Fino a poco tempo fa, le prospettive della scienza sul «mistero del tempo» si diramavano in due direzioni alternative. Da una parte avevamo la fisica, tendente a presentarlo come un’illusione dei sensi e quindi a negarlo: se per Einstein e Minkowski il tempo non è altro che una dimensione del palcoscenico cosmico (la quarta, inseparabile dalle tre dello spazio), alle invisibili scale quantistiche — a maggior ragione — non esistono direzioni spaziotemporali: l’euritmica «danza delle Ore» del mito greco si frange qui nel brulichio casuale degli atomi. Dall’altra parte, avevamo la biologia, surrogata dall’esperienza, in cui il tempo scandisce le sequenze degli organismi (nascita-sviluppo-riproduzione-morte) in un senso irreversibile: la sequenza retrograda è possibile solo in certe fiction, come nel Philip K. Dick di In senso inverso , dove i morti («bussando» dall’interno delle bare) regrediscono in adulti, bambini e poi feti accolti da ventri materni a loro volta in regressione temporale, fino all’implosione completa.
domenica 25 gennaio 2015
Nuove teorie della temporalità
Il tempo ha ripreso a scorrere
Un
fisico sovverte le teorie di Einstein, una psicologa e un neurobiologo
sembrano descrivere il fluire delle ore come un’illusione del cervello.
Ma una convergenza è possibile
di Sandro Modeo Corriere La Lettura 25.1.15
Fino a poco tempo fa, le prospettive della scienza sul «mistero del tempo» si diramavano in due direzioni alternative. Da una parte avevamo la fisica, tendente a presentarlo come un’illusione dei sensi e quindi a negarlo: se per Einstein e Minkowski il tempo non è altro che una dimensione del palcoscenico cosmico (la quarta, inseparabile dalle tre dello spazio), alle invisibili scale quantistiche — a maggior ragione — non esistono direzioni spaziotemporali: l’euritmica «danza delle Ore» del mito greco si frange qui nel brulichio casuale degli atomi. Dall’altra parte, avevamo la biologia, surrogata dall’esperienza, in cui il tempo scandisce le sequenze degli organismi (nascita-sviluppo-riproduzione-morte) in un senso irreversibile: la sequenza retrograda è possibile solo in certe fiction, come nel Philip K. Dick di In senso inverso , dove i morti («bussando» dall’interno delle bare) regrediscono in adulti, bambini e poi feti accolti da ventri materni a loro volta in regressione temporale, fino all’implosione completa.
Fino a poco tempo fa, le prospettive della scienza sul «mistero del tempo» si diramavano in due direzioni alternative. Da una parte avevamo la fisica, tendente a presentarlo come un’illusione dei sensi e quindi a negarlo: se per Einstein e Minkowski il tempo non è altro che una dimensione del palcoscenico cosmico (la quarta, inseparabile dalle tre dello spazio), alle invisibili scale quantistiche — a maggior ragione — non esistono direzioni spaziotemporali: l’euritmica «danza delle Ore» del mito greco si frange qui nel brulichio casuale degli atomi. Dall’altra parte, avevamo la biologia, surrogata dall’esperienza, in cui il tempo scandisce le sequenze degli organismi (nascita-sviluppo-riproduzione-morte) in un senso irreversibile: la sequenza retrograda è possibile solo in certe fiction, come nel Philip K. Dick di In senso inverso , dove i morti («bussando» dall’interno delle bare) regrediscono in adulti, bambini e poi feti accolti da ventri materni a loro volta in regressione temporale, fino all’implosione completa.
Ma adesso il quadro sembra complicarsi e — in apparenza — capovolgersi.
Un fisico teorico autorevole e originale come Lee Smolin propone un
libro «militante» ( La rinascita del tempo ) in cui sovverte il
paesaggio della fisica, reimmettendovi il fluire del tempo come svolta
metodologico-filosofica; mentre le scienze cognitive e le neuroscienze
(pensiamo a un libro recente della scrittrice-psicologa Claudia Hammond,
Time Warped , tempo «piegato» o «distorto» e a uno prossimo del giovane
neurobiologo Dean Buonomano, The Brain Is a Time Machine ) sembrano
descrivere il «senso del tempo» nel cervello come uno spettro di
variazioni illusorie nella nostra rappresentazione del mondo esterno.
Per argomentare la sua ambiziosa proposta-break, Smolin costruisce il
libro in due «movimenti». Nel primo (più breve) riassume forza e
suggestione della visione dominante: quell’«universo-blocco» in cui le
leggi fondamentali — dal moto alla gravitazione — preesistono alla
materia istruendone le dinamiche. È un universo simile a una rete
astratta e immutabile, dove il tempo è traducibile in geometria
atemporale e dove (seguendo la cosmologia quantistica di Julian Barbour,
l’autore della Fine del tempo ) ogni oggetto o evento è simile a
un’istantanea in una «vasta collezione di momenti congelati»,
dissolvendo — col prima e il dopo — anche i nessi causali tra i
fenomeni. Nel secondo movimento (risalendo a intuizioni di Dirac,
Wheeler e Feynman), Smolin mostra invece le leggi fisiche soggette allo
stesso processo evolutivo («temporale») degli organismi viventi, e in
quanto tali inseparabili dalla materia e dalle sue proprietà
fisico-chimiche.
In questo modo, le leggi si mutano da fondamentali in «approssimate» ed
«emergenti», sempre penultime rispetto ad altre «più» fondamentali: al
punto che la loro efficacia, paradossalmente, consiste nell’applicarsi a
dinamiche locali (Smolin parla di «troncamenti di natura»), a porzioni
perimetrate di universo piuttosto che all’universo intero.
Non tutto, in questo re-ingresso del tempo in fisica, è convincente. Per
esempio, l’analogia tra evoluzionismo biologico e cosmologico appare,
al momento, sfocata e spericolata: vedi il paragone tra la selezione
naturale nelle specie (per mutazioni-variazioni genetiche) e quella tra
universi in competizione attraverso i buchi neri e le loro «discendenze»
(ce ne sono, nell’universo conosciuto, un miliardo di miliardi), anche
se proprio quest’ipotesi è stata di recente vagliata dallo zoologo di
Oxford Andy Gardner. Si tratta però di sfocature, sia chiaro, in un
libro che ha il merito non trascurabile di riportare nella disciplina
una ventata di realismo adulto, dopo lunghe infatuazioni metafisiche,
dalle «teorie del Tutto» al multiverso.
Come si diceva, i libri della Hammond e di Buonomano sembrano invece
inquadrare il «senso del tempo» nel cervello come configurazione
illusoria, fitta di distorsioni e autoinganni. «Sembrano», perché in
realtà il loro obiettivo è mostrare come quel «senso» — innegabile — sia
tutt’altro che oggettivo; se lo fosse, non avremmo bisogno di orologi e
cronometri.
Tutto parte dal fatto che il «tempo interno» è un’applicazione
particolare di schemi mentali adattativi (consci e inconsci) più
generali e flessibili, selezionati dall’evoluzione per l’orientamento,
la fuga/predazione e la riproduzione. A rigore, in effetti, l’unico vero
«orologio biologico» di cui disponiamo è la regolazione del rapporto
sonno/veglia rispetto alla luce e alla temperatura, la cui base neurale è
nell’ipotalamo: orologio peraltro non esclusivo dei mammiferi, dato che
lo posseggono anche piante, fiori e persino batteri (certe
proteine-orologio che si autoregolano su cicli di 24 ore). Per
sotto-orologi più specifici, ricorriamo a un patchwork funzionale
prelevato da un ventaglio di aree e circuiti neurali adibiti ad altre
funzioni, spesso linkati tra loro: il cervelletto (che presiede al
movimento) per valutare i millisecondi; il lobo frontale (memoria di
lavoro) per i secondi; i gangli basali (funzioni motorie ed emotività)
per discriminare ritmi e affetti della musica; e soprattutto, di nuovo,
l’ipotalamo (coinvolto nella memoria a lungo termine) per visualizzare
il futuro e predisporre strategie predittive; anche qui, senza
particolari privilegi di specie, come mostra il minuscolo colibrì rosso,
capace di valutare i 20 minuti necessari a un fiore per caricarsi di
nettare prima di affondarvi il becco.
Decisive, nella modulazione di questo patchwork (che intreccia senso
dello spazio e del numero, memoria ed emozione) sono le variabili
ambientali-culturali: a popolazioni come gli amazzonici Amondawa (che
non hanno parole per le unità di tempo, né calendari) si oppongono le
nostre società iper-cronometrate, dove tutti siamo come il Bianconiglio
di Alice; mentre la rappresentazione mentale di passato e futuro segue
le direzionalità del metodo di scrittura: gli occidentali da sinistra a
destra, gli arabi e gli ebrei al contrario, i sinofoni in senso
verticale, col passato in alto e il futuro in basso.
E altrettanto contano le variabili soggettive oscillanti tra fisiologia e
patologia, che si traducono in una vera fantasmagoria di fattori
distorsivi del tempo. Alcuni sono immediati: la paura e la malattia lo
rallentano, l’euforia o l’attenzione lo accelerano. Altri sono più
sorprendenti, come le visioni sinestetiche, in cui i giorni si associano
ai colori, i mesi a cerchi anti-orari o a spirali, gli anni a ellissi
imperfette. Altri ancora, sono perturbanti: è il caso delle
crono-alterazioni nell’isolamento o in certe lesioni cerebrali,
dell’«eterno presente» nei bambini iperattivi, del non-tempo negli
psicotici.
Del resto, che il tempo abbia una «forma» lo ricorda anche il codice
Morse, dove l’alternanza di punti e linee con i relativi intervalli fa
emergere le frasi un po’ come i puntini fanno emergere volti o alberi
nei quadri di Seurat.
Alla fine di questo percorso incrociato — tra soluzioni aperte e domande
inevase — è possibile almeno reimpostare la rotta concettuale.
Condividendo la cerniera evoluzionistica, la prospettiva di Smolin e
quella di Hammond-Buonomano convergono anche nel descrivere quella
dialettica fluida tra cervello e ambiente (esteso dalla stanza in cui
siamo alle vastità dell’universo) di cui l’ordine temporale è solo un
aspetto, anche se tutt’altro che secondario. Se, come scrive Putnam, «la
mente e la realtà costruiscono insieme la mente e la realtà», anche il
tempo deve rientrare in questa costruzione. Separati solo per
convenzione — in quanto unica e contigua è la materia che li veicola —
il tempo «esterno» della fisica e quello «interno» del cervello cercano
una difficile sincronia: ma pensare che il primo possa scorrere senza
passare per il filtro del secondo, questa sì è un’illusione, se non
un’allucinazione.
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