Il settimanale democristiano «La Discussione» accusava il «pacifismo ipocrita» di questi intellettuali e metteva in risalto gli «strani oblii» sulla contemporanea aggressione della Cina maoista all’India. Poi li sbeffeggiava uno ad uno: si segnalano tra questi uomini di cultura antiamericani «un romanziere specializzato in vicende erotiche» (Moravia), «un narratore di storie di prostitute e di sfruttatori» (Pasolini), «uno scrittore che fa il pittore» (Carlo Levi) e «un pittore che fa l’attivista comunista» (Renato Guttuso). Il vicesegretario della Dc Giovanni Battista Scaglia li definiva «intellettuali squillo» e questa battuta veniva considerata assai efficace nel dispacci riservati dell’ambasciata statunitense di via Veneto. Guttuso gli rispondeva per le rime. Il 25 ottobre si tenne un’assemblea al Teatro Brancaccio di Roma dove si susseguirono gli interventi fortemente antiamericani di Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Renato Guttuso, alcuni dirigenti del Pci e il socialista Emilio Lussu. Giungevano adesioni dello stesso segno da parte di Italo Calvino, Vittorio De Seta, Michelangelo Antonioni, Emilio Vedova, Luciano Berio, Gian Maria Volonté, Luigi Nono (che sarà coinvolto in scontri con la polizia nel corso di una manifestazione contro Kennedy).
In una manifestazione il 27 ottobre davanti al Duomo di Milano restava ucciso un giovane ventunenne, Giovanni Ardizzone (che, non senza generare qualche sconcerto, si scopriva poi essere stato iscritto qualche anno prima al Movimento sociale italiano). L’«Unità» scriveva che non si era trattato di un «incidente» e puntava l’indice contro la polizia: «Bravacci in divisa a disposizione dei donrodrighi scelbiani e tambroniani che ancora si annidano nelle questure italiane». Un altro socialista, Lelio Basso, definiva quello di Kennedy come «un atto di prepotenza internazionale così aperto e conclamato che sulla sua illiceità giuridica e morale non possono sussistere dubbi». Venivano conquistate alla causa le firme di Giulio Carlo Argan, Mino Maccari, Eduardo De Filippo, Francesco Rosi, Luigi Zampa, Elio Petri. E perfino quella di Giuseppe Ungaretti. Anche il giurista cattolico-liberale Arturo Carlo Jemolo si pronuncerà contro Kennedy, sostenendo che il vero aiuto che gli europei potevano dargli era quello di «disapprovare questo gesto diretto in definitiva contro i valori dell’Occidente, frutto della psicosi bellica da cui è dominato il popolo americano».
Si parla anche di questo in uno dei capitoli più avvincenti dell’interessantissimo libro di Leonardo Campus, I sei giorni che sconvolsero il mondo. La crisi dei missili di Cuba e le sue percezioni internazionali , appena pubblicato da Le Monnier. Ciò che incuriosisce non è che quegli intellettuali si muovessero all’unisono in solidarietà all’Unione Sovietica (lo fecero sempre, o quasi, e quella non fu neanche una delle occasioni più imbarazzanti), ma che in quell’ottobre del 1962 due di loro, pur schierandosi contro gli Stati Uniti, ritennero di distinguersi dagli altri. Il primo fu Elio Vittorini, che espresse qualche dubbio sulle iniziative del mondo della cultura e, per parte sua, rifiutò di dividere il mondo in buoni (Castro e Krusciov) e cattivi (Kennedy): «Le notizie sono allarmanti e preoccupanti», disse, «tuttavia non si può dare un giudizio moralistico; la questione di Cuba richiede di essere risolta su un piano di buona volontà internazionale, con il concorso di tutte le parti». Ancora più esplicito nell’esprimere le proprie perplessità fu il grande leader del pacifismo italiano, Aldo Capitini, che rifiutò di aderire alla manifestazione del Brancaccio dicendo: «A parte il fatto del regime interno di Cuba e delle uccisioni che sono avvenute in questi mesi anche senza processo di gente lì dentro… è chiaro che io sono contro l’imperialismo di Kennedy, ma non posso accettare che si mettano basi missilistiche né lì né in ogni altro punto». E lo stesso Jemolo, qualche giorno dopo il primo pronunciamento, si sentì in dovere di correggere leggermente il tiro: ribadì che, a suo avviso, «dal punto di vista giuridico gli Stati Uniti erano dalla parte del torto», ma riconobbe che «la Russia aveva cercato di turbare lo statu quo e di inserire armamenti in un punto nevralgico» e definì questa circostanza «un cattivo servizio alla causa della pace».
Il paradosso (ma non fu l’unica volta che nel secondo dopoguerra si verificò un caso del genere) è che la politica si caratterizzò per giudizi assai più sfumati e articolati di quelli degli intellettuali. Clamoroso fu il caso del Partito comunista. Mentre i compagni di strada e la stampa del Pci si pronunciavano nei termini di cui si è detto, nel partito soffiava un vento sempre più forte di critica all’«avventurismo» di Krusciov. Pur con qualche prudenza, in una riunione della direzione si pronunciano in tal senso, oltre allo stesso Palmiro Togliatti, Mario Alicata, Armando Cossutta ed un giovane Enrico Berlinguer.
Se ne accorge l’ambasciata statunitense, che nota la mancanza di una mobilitazione da parte del Pci del tipo di quelle che si erano avute in precedenti, simili circostanze. «Questa relativa tranquillità comunista», annota un dispaccio diplomatico, «sta suscitando crescenti commenti nei circoli non comunisti». Un dirigente, Luciano Barca, rileva nel suo diario che Togliatti considera che l’Urss sia uscita «indebolita» dalla prova di forza: «Il suo giudizio su Krusciov diviene ancora più severo… Paragona l’avventurismo dell’operazione militare a quello del rapporto segreto (la denuncia dei crimini di Stalin nel 1956, ndr ) non fondato su una seria analisi e privo di proposte correttive adeguate agli errori ed orrori denunciati».
Ancora più articolata la questione in casa socialista. Il segretario del Partito socialdemocratico, Giuseppe Saragat — che di lì a due anni sarà eletto presidente della Repubblica — condanna inizialmente il blocco americano per il suo carattere «illegale ed eccessivo». Nei giorni successivi correggerà il tiro, accusando l’Urss di aver «cercato di violare la legge suprema degli equilibri». Anche il socialista Pietro Nenni censura il blocco americano e loda la prudenza di Krusciov, pur prendendo le distanze dalla sua decisione di istallare basi missilistiche a Cuba. «Posizioni abbastanza misurate», le definisce Campus, che però nota come «così barcamenandosi Nenni finì per scontentare tutti». Tant’è che un funzionario del dipartimento di Stato decise di incontrare altri dirigenti socialisti. Tra essi un ventottenne Bettino Craxi, citato in una relazione ad Arthur Schlesinger. «Sebbene Craxi», scrive il rapporto, «ovviamente considerasse di saperne parecchio sul problema cubano (molti socialisti ingenuamente credono che siccome sono “marxisti” hanno uno speciale intuito e comprensione per gli affari mondiali), egli non aveva neppure realizzato che Castro si era proclamato marxista-leninista… Dopo che il nostro incontro fu finito, Craxi era piuttosto riflessivo e mi ha fatto notare di aver imparato molto… ha spontaneamente affermato che avrebbe visto Nenni e gli avrebbe detto alcune delle cose che aveva imparato e fornito un bel po’ di materiale scritto che aveva ricevuto». Poche settimane dopo quell’incontro, Craxi scrive all’autore del rapporto, dicendogli di aver riferito quel che aveva appreso dai «miei amici milanesi, che avevano indugiato in un romantico filocastrismo» e che adesso «hanno riconsiderato parecchie posizioni dopo notevole discussione e riflessione».
Analoga ancorché confusa autocritica farà Nenni, il quale in una lettera ammetterà che «nella questione di Cuba non siamo stati capaci di individuare fin dal primo momento che le basi sovietiche erano una violazione dell’indipendenza cubana e fornivano un pretesto alla eccitata opinione pubblica americana per soffocare la rivoluzione in ciò che ha di autenticamente cubano e socialista».
Ancor più complicato quel che avviene in casa Dc. Il capo del governo, Amintore Fanfani, cerca una posizione «terza» tra Usa e Urss (e per questo riceverà l’apprezzamento russo), ma il leader inglese Harold Macmillan nel suo diario definisce l’atteggiamento fanfaniano ai tempi di questa crisi «windy» (verbosamente vuoto). Il presidente della Repubblica Antonio Segni si accorge dei misteriosi movimenti di Fanfani (affidati, come vedremo, all’attivismo di Giorgio La Pira) e lo denuncia agli americani. «Segni», riporta una nota della Cia, sostiene che mentre tutti gli altri Paesi occidentali hanno leader forti l’Italia è guidata da un uomo, Fanfani, «la cui mancanza di coraggio e il cui atteggiamento ambiguo la sta allontanando dai suoi alleati verso un irrealistico e pericoloso neutralismo del genere patrocinato dal suo amico utopista, La Pira».
Il sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, effettivamente grande amico di Fanfani, coinvolge Giovanni XXIII in un’offensiva di pace all’indirizzo di Kennedy e Krusciov. Il Papa si muove sì, ma per conto proprio. E annota su una sua agenda personale: «Notevole la esibizione di La Pira… Che disgrazia! Così buono e retto; ma così poeta, e fuori dalla realtà». Il sindaco, a supporto dalla propria azione, mobilita la sua città. Ecco alcuni comunicati che furono diramati da Firenze: «I dipendenti della valigeria Leone si sono riuniti in assemblea generale per esaminare l’attuale situazione mondiale ed hanno unanimemente riconosciuto che il blocco navale operato dall’America contro l’isola di Cuba è un atto inconsiderato che può portare conseguenze disastrose per tutto il mondo»; «Gruppo Facchini mercato ortofrutticolo Novoli fa voti affinché la S.V. (il primo cittadino) a nome lavoratori fiorentini prenda concrete iniziative difesa pace et tranquillità mondiali»; «Le donne dell’Isolotto, vivamente allarmate dagli eventi, chiedono alle autorità competenti di farsi interpreti davanti agli organi di governo del loro stato d’animo»; «I giovani dei rioni di Monticelli, Legnaia, Isolotto, S. Frediano, riunitisi stasera in un’assemblea si rivolgono al Sindaco per richiedere, in nome della città, un urgente e immediato intervento verso il governo italiano e l’Onu per frenare la corsa alla guerra atomica e salvare la pace nel mondo». Colore, certo. Ma i movimenti politici furono reali.
Si può sottolineare una curiosa simmetria, rileva Campus: «Mentre Fanfani dava un supporto riluttante alle mosse statunitensi (che giudicava troppo rischiose), Togliatti lodava pubblicamente l’Urss covando non meno dubbi su quelle di Krusciov (che considerava troppo avventuristiche)». Entrambi i leader, insomma, in quel frangente «erano abbastanza scontenti della rispettiva superpotenza pur senza poterlo dire». In ogni caso furono più sottili di quanto lo fossero i loro apparati di propaganda. E, soprattutto, degli uomini di cultura da questi ultimi influenzati.
La paura esorcizzata della bomba
Alessandro Santagata Manifesto 25.9.2015
Dalla guerra fredda in avanti l’immaginario postatomico ha
occupato uno spazio rilevante nella letteratura, nei fumetti
e nelle serie televisive. Nello stesso tempo, l’accusa di detenere
armi di distruzione di massa ha continuato a fornire il pretesto
alla politica per stilare liste di nemici e dichiarare guerre
preventive. Il libro di Leonardo Campus (I sei giorni che sconvolsero il mondo,
Le Monnier) affronta la lunga durata della «paura della bomba»
a partire dalla crisi dei missili di Cuba del 1962; uno spartiacque
per gli Stati Uniti, ma anche per le conseguenze sullo scenario
italiano.
Il volume si snoda attorno alla domanda su quali pensieri e quali
emozioni possa aver provocato la convinzione di «vivere sull’orlo
di una guerra termonucleare». Le risposte vengono cercate nei
nastri delle riunioni d’emergenza alla Casa Bianca, nella stampa
internazionale, nelle testimonianze di attori, scienziati
e privati cittadini. Ne emerge un insieme sfaccettato, al cui
interno anche la società italiana trova una collocazione. I fatti
salienti sono noti. L’istallazione dei missili sovietici, pensata in
reazione alla Baia dei Porci, viene scoperta nell’ottobre 1962. Dopo
tredici giorni di alta tensione, la soluzione della crisi arriva dal
rifiuto del leader del Cremlino di forzare il blocco navale
americano intorno all’isola; una decisione accolta dai media
occidentali come una vittoria. Non è stata resa pubblica invece la
trattativa che ha portato Kennedy ad accettare la
disinstallazione delle basi missilistiche in Turchia e in
Italia.
Anche se l’opinione pubblica non ha la percezione del pericolo,
l’Italia è stata classificata come uno degli obiettivi a rischio di
rappresaglia sovietica: i 30 missili Jupiter a raggio
intermedio sparsi nell’altopiano delle Murge la rendono un
bersaglio adatto. Le pagine dedicate al ruolo giocato in questa
fase da Andreotti e Fanfani sono ricche di informazioni nuove che
mostrano lo sforzo della politica italiana nella ricerca di una
soluzione alla crisi internazionale con il coinvolgimento delle
Nazioni Unite.
Nella società civile la crisi porta nelle piazze un movimento per la
pace ancora debole, ma in espansione anche nel mondo cattolico
e dalle molteplici anime. Per i settori religiosi, in
particolare, la questione di fondo sollevata da Giovanni XXIII
e dal trappista americano Thomas Merton riguarda la possibilità
concreta che l’umanità possa non sopravvivere a un conflitto
nucleare e quindi la necessità di sviluppare una cultura della pace
che oggi definiremmo «senza se e senza ma». Ecco allora che, anche se
l’Italia non ha vissuto fenomeni quali l’assalto ai supermercati e i
rifugi antiatomici in giardino, la ricostruzione di Campus
restituisce l’immagine di una grande paura di tipo nuovo. Ne
forniscono testimonianze preziose il Cinegiornale della pace,
ideato da Cesare Zavattini, una rivista letteraria come «Il Verri»,
che dedica alla crisi un numero monografico, i testi e le uscite
pubbliche di intellettuali quali Eco, Moravia, Pasolini
e Capitini.
Anche in Italia la rappresentazione dell’Olocausto atomico in
un film cult come Il Dottor Stranamore e i discorsi sulla bomba degli
artisti, degli scienziati e delle autorità religiose hanno
funzionato come una forma di esorcismo della paura. In questo
panorama la crisi cubana è stata un passaggio centrale nella
maturazione di un mainstream globalizzato in un teatro di guerra
divenuto potenzialmente totale. In palio c’è la sopravvivenza
dell’umanità, la sfida più alta, ma anche la più difficile da
spiegare e inquadrare nelle categorie ideologiche e negli schemi
politici a disposizione; ideologie che proprio allora iniziano
a modificarsi in maniera decisiva per gli sviluppi di una nuova
cultura della pace.
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