L’età dell’interruzione
Immersi nei
social network connessi con ogni device travolti dalle informazioni
viviamo mettendo il pausa di continuo ciò che stiamo facendo, riducendo
la nostra attenzione a pura percezione Ecco come le nostre vite sono
diventate un eterno intervallo tra gli intervalli
di Maurizio Ferraris Repubblica 18.1.15
Siamo
in una situazione che è di fatto quella militarizzata della
mobilitazione totale, siamo sottoposti a un senso di costante
inadeguatezza e frustrazione, viviamo l’opposto speculare della
condizione di pienezza e di realizzazione che si accompagna di solito al
portare a termine un progetto
UN RECENTISSIMO studio della
University of Southern California ha stabilito che viviamo nella “età
della interruzione”: siamo perennemente connessi a molteplici apparati, e
di fatto la nostra attività prevalente consiste nell’interrompere
quello che stavamo facendo per incominciare a fare qualcos’altro,
interrompendoci di lì a pochissimo e così via all’infinito. Una
situazione inconcepibile pochi decenni fa. Nel giro di un secolo abbiamo
avuto almeno tre età, diverse tra loro non meno che il neolitico e
l’età del bronzo. Sino a metà del Novecento siamo stati nel pieno
dell’età della produzione: si fabbricavano artefatti, quelli su cui, per
esempio, si è costruito il “miracolo italiano”. La produzione avveniva
in tempi scanditi e in spazi ben delimitati: otto ore, e poi finisce il
turno, non si può esercitare ininterrottamente una funzione che richiede
energia fisica e la disponibilità di grossi apparati meccanici
concentrati nelle fabbriche. Poi siamo passati all’età della
comunicazione: si trasmettono notizie, i tempi sono meno scanditi, e gli
spazi anche. È l’epoca (1980) in cui Gillo Dorfles pubblica
L’intervallo perduto : il nostro mondo, che è fatto di interruzioni e di
spazi vuoti, si riorganizza nella forma di un continuum, e vien meno
l’interruzione, la separazione tra un evento e l’altro.
Da quando il
web e i suoi dispositivi hanno fatto irruzione capillarmente nella
nostra vita, siamo entrati in una terza età, appunto “l’età
dell’interruzione” oppure “della registrazione”: come nell’epoca della
produzione si fabbrica, come in quella della informazione si trasmette,
ma quello che viene fabbricato e trasmesso è un documento registrato,
destinato a rimanere lì dove si trova e inoltre a circolare per un tempo
e uno spazio indefinito sul web. Mi spiego: ogni utente è al tempo
stesso un produttore di informazioni, postate sui social network. Al
tempo stesso, ogni contatto sul web produce automaticamente informazioni
e documenti sugli utenti. Si crea una situazione di indistinzione tra
sociale e mediale (la vita sociale è quella che ha luogo sul web) e tra
privato e lavorativo (gli stessi dispositivi servono per il lavoro così
come per la gestione della vita privata e per l’intrattenimento).
Qui,
piuttosto che con una perdita dell’intervallo, abbiamo a che fare con
una interruzione universale. In una situazione che è di fatto quella
militarizzata della mobilitazione totale, siamo sottoposti non a un
flusso di informazioni (che poteva anche essere seguito con una
attenzione distratta), ma appunto con un flusso di documenti, vincolanti
perché scritti (scripta manent) e individualizzati, cioè rivolti solo a
noi, che ci spingono all’azione (minimalmente, alla reazione: il
messaggio richiede risposta, e nel farlo genera responsabilità). Il che
genera un senso di costante inadeguatezza e frustrazione, ossia
l’inverso speculare della condizione di pienezza e di realizzazione che
si accompagna al portare a termine un progetto o un oggetto.
Siamo
perennemente in difetto e, nel lungo termine, questa situazione diviene
strutturale. Sicuramente, chi ha inventato il web ha pensato a un
veicolo di conoscenza più che a una catena di trasmissione di ordini e
di azioni, proprio come chi ha inventato il telefonino non avrebbe mai
previsto che si sarebbe trasformato in un archivio e in un terminale di
una catena militarizzata.
Si tratta allora di mettere a fuoco la
sindrome. Il moltiplicarsi delle interruzioni che ha luogo in un
archivio infinito non ci porta, come ingenuamente si potrebbe credere,
nel cuore dell’attualità, ma in una ucronia in cui tutto è contemporaneo
di tutto. Più che il mondo in diretta, quello che ci si fa avanti
attraverso il web è una montagna di giornali vecchi che circondano il
giornale di oggi ponendo il quesito: qual è l’attualità? Dove siamo,
oggi? Che cosa è successo? Sappiamo quando è iniziata e quando è finita
la Seconda guerra mondiale, ma il confuso conflitto senza nome in corso
almeno dall’11 settembre non sembra avere eventi o evoluzioni, è un
continuum di cui non si riescono a prevedere gli sviluppi né meno che
mai a trovare una identità.
Senza nulla togliere ai meriti e alle
risorse del web, che appaiono irrinunciabili, anzi, proprio per dare
senso e scansione alla ricchezza del continuum, i giornali,
l’università, e anche quella istituzione in profonda trasformazione che è
la televisione, possono giocare un ruolo essenziale. Difficile
ricorrere ai giornali per le minute informazioni sul tempo, sul corso
del dollaro, sui cinema e sui treni: i flussi sono gestiti benissimo dal
web. Ma cosa siano gli oggetti, gli eventi, e la stessa nozione di
attualità, quello può dircelo solo la prima pagina del giornale. E che
cosa sia vero è tradizionalmente garantito dalla scienza e dalla cultura
che trova nelle università e nel sistema editoriale il suo tradizionale
punto di forza. Infine, che qualcosa sia “pubblico”, cattolico in senso
etimologico, è stato garantito da quel tubo catodico, oggi scomparso
come apparato tecnico ma che rimane il vessillo della televisione
rivolta a tutti.
Senza una notizia che resti immutata per 24 ore, e
su cui si possa riflettere, senza una comunicazione di cui si può avere
la ragionevole certezza che raggiungerà quasi tutta l’opinione pubblica,
senza la possibilità di comprovare l’attendibilità delle informazioni
diviene difficile dar senso alla nozione di “informazione”, “attualità” e
“opinione pubblica”. Per quanto la struttura del giornalismo,
dell’editoria, dell’università e della televisioni richiedano di essere
ripensate, a causa degli evidenti arcaismi che presentano di fronte alle
nuove tecnologie, resta che questo ripensamento e rilancio è
indispensabile e imprescindibile, pena il venir meno di quei valori
(opinione pubblica, attualità, sapere) che stanno al centro del progetto
della modernità. Non è escluso che questa possibilità non si realizzi, e
che ci si ritrovi (non troppo diversamente dalle società tradizionali
che hanno preceduto la modernità) in un eterno presente scandito dalle
stagioni (per quanto a loro volta indifferenziate nel continuum del
riscaldamento globale). Ma è certo che, se ciò avvenisse, sarebbe molto
difficile non parlare di un danno culturale e politico, e non credo di
dire niente di originale nel ricordare che il carattere fondamentale
della nostra epoca, cioè l’anacronismo (chi si sarebbe immaginato la
rinascita di un Califfato, sia pure su web?) non sia estraneo a questa
scomparsa delle scansioni, a questa inflazione di interruzioni e di
frustrazioni che generano come contrappeso la nostalgia dell’arcaico in
un mondo islamico che non è meno tecnologizzato di quello occidentale.
Il grande flusso che confonde il pensiero critico
di Paolo Legrenzi Repubblica 18.1.15
NELLA
prima metà del secolo scorso, scrittori come Aldous Huxley (Il nuovo
mondo, 1932) o George Orwell (1984, 1948), avevano immaginato il mondo
del futuro. Il futuro è diventato presente, ma è tutt’altra cosa. Nei
mondi di Huxley e Orwell le informazioni provenivano da un’unica fonte,
un governo totalitario che ritroviamo in film come Fahrenheit 451 di
Truffaut (1966) o Blade Runner di Ridley Scott (1982). In questi film un
comando centrale serve per lavare il cervello e creare una finta
tranquillità un po’ beota.
Dov’è oggi questa tranquillità uniforme?
Nei paesi occidentali avanzati, i più sono continuamente bombardati da
un flusso continuo di messaggi e, a loro volta, interrompono gli altri.
Un incubo? Non proprio. Quando siamo sconnessi e lasciati in pace,
proviamo spesso un senso di abbandono, una solitudine non sempre
piacevole. La rete che ci avvolge è unica, come i dittatori
fantascientifici di un secolo fa, ma non produce un ordine totalitario.
Ciascuno pesca le informazioni che più gli garbano, e scambia le
informazioni più disparate. Si entra nella vita altrui e si è penetrati o
intrattenuti dagli altri. Sul più bello, siamo interrotti da messaggi
frequenti e sovrabbondanti. La bussola per navigare in questo mare
magnum è impazzita e produce effetti in modi disordinati e casuali.
Un
semplice esempio, giusto per dare un’idea. Ponete di avere queste tre
informazioni: A — Tizio sta con Caia B — Caia è sposata C — Caia ha un
figlio Se la sequenza arrivasse a tutti nell’ordine A-B-C, avreste una
mini-storia. Le informazioni piombano invece inaspettate, come frammenti
di proiettili in un bombardamento casuale. Siamo noi a dover mettere
insieme i pezzi: Caia sta con Tizio, si è sposata, e ha avuto un figlio.
Oppure: Caia ha avuto un figlio, si è sposata e sta con Tizio. E così
via. Caia è un po’ diversa per ciascuno di noi, e Caie diverse possono
convivere in noi. L’abbiamo catalogata tra le persone sposate o tra le
mamme? Oppure tra le mamme poi sposate? O tra le mamme con un partner
nuovo?
Noi non sappiamo sempre come ripeschiamo questi frammenti
dalla memoria perché vanno a finire in tanti cassetti mentali che
funzionano come compartimenti stagni. Non stupitevi se una persona vi
dice che non tutti i musulmani sono terroristi, ma che tutti i
terroristi sono musulmani. Questa persona può ben sapere che
recentemente ci sono stati atti di terrorismo commessi da nonmusulmani,
per esempio da fanatici che si dicono neo-nazisti o anarchici. E
tuttavia questi spezzoni di conoscenze stanno in un altro cassetto
mentale, senza mettere in crisi l’affermazione sui terroristi/musulmani e
sui musulmani/terroristi. Quello che una volta si chiamava pensiero
critico, o semplice riflessione ragionevole, oggi funziona male, e
sembra talvolta affievolirsi, se non svanire.
L’evoluzione della
nostra specie non ci ha costruito per ragionare in ambienti invasivi e
intermittenti, saltabeccando qua e là. I nostri antenati dovevano
reagire a informazioni sui pericoli provenienti da un ambiente ostile.
Ci serviva un’attenzione concentrata che agisse rapida ed era inutile
una grande memoria di lavoro. La memoria di lavoro è un filtro di
piccole dimensioni per cui passano tutte le informazioni prima di essere
incapsulate in un cassetto di quell’armadio che è il magazzino
permanente della memoria. Se una persona vi dice un numero nuovo di
telefono, dovete ripeterlo fino a quando lo depositate in una memoria
artificiale esterna, un pezzo di carta o un computer. Questo filtro
immodificabile che sta tra noi e il mondo funziona come un imbuto
strettissimo. Se ci interrompono, dobbiamo smettere di stare attenti a
quello che stiamo facendo, e concentrarci per un attimo sulla nuova
informazione. Siamo dentro una melassa che cattura l’attenzione per
attimi, e tuttavia ci trattiene e ci intrattiene. Spesso, se viene a
mancare, sentiamo di galleggiare nel vuoto, fuori dalla grande rete dove
sta l’azione e la vita. Forse in questo gli scrittori di fantascienza
di un secolo fa avevano visto giusto. Il nuovo mondo ci rende un po’
beoti ma contenti, e i pochi che vengono raramente interrotti, e si
concentrano, sono quelli che finiscono per cambiare il mondo.
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