Casa e auto sono diventati, nel tempo, due beni necessari per farsi largo in Cina, due termini e «proprietà» che hanno contraddistinto il cambiamento nella vita quotidiana dei cinesi. Sintomo di stravolgimenti epocali, che hanno portato i cinesi a privilegiare nuovi concetti, a scapito di altri. La questione interessante che pone questa mutazione è la seguente: a livello internazionale, come percezione collettiva, il soggetto rimane invece ancora il «noi», tanto più dall’arrivo al potere di Xi Jinping che ha sviluppato il concetto di «sogno cinese», che dovrebbe accomunare tutti gli abitanti del paese, in un «rinascimento nazionale».
La crescita esponenziale dell’economia cinese negli ultimi vent’anni — seppure ora appaia in fase di rallentamento, con un Pil al 7,4 che rappresenta il punto più basso dell’economia dal 1990 — è stata capace di rinsaldare il nazionalismo, unico elemento che al momento sembra unire la popolazione cinese. Un nazionalismo che si tinge di spirito di rivalsa e che per questo preoccupa Noah Feldman la cui analisi, se è vero che tiene conto degli ambiti di contrasto, potenziale e non solo, tra Usa e Cina, sembra vedere soprattutto in Pechino, il soggetto che può improvvisamente imbizzarrirsi.
I liberisti del partito
Perché? Il ragionamento che sottende Feldman è tipico di una visione occidentale delle questioni orientali: la Cina non avrebbe ancora compiuto quel percorso ovvio che vede andare di pari passo la crescita economica con la necessità di trasformare l’ordinamento politico in una democrazia. Si tratta di un’idea balzana, agli occhi dei cinesi, eppure secondo molti autori, sarebbe proprio l’autoritarismo del Pcc a costituire un rischio internazionale. Si sa, nel nostro immaginario i dittatori sono dei potenziali sanguinari. Ma in Cina c’è una forma autoritaria di gestione del potere, senza un dittatore. E non solo: in Cina sono ormai convinti che non sia assolutamente automatico l’assioma proposto dagli occidentali, anzi; è convinzione orami diffusa che lo strambo modello politico-economico del Pcc funzioni proprio perché politicamente non è democratico. E come tale resterà in futuro.
A questo proposito, Osnos sceglie come storia principale del suo libro quella di un personaggio davvero particolare. Justin Yifu Lin, meglio conosciuto in Cina come Zhengyi Lin. Il giovane Justin, nasce a Taiwan e dopo la rivoluzione maoista, è uno degli ufficiali più importanti dell’esercito dell’isola. Un giorno decide di disertare: a nuoto riesce ad arrivare in Cina, impresa tutt’altro che semplice. Lì viene interrogato per mesi, fino a convincere i dirigenti del Partito comunista di non essere una spia. Comincia la sua nuova vita cinese, che lo porterà a primeggiare nello studio e a ottenere una borsa di studio presso l’università americana di Chicago. Nel 1986 Justin va a scuola dai Chicago boys, torna in Cina e spiega ai funzionari il liberismo. Non avrà mai incarichi di governo o di partito ufficiali, ma diventerà una sorta di «capo» dei piani economici cinesi nell’epoca «dell’apertura». Fino a diventare vice presidente della Banca Mondiale. Zhengyi Lin, che Osnos incontra diverse volte, è uno degli economisti più importanti al mondo ed è convinto che la chiave di successo della Cina sia proprio la sua natura autoritaria, che risulta come un dato di fatto, di cui tutti dovrebbe prendere atto: la Cina non cambierà mai il proprio assetto politico, specifica Zhengyi.
Amici e nemici
Noah Feldman – nel suo Cool War – allarga il quadro. La natura autoritaria di Pechino porta il Paese ad allearsi tendenzialmente con altri Stati autoritari, creando il rischio concreto che la Cina possa diventare un elemento di instabilità e possa arrivare ad un conflitto con gli Stati uniti. In questo ragionamento sembrano annidarsi una dimenticanza e un’inesattezza. La dimenticanza è che Feldman non ricorda la tendenza dei democratici Stati uniti ad allearsi con chiunque, anche i peggiori dittatori, quando si tratta di perseguire i propri interessi. L’inesattezza sembra essere quella di pensare che la Cina si muova all’estero alla ricerca di propri simili, a livello ideologico, quando invece la bussola dei dirigenti cinesi è laica come quella di molti altri paesi. I cinesi perseguono i propri interessi, come dimostrano alleanze, economiche, anche con paesi considerati da tutti democratici. Feldman in questo ha la posizione scontata dell’Occidente: «La leadership del Partito – scrive – vorrà mantenere intatta la propria posizione e consolidare la propria legittimità senza sottoporsi a consultazioni democratiche. Qualunque iniziativa politica dovrà prestare molta attenzione alle motivazioni di questi leader. Gli Stati uniti e i loro alleati occidentali dovranno tenere presenti gli interessi del Partito, senza scendere a compromessi sui diritti umani».
Più interessanti le considerazione di Feldman nell’ultima parte del libro, quando analizza la possibilità che lo scontro avvenga «per procura». Si tratta di una considerazione attuale, perché è qualcosa che sta già avvenendo, basti pensare alla Siria. Ma il mondo multipolare ha una sua gerarchia e chi tiene i fili di alcuni processi ormai organizza e gestisce «solo» guerre per procura (Siria, Libia, i più recenti Yemen e in Europa l’Ucraina). Sarà necessario vedere se queste «guerre per procura» finiranno per scoppiare anche nell’area dove assomiglierebbero più a un confronto diretto, ovvero nel Pacifico.
Secondo Feldman l’ipotesi più credibile è quella di una potenziale guerra coreana, ma il professore di Harvard si dimostra un ottimista, quando ricorda che in ogni caso Usa e Cina hanno più interessi comuni, economicamente, che divergenze. E questo fattore dovrebbe garantire una pace, per quanto colma di tensione. Osnos non si pone così direttamente il problema, ma indaga le sensazioni cinesi nei confronti dell’Occidente, recuperando una frase di Lu Xun (uno degli scrittori e intellettuali più noti nella storia cinese): «I cinesi non hanno mai considerato gli stranieri come degli esseri umani. Li abbiamo sempre considerati o come una specie di divinità da adorare, o come degli animali selvaggi».
Tra invidia e risentimento
Il mix dei sentimenti cinesi nei confronti degli occidentali, secondo lo scrittore americano, si consuma tra invidia e risentimento. Invidia perché l’Occidente viene visto come una sorta di paradiso culturale, artistico e intellettuale; risentimento per quanto fatto dalle potenze occidentali alla Cina durante «il secolo dell’umiliazione». Non a caso quando la dinastia Qing nel 1877 mandò un giovane professore, Yan Fu, in Inghilterra a studiare la potenza navale britannica, il docente tornò spiegando agli imperatori che la forza marittima inglese non era giustificata dalla ricchezza della Corona britannica, bensì «dalle idee della società inglese». Per giustificare questa sensazione, aveva portato con sé i libri di Herbert Spencer, Adam Smith, John Stuart Mill e Charles Darwin. Un po’ come oggi i cinesi che hanno studiato all’estero tornano in Cin con know how e conoscenze occidentali. Fino a quando i cinesi sentiranno ancora di dover imparare, per la pace nel mondo non dovrebbero esserci problemi, sembra concludere Osnos.
Nelle viscere della capitale A Pechino c’è un’altra città. Sottoterra
di Guido Santevecchi Corriere 29.1.15
PECHINO Ci sono circa seimila rifugi antiaerei a Pechino, scavati sotto i
palazzi a partire dal 1949, l’anno della fondazione della Repubblica
popolare, quando la Cina era isolata e temeva un attacco dagli
«imperialisti». Ora la Cina è la seconda economia del mondo, ha quasi
tre milioni di milionari (in euro) e quasi 300 miliardari nell’elenco di
Fortune . Ma i rifugi ci sono ancora e sono diventati il «mondo di
sotto» di Pechino, dove centinaia di migliaia di giovani e lavoratori
migranti vivono e inseguono i loro sogni con un’incredibile forza
d’animo. Sono quelli che mandano avanti l’industria dei servizi nella
capitale della fabbrica del mondo, ma non hanno abbastanza soldi per
pagare l’affitto di un appartamento decente. La loro casa è una stanza
senza finestre, dieci metri quadrati, nei sotterranei dei grandi
palazzi. Qualche sociologo li ha chiamati «le Formiche», ma per la gente
sono «la Tribù dei Topi».
Il posto, uno dei seimila, è a venti minuti dal cuore commerciale della
capitale. Si chiama Ding Fu Zhuang: «Villaggio della Felicità Eterna».
Un palazzone rettangolare di 11 piani come tanti qui, grigio, davanti un
giardinetto bruciato dal gelo. Sul retro, una targa con la scritta
«Rifugio antiaereo», anche in inglese. Basta scostare le coperte messe
per proteggere l’ingresso dal vento freddo, scendere quattro rampe di
scale. Sono 34 gradini che portano a una serie di corridoi: ecco il
mondo di sotto, la casa della Tribù dei Topi. Quelli che per risparmiare
sugli affitti impossibili e indecenti hanno deciso di vivere
sottoterra, al buio, senza riscaldamento, sono un milione secondo uno
studio indipendente; «solo 281 mila» se si crede all’ultimo censimento
delle autorità che risale al 2014. I Topi non sono brutti, sporchi e
cattivi: nella maggioranza sono ragazzi diplomati venuti dalla provincia
per fare fortuna. Hanno lavori normali, dalla parrucchiera al
contabile, all’impiegato hi-tech, anche giovanissimi insegnanti. Per
tutti il salario d’ingresso è molto basso e non possono permettersi di
pagare un affitto normale: ci dicono che in questo brutto palazzo un
monolocale costa 3.500 yuan al mese (500 euro). Un giovane diplomato
guadagna 4.000 yuan: è fuori mercato. Per questo la Tribù dei Topi è
nelle viscere di Pechino, nei rifugi, anche nelle cantine.
C’è qualche rischio a scendere quei 34 gradini con una macchina
fotografica e un taccuino in mano, perché a chi riscuote gli affitti non
piace la pubblicità. I corridoi sono bui e freddi, però puliti. A metà
percorso si passa una porta in acciaio con un maniglione a ruota: siamo
nel cuore del vecchio rifugio antiaereo. In fondo si vede una luce:
viene da un gabbiotto, dentro c’è un tizio che mangia e guarda la tv. È
il signor Wang, il manager di questo posto, espressione sospettosa.
Recito la storiella che mi è stata suggerita: «Ho vissuto a Pechino per
anni, ora debbo partire per un po’ e ho bisogno di uno spazio per
lasciare sei o sette valigie e una mezza dozzina di scatoloni, si può
fare?». Wang prende una chiave e fa qualche passo verso la porta con la
scritta 002. Apre: «Ecco qui, l’hanno lasciata libera da poco». Ci sono
due brande e un tavolo, niente finestre, soffitto neanche troppo basso.
Saranno dieci metri quadrati. Quanto costa? «Fa 450 yuan al mese,
pagamento ogni mese, niente anticipo». 450 yuan sono circa 60 euro. Ma
ci si può fidare a lasciare qui le cose? «Certo, io sto sempre lì nella
portineria a controllare chi passa, qui ci vive solo gente tranquilla,
colletti bianchi o persone che fanno piccoli affari», dice Wang. E
quanta gente? «I corridoi sono lunghi, ci sono tante stanze, una
novantina di famiglie, cento persone direi». Affare fatto, ci vediamo
domani con i soldi. «Fate presto, ho sempre richieste nuove».
Il manager-custode torna a mangiare e ci lascia il modo di dare
un’occhiata approfondita in giro. Un grande manifesto avverte sui
divieti: niente coperte elettriche, bollitori per l’acqua, pentole a
pressione. Le porte sono tutte numerate; i bagni comuni sono stati
puliti questa mattina ma serve lo stomaco forte per avventurarsi. Qua e
là scarpiere e pile di padelle. È mezzogiorno, gli abitanti dell’albergo
dei topi sono tutti fuori al lavoro, ma da una porta socchiusa spunta
il volto di una ragazza. Sta mangiando zuppa di riso fredda. Sorride e
ci fa entrare. Dentro, un computer acceso, un materasso a una piazza e
mezza, una sedia, una pila di scatole, qualche pentola, foto di riviste
di moda attaccate alla parete e un orsacchiotto di pezza chiuso nel
cellophane. «Mi chiamo Liu, ho 24 anni, sono venuta con mio marito dallo
Henan sette mesi fa. Facciamo i programmatori di pc, non si guadagna
male, 4 mila yuan al mese a testa (1.200 euro in due). Ma ora sono
incinta, per questo sto a casa» (l’orsetto è per il bimbo). La casa di
Liu, in questo sotterraneo, costa 700 yuan al mese «perché oltre allo
spazio mi danno la luce e il collegamento Internet». Il riscaldamento
non c’è, io ho il cappotto e la sciarpa e mi sento gelare. Zhou dice che
ci si abitua presto.
Chi abita qui? «Alcuni sono buoni amici, ci sono insegnanti, contabili,
tecnici di postproduzione cinematografica, musicisti, ragazzi simpatici
che risparmiano e cercano sempre di migliorare». Liu sorride: «Non siamo
diversi dagli altri, vestiamo come loro, pensiamo come loro e tra
qualche anno, quando avremo risparmiato abbastanza, vivremo di sopra,
alla luce del sole, anche noi». Pechino ha 21,5 milioni di abitanti, di
questi, circa 8 milioni sono lavoratori migranti venuti dalle province,
368 mila solo l’anno scorso. Molti non avranno mai una casa con le
finestre.
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