­bile, fatto di pre­ci­sione, grande cono­scenza del paese e pos­si­bi­lità di dipa­nare rac­conti suf­fi­cien­te­mente lun­ghi, in ter­mini di parole, per spie­gare feno­meni com­plessi. Il suo libro, The age of ambi­tion, cha­sing for­tune, truth and faith in the new China (Far­rar, Strauss and Giroux, ebook 12 euro), scruta all’interno della società cinese cer­cando di capire quale nuova iden­tità si stia svi­lup­pando nel Regno di Mezzo. Osnos sem­bra alla ricerca dell’origine del muta­mento, quasi antro­po­lo­gico, dei cinesi. E sem­bra natu­rale che la pro­ie­zione di que­sti cam­bia­menti — che secondo il gior­na­li­sta hanno por­tato l’uomo e la donna cinese a svi­lup­pare una straor­di­na­ria forma di indi­vi­dua­li­smo — si river­be­rino sulla scena inter­na­zio­nale, diven­tando pro­po­sta poli­tica e spunto diplo­ma­tico. Di altro tenore, infatti, più geo­po­li­tico e stra­te­gico, è Cool war – Stati uniti e Cina. Il futuro della com­pe­ti­zione glo­bale di Noah Feld­man (Il Sag­gia­tore, euro 18). Quello di Feld­man, pro­fes­sore di diritto inter­na­zio­nale alla Har­ward Law School, è un volume nel quale invece l’autore svi­luppa una rifles­sione sul pos­si­bile con­flitto tra Cina e Usa, alla luce della loro riva­lità, con­trad­di­stinta da una coo­pe­ra­zione di natura economica. 


La rela­zione con l’«altro» 

Osnos ha grande dime­sti­chezza con la sto­ria cinese, per­ché ha stu­diato in Cina, ha incon­trato i migliori intel­let­tuali e arti­sti, o i per­so­naggi che più di altri hanno con­trad­di­stinto il «mira­colo cinese». Una delle novità prin­ci­pali che Osnos riscon­tra tra la Cina «pre-apertura» e quella suc­ces­siva, riguarda il lin­guag­gio. Si tratta di un fat­tore non da poco, anche per quanto riguarda la diplo­ma­zia e la pre­sunta aggres­si­vità cinese a livello inter­na­zio­nale. Come spe­ci­fica il gior­na­li­sta del New Yor­ker, men­tre un tempo – durante l’era maoi­sta — i cinesi si espri­me­vano per lo più attra­verso il «noi», «la nostra unità di lavoro», la «nostra fami­glia», ormai siamo di fronte alla «generazione-io», quella che i cinesi chia­mano wo yi dai (me gene­ra­tion, in inglese). 
Un indi­vi­dua­li­smo, senza gene­ra­liz­zare, che ha col­pito molti degli abi­tanti della Cina, tanto da pro­se­guire poi attra­verso altri e nuovi cam­bia­menti lin­gui­stici e di senso. Ad esem­pio, una delle espres­sioni più ricor­renti nei dia­lo­ghi tra i cinesi – par­liamo pre­va­len­te­mente di middle class – è che­fang jibei, che signi­fica «munito di casa e auto». Ovvero le carat­te­ri­sti­che prin­ci­pali per tro­vare moglie o marito, oggi in Cina. Come ricorda Osnos, tra i cinesi divenne cele­bre la frase di una ragazza in un noto pro­gramma di intrat­te­ni­mento della tv nazio­nale: «Pre­fe­ri­sco pian­gere den­tro una Bmw, che ridere in bicicletta». 
Casa e auto sono diven­tati, nel tempo, due beni neces­sari per farsi largo in Cina, due ter­mini e «pro­prietà» che hanno con­trad­di­stinto il cam­bia­mento nella vita quo­ti­diana dei cinesi. Sin­tomo di stra­vol­gi­menti epo­cali, che hanno por­tato i cinesi a pri­vi­le­giare nuovi con­cetti, a sca­pito di altri. La que­stione inte­res­sante che pone que­sta muta­zione è la seguente: a livello inter­na­zio­nale, come per­ce­zione col­let­tiva, il sog­getto rimane invece ancora il «noi», tanto più dall’arrivo al potere di Xi Jin­ping che ha svi­lup­pato il con­cetto di «sogno cinese», che dovrebbe acco­mu­nare tutti gli abi­tanti del paese, in un «rina­sci­mento nazio­nale».
La cre­scita espo­nen­ziale dell’economia cinese negli ultimi vent’anni — sep­pure ora appaia in fase di ral­len­ta­mento, con un Pil al 7,4 che rap­pre­senta il punto più basso dell’economia dal 1990 — è stata capace di rin­sal­dare il nazio­na­li­smo, unico ele­mento che al momento sem­bra unire la popo­la­zione cinese. Un nazio­na­li­smo che si tinge di spi­rito di rivalsa e che per que­sto pre­oc­cupa Noah Feld­man la cui ana­lisi, se è vero che tiene conto degli ambiti di con­tra­sto, poten­ziale e non solo, tra Usa e Cina, sem­bra vedere soprat­tutto in Pechino, il sog­getto che può improv­vi­sa­mente imbizzarrirsi. 

I libe­ri­sti del partito 
Per­ché? Il ragio­na­mento che sot­tende Feld­man è tipico di una visione occi­den­tale delle que­stioni orien­tali: la Cina non avrebbe ancora com­piuto quel per­corso ovvio che vede andare di pari passo la cre­scita eco­no­mica con la neces­sità di tra­sfor­mare l’ordinamento poli­tico in una demo­cra­zia. Si tratta di un’idea bal­zana, agli occhi dei cinesi, eppure secondo molti autori, sarebbe pro­prio l’autoritarismo del Pcc a costi­tuire un rischio inter­na­zio­nale. Si sa, nel nostro imma­gi­na­rio i dit­ta­tori sono dei poten­ziali san­gui­nari. Ma in Cina c’è una forma auto­ri­ta­ria di gestione del potere, senza un dit­ta­tore. E non solo: in Cina sono ormai con­vinti che non sia asso­lu­ta­mente auto­ma­tico l’assioma pro­po­sto dagli occi­den­tali, anzi; è con­vin­zione orami dif­fusa che lo strambo modello politico-economico del Pcc fun­zioni pro­prio per­ché poli­ti­ca­mente non è demo­cra­tico. E come tale resterà in futuro. 
A que­sto pro­po­sito, Osnos sce­glie come sto­ria prin­ci­pale del suo libro quella di un per­so­nag­gio dav­vero par­ti­co­lare. Justin Yifu Lin, meglio cono­sciuto in Cina come Zhen­gyi Lin. Il gio­vane Justin, nasce a Tai­wan e dopo la rivo­lu­zione maoi­sta, è uno degli uffi­ciali più impor­tanti dell’esercito dell’isola. Un giorno decide di diser­tare: a nuoto rie­sce ad arri­vare in Cina, impresa tutt’altro che sem­plice. Lì viene inter­ro­gato per mesi, fino a con­vin­cere i diri­genti del Par­tito comu­ni­sta di non essere una spia. Comin­cia la sua nuova vita cinese, che lo por­terà a pri­meg­giare nello stu­dio e a otte­nere una borsa di stu­dio presso l’università ame­ri­cana di Chi­cago. Nel 1986 Justin va a scuola dai Chi­cago boys, torna in Cina e spiega ai fun­zio­nari il libe­ri­smo. Non avrà mai inca­ri­chi di governo o di par­tito uffi­ciali, ma diven­terà una sorta di «capo» dei piani eco­no­mici cinesi nell’epoca «dell’apertura». Fino a diven­tare vice pre­si­dente della Banca Mon­diale. Zhen­gyi Lin, che Osnos incon­tra diverse volte, è uno degli eco­no­mi­sti più impor­tanti al mondo ed è con­vinto che la chiave di suc­cesso della Cina sia pro­prio la sua natura auto­ri­ta­ria, che risulta come un dato di fatto, di cui tutti dovrebbe pren­dere atto: la Cina non cam­bierà mai il pro­prio assetto poli­tico, spe­ci­fica Zhengyi. 

Amici e nemici 
Noah Feld­man – nel suo Cool War – allarga il qua­dro. La natura auto­ri­ta­ria di Pechino porta il Paese ad allearsi ten­den­zial­mente con altri Stati auto­ri­tari, creando il rischio con­creto che la Cina possa diven­tare un ele­mento di insta­bi­lità e possa arri­vare ad un con­flitto con gli Stati uniti. In que­sto ragio­na­mento sem­brano anni­darsi una dimen­ti­canza e un’inesattezza. La dimen­ti­canza è che Feld­man non ricorda la ten­denza dei demo­cra­tici Stati uniti ad allearsi con chiun­que, anche i peg­giori dit­ta­tori, quando si tratta di per­se­guire i pro­pri inte­ressi. L’inesattezza sem­bra essere quella di pen­sare che la Cina si muova all’estero alla ricerca di pro­pri simili, a livello ideo­lo­gico, quando invece la bus­sola dei diri­genti cinesi è laica come quella di molti altri paesi. I cinesi per­se­guono i pro­pri inte­ressi, come dimo­strano alleanze, eco­no­mi­che, anche con paesi con­si­de­rati da tutti demo­cra­tici. Feld­man in que­sto ha la posi­zione scon­tata dell’Occidente: «La lea­der­ship del Par­tito – scrive – vorrà man­te­nere intatta la pro­pria posi­zione e con­so­li­dare la pro­pria legit­ti­mità senza sot­to­porsi a con­sul­ta­zioni demo­cra­ti­che. Qua­lun­que ini­zia­tiva poli­tica dovrà pre­stare molta atten­zione alle moti­va­zioni di que­sti lea­der. Gli Stati uniti e i loro alleati occi­den­tali dovranno tenere pre­senti gli inte­ressi del Par­tito, senza scen­dere a com­pro­messi sui diritti umani».  
Più inte­res­santi le con­si­de­ra­zione di Feld­man nell’ultima parte del libro, quando ana­lizza la pos­si­bi­lità che lo scon­tro avvenga «per pro­cura». Si tratta di una con­si­de­ra­zione attuale, per­ché è qual­cosa che sta già avve­nendo, basti pen­sare alla Siria. Ma il mondo mul­ti­po­lare ha una sua gerar­chia e chi tiene i fili di alcuni pro­cessi ormai orga­nizza e gesti­sce «solo» guerre per pro­cura (Siria, Libia, i più recenti Yemen e in Europa l’Ucraina). Sarà neces­sa­rio vedere se que­ste «guerre per pro­cura» fini­ranno per scop­piare anche nell’area dove asso­mi­glie­reb­bero più a un con­fronto diretto, ovvero nel Paci­fico.
Secondo Feld­man l’ipotesi più cre­di­bile è quella di una poten­ziale guerra coreana, ma il pro­fes­sore di Har­vard si dimo­stra un otti­mi­sta, quando ricorda che in ogni caso Usa e Cina hanno più inte­ressi comuni, eco­no­mi­ca­mente, che diver­genze. E que­sto fat­tore dovrebbe garan­tire una pace, per quanto colma di ten­sione. Osnos non si pone così diret­ta­mente il pro­blema, ma indaga le sen­sa­zioni cinesi nei con­fronti dell’Occidente, recu­pe­rando una frase di Lu Xun (uno degli scrit­tori e intel­let­tuali più noti nella sto­ria cinese): «I cinesi non hanno mai con­si­de­rato gli stra­nieri come degli esseri umani. Li abbiamo sem­pre con­si­de­rati o come una spe­cie di divi­nità da ado­rare, o come degli ani­mali selvaggi». 

Tra invi­dia e risentimento 
Il mix dei sen­ti­menti cinesi nei con­fronti degli occi­den­tali, secondo lo scrit­tore ame­ri­cano, si con­suma tra invi­dia e risen­ti­mento. Invi­dia per­ché l’Occidente viene visto come una sorta di para­diso cul­tu­rale, arti­stico e intel­let­tuale; risen­ti­mento per quanto fatto dalle potenze occi­den­tali alla Cina durante «il secolo dell’umiliazione». Non a caso quando la dina­stia Qing nel 1877 mandò un gio­vane pro­fes­sore, Yan Fu, in Inghil­terra a stu­diare la potenza navale bri­tan­nica, il docente tornò spie­gando agli impe­ra­tori che la forza marit­tima inglese non era giu­sti­fi­cata dalla ric­chezza della Corona bri­tan­nica, bensì «dalle idee della società inglese». Per giu­sti­fi­care que­sta sen­sa­zione, aveva por­tato con sé i libri di Her­bert Spen­cer, Adam Smith, John Stuart Mill e Char­les Dar­win. Un po’ come oggi i cinesi che hanno stu­diato all’estero tor­nano in Cin con know how e cono­scenze occi­den­tali. Fino a quando i cinesi sen­ti­ranno ancora di dover impa­rare, per la pace nel mondo non dovreb­bero esserci pro­blemi, sem­bra con­clu­dere Osnos.


Nelle viscere della capitale A Pechino c’è un’altra città. Sottoterra
di Guido Santevecchi Corriere 29.1.15
PECHINO Ci sono circa seimila rifugi antiaerei a Pechino, scavati sotto i palazzi a partire dal 1949, l’anno della fondazione della Repubblica popolare, quando la Cina era isolata e temeva un attacco dagli «imperialisti». Ora la Cina è la seconda economia del mondo, ha quasi tre milioni di milionari (in euro) e quasi 300 miliardari nell’elenco di Fortune . Ma i rifugi ci sono ancora e sono diventati il «mondo di sotto» di Pechino, dove centinaia di migliaia di giovani e lavoratori migranti vivono e inseguono i loro sogni con un’incredibile forza d’animo. Sono quelli che mandano avanti l’industria dei servizi nella capitale della fabbrica del mondo, ma non hanno abbastanza soldi per pagare l’affitto di un appartamento decente. La loro casa è una stanza senza finestre, dieci metri quadrati, nei sotterranei dei grandi palazzi. Qualche sociologo li ha chiamati «le Formiche», ma per la gente sono «la Tribù dei Topi».
Il posto, uno dei seimila, è a venti minuti dal cuore commerciale della capitale. Si chiama Ding Fu Zhuang: «Villaggio della Felicità Eterna». Un palazzone rettangolare di 11 piani come tanti qui, grigio, davanti un giardinetto bruciato dal gelo. Sul retro, una targa con la scritta «Rifugio antiaereo», anche in inglese. Basta scostare le coperte messe per proteggere l’ingresso dal vento freddo, scendere quattro rampe di scale. Sono 34 gradini che portano a una serie di corridoi: ecco il mondo di sotto, la casa della Tribù dei Topi. Quelli che per risparmiare sugli affitti impossibili e indecenti hanno deciso di vivere sottoterra, al buio, senza riscaldamento, sono un milione secondo uno studio indipendente; «solo 281 mila» se si crede all’ultimo censimento delle autorità che risale al 2014. I Topi non sono brutti, sporchi e cattivi: nella maggioranza sono ragazzi diplomati venuti dalla provincia per fare fortuna. Hanno lavori normali, dalla parrucchiera al contabile, all’impiegato hi-tech, anche giovanissimi insegnanti. Per tutti il salario d’ingresso è molto basso e non possono permettersi di pagare un affitto normale: ci dicono che in questo brutto palazzo un monolocale costa 3.500 yuan al mese (500 euro). Un giovane diplomato guadagna 4.000 yuan: è fuori mercato. Per questo la Tribù dei Topi è nelle viscere di Pechino, nei rifugi, anche nelle cantine.
C’è qualche rischio a scendere quei 34 gradini con una macchina fotografica e un taccuino in mano, perché a chi riscuote gli affitti non piace la pubblicità. I corridoi sono bui e freddi, però puliti. A metà percorso si passa una porta in acciaio con un maniglione a ruota: siamo nel cuore del vecchio rifugio antiaereo. In fondo si vede una luce: viene da un gabbiotto, dentro c’è un tizio che mangia e guarda la tv. È il signor Wang, il manager di questo posto, espressione sospettosa. Recito la storiella che mi è stata suggerita: «Ho vissuto a Pechino per anni, ora debbo partire per un po’ e ho bisogno di uno spazio per lasciare sei o sette valigie e una mezza dozzina di scatoloni, si può fare?». Wang prende una chiave e fa qualche passo verso la porta con la scritta 002. Apre: «Ecco qui, l’hanno lasciata libera da poco». Ci sono due brande e un tavolo, niente finestre, soffitto neanche troppo basso. Saranno dieci metri quadrati. Quanto costa? «Fa 450 yuan al mese, pagamento ogni mese, niente anticipo». 450 yuan sono circa 60 euro. Ma ci si può fidare a lasciare qui le cose? «Certo, io sto sempre lì nella portineria a controllare chi passa, qui ci vive solo gente tranquilla, colletti bianchi o persone che fanno piccoli affari», dice Wang. E quanta gente? «I corridoi sono lunghi, ci sono tante stanze, una novantina di famiglie, cento persone direi». Affare fatto, ci vediamo domani con i soldi. «Fate presto, ho sempre richieste nuove».
Il manager-custode torna a mangiare e ci lascia il modo di dare un’occhiata approfondita in giro. Un grande manifesto avverte sui divieti: niente coperte elettriche, bollitori per l’acqua, pentole a pressione. Le porte sono tutte numerate; i bagni comuni sono stati puliti questa mattina ma serve lo stomaco forte per avventurarsi. Qua e là scarpiere e pile di padelle. È mezzogiorno, gli abitanti dell’albergo dei topi sono tutti fuori al lavoro, ma da una porta socchiusa spunta il volto di una ragazza. Sta mangiando zuppa di riso fredda. Sorride e ci fa entrare. Dentro, un computer acceso, un materasso a una piazza e mezza, una sedia, una pila di scatole, qualche pentola, foto di riviste di moda attaccate alla parete e un orsacchiotto di pezza chiuso nel cellophane. «Mi chiamo Liu, ho 24 anni, sono venuta con mio marito dallo Henan sette mesi fa. Facciamo i programmatori di pc, non si guadagna male, 4 mila yuan al mese a testa (1.200 euro in due). Ma ora sono incinta, per questo sto a casa» (l’orsetto è per il bimbo). La casa di Liu, in questo sotterraneo, costa 700 yuan al mese «perché oltre allo spazio mi danno la luce e il collegamento Internet». Il riscaldamento non c’è, io ho il cappotto e la sciarpa e mi sento gelare. Zhou dice che ci si abitua presto.
Chi abita qui? «Alcuni sono buoni amici, ci sono insegnanti, contabili, tecnici di postproduzione cinematografica, musicisti, ragazzi simpatici che risparmiano e cercano sempre di migliorare». Liu sorride: «Non siamo diversi dagli altri, vestiamo come loro, pensiamo come loro e tra qualche anno, quando avremo risparmiato abbastanza, vivremo di sopra, alla luce del sole, anche noi». Pechino ha 21,5 milioni di abitanti, di questi, circa 8 milioni sono lavoratori migranti venuti dalle province, 368 mila solo l’anno scorso. Molti non avranno mai una casa con le finestre.

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