Osvaldo Guerrieri: Curzio, in uscita da Neri Pozza, pp. 319, € 17
Risvolto
Curzio è il
romanzo della vita di Curzio Malaparte, il racconto perciò di
un’avventura umana che non ha avuto uguali nella prima metà del
Novecento.
La storia comincia nel 1933 a Lipari, dove il fascista
Malaparte è confinato per attività antifascista, e si conclude nella
primavera del 1957 nella clinica «Sanatrix» di Roma in attesa di una
morte della quale tutti desiderano impadronirsi: i democristiani, i
comunisti, i repubblicani, la Chiesa cattolica.
Fra i due poli si
espande la più clamorosa personalità di avventuriero, di narcisista, di
rinnegato che abbiano conosciuto l’Italia e l’Europa: un «razziatore
avido di cose e di prede» ebbe a definirlo il pittore Orfeo Tamburi che
gli fu amico, uno dei pochi.
Grande giornalista, a 30 anni Malaparte ha diretto il quotidiano La Stampa;
è entrato nelle più sconvolgenti avventure del secolo: le due guerre
mondiali, la macchina stragista del nazismo, la nascita del comunismo
sovietico e di quello cinese, la conquista coloniale; ha scritto libri
di enorme successo che hanno ferito la sensibilità comune, da Tecnica del colpo di Stato a Kaputt a La pelle.
Non si notano che contraddizioni in Malaparte, uomo fragile dentro e
forte fuori, pronto a tutti i compromessi pur di ricavarne un vantaggio.
Lo si vede nei rapporti prima con Mussolini e con il grande protettore
Galeazzo Ciano, poi con Togliatti che riesce a sottrarlo alla legge
penale. Lo si vede ancora nello scontro con il senatore Giovanni
Agnelli, il nemico di una vita; oltre che nel turbinio degli amori mai
veramente profondi, mai passionali, spesso strumentali e decorativi: per
esempio con la misteriosa e sensuale «Flaminia», che ottiene da
Mussolini in persona il permesso di andare a trovare l’amante a Lipari,
oppure con Virginia Agnelli, considerata uno strumento per abbattere la
potenza del Senatore e impadronirsi della Fiat. Sullo sfondo c’è il bel
mondo italiano e parigino, c’è la vita nei giornali e nelle case
editrici, c’è il cosmopolitismo artistico e diplomatico. E c’è l’Italia
massacrata da un regime gonfio di retorica e di errori, protesa verso un
futuro che, caduto il fascismo, sembra promettere soltanto violenza e
vendette.
Curzio Malaparte, una vita all’inseguimento
Narratore geniale, cinico, a volte cialtrone, ribelle dalle mille maschere, imbattibile nell’interpretare a proprio vantaggio lo spirito dei tempi: Osvaldo Guerrieri lo racconta in forma di romanzo
Mario Baudino La Stampa 30 1 2015
Elegantissimo, seduttore, beffardo e anche bugiardo. Curzio Malaparte fu un uomo di enorme successo nell’Italia fascista ma anche nel primo dopoguerra, tra giornali e case editrici, tra salotti e politica, senza contare i campi di battaglia. Piero Gobetti lo definì «la più bella penna del fascismo» e, proprio da oppositore irriducibile, gli pubblicò nel ’25 Italia barbara, scrivendo poche righe in quanto editore, che cominciavano così: «Presento al mio pubblico il libro di un nemico».
Era l’uomo di Galeazzo Ciano ma fu corteggiato da Palmiro Togliatti, era l’arcifascista che si trovava meglio a Parigi che a Roma, che per beghe interne al partito si ritrovò al confino, che cantò le imprese belliche del Duce ma che pareva un po’ troppo intelligente per crederci davvero. Mille volti e uno spropositato talento. E mille maschere, che Osvaldo Guerrieri prova a sfilargli dal viso con l’unico strumento possibile: il romanzo. In Curzio (in uscita da Neri Pozza, pp. 319, € 17), usa la vasta documentazione che ci è rimasta e i libri soprattutto, da Tecnica del colpo di Stato a Kaputt allo scandaloso La pelle, e fa confluire un materiale contraddittorio in un ritratto che già dal titolo suggerisce la chiave di lettura, perché al di là delle avventure mirabolanti quel che si mette a fuoco è la nuda caratura umana del protagonista: è ciò significa indagare un personaggio che produce intorno a sé una continua proliferazione di maschere.
Solo il disegno d’insieme ne tradisce la cifra segreta: perché Malaparte (all’anagrafe Kurt Suckert, nato a Prato da un tintore tedesco e da un’italiana) incarna un prototipo dell’intellettuale italiano, una funzione dannunziana della nostra cultura che non è certo morta con lui. Persino i suoi «barbari», nati dalle esperienze e dalle suggestioni del primo squadrismo e del fascismo «sociale», sono ancora tra noi, cambiati di segno e di linguaggio.
Adelphi ne sta riproponendo i libri. È diventato un classico del Novecento. Ma che cos’è stata la sua vita? Nient’altro che un inseguimento, ci suggerisce Guerrieri. Nato nel ’98, morto a Roma nel 1957, di ritorno da un viaggio in Cina dove gli era stato diagnosticato il cancro fatale, fa in tempo giovanissimo ad arruolarsi volontario nella Grande Guerra, con i francesi, visto che l’Italia non è entrata ancora nel conflitto; a essere colpito dai gas nella battaglia di Bligny, quando i tedeschi sfondarono sulla Marna e poi ad assistere alla rotta di Caporetto che gli ispirerà il primo libro e il primo successo, Viva Caporetto, divenuto quasi subito La rivolta dei santi maledetti. Aderisce al fascismo, partecipa alla marcia su Roma, è tra quelli che all’indomani del delitto Matteotti invocano la dittatura; ma all’occasione flirta con gli oppositori. Dirige riviste, scrive per i giornali, arriva alla direzione della Stampa dove resterà molto poco, si scontra ripetutamente col senatore Agnelli, fondatore della Fiat, per ragioni professionali e in seguito private (visto che intende sposarne la nuora Virginia, vedova del figlio Edoardo); affronta processi e duelli, cade e ripetutamente rinasce.
Sembra animato da un’energia indomabile, è imbattibile nell’interpretare a proprio vantaggio lo spirito dei tempi. Si atteggia a ribelle, forse qualche volta lo è davvero. Certo, è uno scrittore ineguagliabile, a metà strada fra l’arcitaliano, per riprendere un termine coniato da Leo Longanesi, retorico e opportunista, e un dandy beffardo. Guerrieri lo mette in scena in memorabili istantanee: come quella che fissa uno dei momenti più turpi, quando in partenza per la Grecia accetta volentieri di scrivere un’inchiesta «vera» e simpatetica, da pubblicare, e mandare intanto al Minculpop dei reportage riservati, di segno opposto. Non discute. Risponde solo, a Ciano: «Chiarissimo, Galeazzo». Né discute con Togliatti, nel ’45, quando viene invitato a trasformarsi seduta stante in simpatizzante comunista. Semplicemente esegue.
Il Curzio di Guerrieri è un narratore geniale, sempre sorprendente, e un cinico non esente da cialtroneria. Sfiora la tragedia, muore da grand’uomo, ma resta arenato nella commedia italiana. L’autodefinizione migliore gli viene fatta pronunciare a Forte dei Marmi, quando gli è stato revocato il confino ma è ancora un sorvegliato speciale, anche se frequenta chi gli pare e soprattutto l’amico Ciano. «Sa cosa dicono qui di me?» confida a un’aristocratica amica. «Che sono un prigioniero molto raccomandato. Non saprei che cosa aggiungere».
Le mille maschere di Curzio L’ultimo dei dannunziani
Il ritratto romanzato di Guerrieri coglie
l’essenza del geniale scrittore toscano: narciso e pronto a tutto, ma
capace come nessuno di fiutare l’aria in anticipo
19 feb 2015 Libero PIER MARIO FASANOTTI
Quando passeggiava sulle spiagge di Lipari, Forte dei Marmi o Capri, era
completamente depilato e il suo corpo atletico e asciutto era cosparso
d’olio. Come un atleta dell’antica Olimpia. Curzio Malaparte,
l’intellettuale dandy di un fascismo che andava ora deridendo ora
ossequiando, è stato l’ultimo dannunziano, avvolto dall’incontenibile
piacere di essere se stesso. A guerra finita una giovane parigina lo
descrisse con poche ed efficaci parole: «Affascinante, certo. Ma non
simpatico. È un uomo sempre in posa, un uomo in maschera».
Grande affabulatore, colto, arguto, in controtendenza quando si trovava
all’estero, furbescamente irrispettoso quando non era lontano da Palazzo
Venezia, ha attraversato il Ventennio con passi felpati - non a caso il
suo vero sogno era di diventare ambasciatore - salvo, da irriducibile
toscano nato a Prato, mostrare scatti di nervi, idiosincrasie, snobismo,
orgoglio, senso di onnipotenza assieme alla sindrome dell’escluso,
marcata antipatia verso i gerarchi ignoranti, caricaturali. Pochi anni
dopo la marcia su Roma, comincia ad annusare i sintomi dello sfascio.
Eppure, malgrado certi schiaffi romagnoli, ha potuto contare su almeno
cinquemila lire al mese.
È il ritratto, stilisticamente superbo, del geniale vanesio, che compare
nel libro Curzio di Osvaldo Guerrieri ( Neri Pozza, pp. 318, euro 17).
L’autore racconta la sua vita di quest’animale da palcoscenico,
raffinatamente istrionico, a partire dal confino di Lipari. Su
quell’isola battuta dallo scirocco ce lo aveva mandato il Duce su
pressione di «Pizzo di ferro», alias Italo Balbo, impermalosito dopo una
scazzottatura verbale. A Regina Coeli per 55 notti, poi (a fine
novembre ’33) il confino per cinque anni. «Un inferno», commenta Curzio
che s’impigrisce anche perché non può mandare articoli ai giornali. E
lui, che di nome vero faceva Kurt Erich Suckert (cambiato dal ’25),
smaniava. Non riusciva nemmeno a completare il libro destinato
all’editore Grasset di Parigi. Curzio, con gli occhi da cinese e le
labbra da rettile, a Lipari era riverito dai suoi custodi. Di donne ne
ha finché vuole, ma lo annoiano subito: appiccicose. L’unico vero amico
il randagio che chiama Febo, «cane filosofico».
Mussolini lo fa spostare a Forte dei Marmi. Curzio rinasce. Un
pomeriggio è invitato in spiaggia dall’amico Galeazzo Ciano e da sua
moglie Edda, nevrotica figlia del mascellone. Si presenta, prima in
spiaggia e poi alla cena di gala in zoccoli e maglietta. L’esilio
finisce in anticipo. Scrive per il Corriere della Sera. Diventa poi il
più giovane (30 anni) direttore de La Stampa, che vuole trasformare
rendendola popolare anche tra gli operai della Fiat. A loro fornisce
pagine di sport e testimonianze di scioperi all’estero. In redazione sta
poco. Viaggia molto.
È Parigi la sua città ideale. Da Grasset pubblica Tecnica di un
colpo di stato. Un successo. Agnelli lo licenzia dopo un anno. In
Versilia corteggia Virginia, neovedova dell’erede Fiat, Edoardo. Vuole
sposarla. Il senatore s’oppone con tutti i mezzi facendo leva sui
nipoti. Virginia si arrende quando Curzio si pavoneggiava già come
futuro padrone del Lingotto.
Fonda la rivista Prospettive. Non potrebbe, ma fa conoscere agli
italiani scrittori stranieri. Mussolini chiude un occhio. Semmai si
irrita perché Malaparte ha criticato in pubblico le sue cravatte. Gli fa
una lavata di capo, ma Curzio, prima di uscire dallo studio, si gira e
gli dice: «Duce, anche quella che porta ora è orrenda». Va in Etiopia e
lì, come scrive Guerrieri, intuisce che la rivoluzione del ’22 «si è
liquefatta e ha generato un pantano». Fa l’eremita di lusso a Capri,
dove costruisce una villa di pietra e vetrate. La battezza «Casa come
me». Scoppia la guerra, destinata a passare «da una fanfara a una
catastrofe». Curzio passeggia per Napoli accanto agli alleati. Osserva
il sollievo dei partenopei, ma anche la loro degradante genuflessione
dinanzi ai liberatori. Lo riferirà ne La pelle (’49), secondo romanzo
dopo Kaputt (’44). È scrittore di razza.
Il nuovo problema è come adattarsi a un’Italia diversa. A Capri
riceve la visita di Togliatti, che recluta intellettuali, tra cui
Moravia e Vittorini. Curzio non rifiuta l’offerta di scrivere
sull’Unità. Rivolta nel Pci: viene allontanato. Alle perplessità di un
amico, Curzio controbatte: «Fascista io? Semmai ho usato il fascismo».
Avrà una rubrica su Il Tempo, poi passata a Pasolini. Scrive per il
cinema, considerandosi già ben superiore a Visconti e Rossellini. Nel
'57 va in Urss e in Cina, ma deve tornare presto per una malattia
polmonare. All’ultimo pare si sia avvicinato al cattolicesimo.
Ovviamente molti parlarono dell’ultima giravolta.