martedì 20 gennaio 2015
Una storia della Compagnia di Gesù
Risvolto
L'elezione
di papa Bergogiio, gesuita argentino, ha inevitabilmente riportato
all'attenzione l'ordine dei gesuiti. Il volume presenta una
documentatissima storia della Societas Jesu che ne abbraccia in un'unica
narrazione l'intera parabola, dalla vita e dall'opera del fondatore
Ignazio di Loyola fino alle più recenti vicende. Ordine influente e
combattuto, la società ebbe un ruolo rilevante nell'Europa fra Cinque e
Settecento, dandosi all'istruzione dell'élite, e fuori d'Europa a
un'intensa opera missionaria di cui è simbolo la fortuna del gesuita
Matteo Ricci in Cina. Soppressa nel 1773 e ricostituita nel 1814, la
società ha continuato a essere una realtà importante della Chiesa
soprattutto sul versante culturale, da ultimo e particolarmente in
America latina facendosi portatrice delle istanze di rinnovamento della
Chiesa postconciliare.
In un saggio edito dal Mulino Claudio Ferlan dimostra che nel Settecento l'ordine creato da Ignazio di Loyola non era in declino, ma papa Clemente XIV lo sciolse sotto la spinta di un'offensiva politica che durava da oltre un secolo
L’ora più buia per i gesuiti
La Compagnia venne soppressa nel 1773 anche per il suo impegno antischiavista
di Paolo Mieli Corriere 20.1.15
La Compagnia di Gesù fu soppressa il 21 luglio del 1773 da papa
Clemente XIV, al secolo Lorenzo Ganganelli, con il breve Dominus ac
Redemptor . Quando, quattro anni prima, papa Ganganelli era stato
eletto, qualcuno volle ricordare che quell’uomo — nato a Sant’Arcangelo
di Romagna e appassionato di cavalli — prima di diventare francescano
era stato buon amico dei seguaci di Sant’Ignazio. Ma il letterato
gesuita Giulio Cesare Cordara — storico ufficiale della Compagnia nonché
testimone diretto degli eventi — così ricordò l’atmosfera che avvolse
l’ascesa al soglio di Clemente: «Il popolo si rallegrò, la nobiltà si
stupì, gli eruditi si astennero dall’esprimere giudizi, i conventuali
trionfarono, soltanto i gesuiti si rattristarono sprofondando in un cupo
presentimento, perché sapevano che il Papa era totalmente di sentimenti
spagnoli». E la Spagna, quegli uomini della Compagnia — fondata nel
1534 da Ignazio di Loyola e riconosciuta nel 1540 da Paolo III con
l’intenzione di farne la punta di lancia della lotta contro Lutero — li
aveva cacciati già nel 1767 (dopo che lo stesso avevano fatto il
Portogallo nel 1759 e la Francia nel 1764). L’Austria si era poi
adeguata alla decisione di papa Clemente. Prussia e Russia, no. Lì,
soprattutto in Russia, i gesuiti sopravvissero fino al 1814, quando, al
tracollo di Napoleone Bonaparte, la Compagnia fu ricostituita ad opera
di Pio VII.
Nel frattempo papa Ganganelli era morto un anno dopo la soppressione
dell’ordine, nel 1774, e si era sparsa la voce (priva di alcun
fondamento) che fosse stato avvelenato da sicari ignaziani. L’ultimo
generale dell’ordine, Lorenzo Ricci, morì l’anno successivo, nel 1775,
mentre era ancora prigioniero a Castel Sant’Angelo. Il mondo illuminista
visse questi eventi come un trionfo della ragione sulla superstizione e
sull’oscurantismo, a danno di un ordine che già da tempo era in
declino. E come tali quei fatti e queste valutazioni si sono depositati
nei testi di storia.
Ma adesso — in un libro che sta per essere pubblicato dal Mulino, I
gesuiti — Claudio Ferlan approfondisce le remote cause della decisione
di Clemente XIV e giunge alla conclusione che «l’immagine del declino
sia piuttosto stata costruita a posteriori, al fine di trovare una
spiegazione alla soppressione del 1773». Declino? In Francia, ricorda
Ferlan, «i padri della Compagnia avevano ricoperto il ruolo di
consiglieri dei re dalla fine del Cinquecento e lo avrebbero mantenuto
fino alla dissoluzione». In questo lungo periodo «i loro collegi furono
luoghi privilegiati per la formazione di buona parte delle élite
nazionali, culturali e politiche». Ad esempio, frequentarono il Collegio
Louis-le-Grand Molière, Voltaire, Diderot e Robespierre; in quello di
La Flèche studiò Cartesio. Luigi XIV, scrive Ferlan, «aveva riposto una
notevole fiducia nei confronti di due ignaziani, François Annat e
François de La Chaize, scegliendoli come confessori». Inoltre alcuni
professori del Collegio Louis-le-Grand pubblicarono tra il 1701 e il
1762 l’importantissimo mensile «Mémoires pour l’Histoire des Sciences et
des Beaux-Arts» (noto come «Journal de Trévoux» dal nome della località
della Borgogna in cui aveva sede la sua stamperia), che raggiunse
l’obiettivo di mettere a disposizione di chiunque fosse interessato
dettagliati commenti sulle principali opere che erano state pubblicate
nella prima metà del Settecento .
La verità è che la guerra ai gesuiti era iniziata e si era sviluppata
già un secolo prima in un altro continente, l’America Latina. In ragione
della loro ostilità alla schiavismo. Come hanno ben documentato Jean
Andreau e Raymond Descat in Gli schiavi nel mondo greco e romano (Il
Mulino) «è nel corso dell’alto Medioevo che si sono prodotti i
cambiamenti più importanti e che si è definitivamente usciti, in Europa
occidentale, dalla società schiavista». E la Chiesa, scrive Rodney Stark
in A gloria di Dio (Lindau), è stata in prima fila nella battaglia
contro la schiavitù. Lo fu ai tempi di Carlo Magno. Nel IX secolo con il
vescovo Agobardo di Lione. Nell’XI con Sant’Anselmo. Nel XIII con
Tommaso d’Aquino. Nel 1435 con papa Eugenio IV. E lo fu soprattutto
quando il tema degli schiavi riemerse nel nostro continente dopo la
scoperta dell’America. Il 2 giugno 1537, papa Paolo III emanò la bolla
Veritas Ipsa (nota anche come Sublimis Deus ) nella quale minacciò di
scomunica coloro che avessero ridotto in schiavitù i nativi. Nel 1639,
Urbano VIII con la bolla Commissum nobis avrebbe ribadito le posizioni
di Paolo III. La Chiesa riuscì anche a influenzare l’imperatore Carlo V,
il quale nel 1542 promulgò le «Leyes Nuevas», che vietavano di ridurre
gli indigeni a schiavi nelle regioni spagnole del Nuovo Mondo. In quello
stesso periodo, vescovi locali riuscirono a far accettare alla corte
spagnola il «Código Negro Español» che mitigava le condizioni dei primi
africani trasportati in Brasile dai negrieri. Fu in quell’epoca che i
gesuiti iniziarono a costruire i primi insediamenti, le «missioni», per
dedicarsi all’evangelizzazione degli indios guaraní. Ma all’inizio del
Seicento i coloni bianchi presero a organizzare delle bandeiras , vere e
proprie spedizioni per catturare indios da ridurre in schiavitù. Fu in
questa fase che alcuni gesuiti con un passato militare (Juan Cardenas,
Antonio Bernal, Domingo Torres) aiutarono i guaraní a formare un vero e
proprio esercito per resistere alle incursioni dei bandeirantes . L’11
marzo 1641 le due milizie si trovarono di fronte una all’altra nella
battaglia del fiume Mbororé e i bandeirantes , in massima parte
portoghesi, ebbero la peggio.
A questo punto i gesuiti costruirono sulle missioni qualcosa che
assomigliava ad una grande Repubblica cristiana. Tali istituzioni,
scrive Ferlan, si localizzarono nella provincia del Paraguay, un
territorio molto più vasto di quello occupato dall’omonima repubblica
contemporanea, che comprendeva zone appartenenti oggi anche ad
Argentina, Brasile e Uruguay. Fu così che nelle città schiaviste in mano
ai portoghesi le missioni divennero assai impopolari. «Quando, a Rio de
Janeiro, i gesuiti lessero pubblicamente una bolla papale contro la
schiavitù», riferisce Stark, «una folla inferocita attaccò il loro
collegio e ferì molti sacerdoti… Quando poi un tentativo analogo di
pubblicizzare la condanna papale della schiavitù venne fatto a Santos, i
gesuiti furono espulsi dal Brasile». Ma procediamo con ordine.
Entra in scena qui Gabriele Malagrida, un gesuita nato a Menaggio sul
lago di Como alla fine del Seicento. Nel 1721, Malagrida ottiene di
essere inviato come missionario in Sudamerica, nello Stato del Maranhão
sotto il controllo della corona portoghese. Qui si batte con decisione
contro la schiavitù, si fa una fama immensa e gli vengono addirittura
attribuiti miracoli. Nel 1749 il re del Portogallo, Giovanni V, lo vuole
a Lisbona perché gli faccia da padre spirituale. Lo ammira, gli è
devoto, così come sua moglie, Maria Anna d’Austria. Di lì a poco, però,
Giovanni muore (1750) e suo figlio, Giuseppe I, nomina Malagrida
consigliere per i possedimenti d’oltremare e lo rispedisce in Brasile.
Giuseppe chiama al suo fianco, come primo ministro, Sebastião José de
Carvalho, marchese di Pombal. E fu su una nave di Stato che, assieme al
fratello del Pombal, nominato governatore del Maranhão, Malagrida fece
ritorno in Brasile. Durante il viaggio i due non si piacquero, da quel
momento i loro rapporti furono sempre più tesi e tali restarono al tempo
del loro soggiorno in terra brasiliana. Nel frattempo il Pombal a
Lisbona varava una serie di provvedimenti antigesuitici, «preceduti»,
scrive Ferlan, «da un’articolata campagna diffamatoria alimentata da
libelli accusatori pubblicati e diffusi in buona parte d’Europa proprio
con il sostegno del primo ministro portoghese». E quando, nel 1753,
Malagrida decide di tornare in Portogallo, l’accoglienza è ben diversa
da quella che gli aveva riservato Giovanni V: il gesuita taumaturgo
viene esiliato a Setúbal.
Nel 1755, Lisbona è sconvolta da un terremoto: le vittime sono decine di
migliaia, la città è distrutta quasi per intero. Fu allora, ha scritto
il gesuita Guido Sommavilla in La compagnia di Gesù (Rizzoli), «che quel
santuomo di Malagrida, e ci dispiace tanto, sbagliò, dando luogo ad una
tipica controversia oscurantistico-illuministica, nientemeno che tra
lui e Pombal in persona». Predicò nelle chiese superstiti e nei campi
dei rifugiati che il sisma era un castigo di Dio sulla città peccatrice.
Gli illuministi lo presero a bersaglio, facendone l’emblema di una
Chiesa oscurantista e superstiziosa. Quel mondo illuminista che, ha
fatto notare Stark, era stato indifferente alla battaglia antischiavista
di Malagrida, e anzi da John Locke a Voltaire, da David Hume a Denis
Diderot, aveva accettato la schiavitù, quando non aveva addirittura
«investito i propri risparmi nel commercio degli schiavi».
Pombal — che per molti degli illuministi di cui sopra era ora un
politico di riferimento — ritenne fosse venuta l’ora di mettere i
gesuiti fuori gioco. Li fece indicare come responsabili di un’agitazione
di viticoltori ad Oporto. Fece insinuare all’orecchio del Papa che
fossero dediti alla «mercatura». Benedetto XIV abboccò all’amo, mandò un
visitatore pontificio a compiere indagini e subito dopo morirono
all’improvviso sia il Papa che il patriarca di Lisbona. In un attimo si
diffuse la voce che entrambi fossero stati «avvelenati dai gesuiti»,
registra Sommavilla, puntualizzando che si trattava di dicerie senza
fondamento. Ma il 3 settembre 1758 accadde qualcosa di decisivo. Quel
giorno si registrò un attentato (fallito) a Giuseppe I. Ne nacquero
innumerevoli mormorii e, scrive Ferlan, «ci fu con ogni probabilità lo
zampino del primo ministro Pombal nel diffondersi in tutta Lisbona della
notizia che i gesuiti fossero seriamente coinvolti nel complotto».
Molti gesuiti furono tratti in arresto. Tra loro, Malagrida. Che rimase
in carcere anche quando molti suoi confratelli furono rimessi in
libertà. Ciò che avvenne dopo la scoperta che la congiura era stata
organizzata dalla famiglia dei marchesi di Tavora. Malagrida, che
all’epoca dei fatti aveva settant’anni, venne addirittura accusato,
sottolinea Ferlan, di aver «sedotto l’attempata marchesa di Tavora». E
fu mandato al rogo, come eretico e ciarlatano, il 21 settembre 1761.
Nel frattempo, due anni prima, Giuseppe I aveva firmato un decreto di
espulsione dei gesuiti dal Portogallo. Così Sommavilla ne ha descritto
l’esodo: «I seguaci di Sant’Ignazio furono subito arrestati, imbarcati e
gettati sulla spiaggia di Centocelle (Civitavecchia) nello Stato
pontificio. La stessa sorte toccherà poi, a ondate, agli altri in tutto
l’impero portoghese. Da Macao, India, Africa, Brasile, i gesuiti,
portoghesi e non, furono stivati dentro navi, condotti a Lisbona e
incarcerati. Durante la navigazione i morti furono almeno un centinaio».
Rispetto a quelli che erano stati mandati a Centocelle, molti di loro
«ebbero una sorte ben più atroce, quella di marcire (è la parola) nelle
carceri di San Giuliano alle foci del Tago o della cittadina di Azeitão,
vere camere di tortura». Ancor oggi non si conosce il numero esatto di
quanti furono quei sepolti vivi (forse trecento). Si sa unicamente che
ne sopravvissero quarantacinque. Solo quarantacinque.
Poi fu la volta della Francia a seguito del «caso Lavallette». Il
gesuita Antoine Lavallette, a metà Settecento, si impegnò in affari per
risolvere una crisi economica della sua missione. Il generale
dell’ordine, Ignazio Visconti, gli impose di cessare quelle attività, ma
Lavallette ignorò la disposizione. Non si trattava certo di un
comportamento riconducibile al criterio della «obbedienza negoziata»,
osserva Ferlan, ma di «disobbedienza vera e propria». Finché Lavallette
finì in bancarotta, e poco tempo dopo, nel 1762, fu costretto a lasciare
la Compagnia. Trascorsero due anni e Luigi XV che, in cambio del
ripianamento del debito, avrebbe voluto il riconoscimento
dell’indipendenza della Chiesa nazionale, il 26 novembre 1764 abolì
l’ordine nel territorio francese. E fu il momento della scelta: gran
parte dei gesuiti francesi scelse l’esilio, alcuni abiurarono. Tra loro
quel Lavallette che era stato all’origine dell’incidente .
Infine fu la volta della Spagna di Carlo III. Qui il casus belli fu una
sommossa popolare contro il ministro riformatore siciliano Leopoldo de
Gregorio, marchese di Squillace. Il re affidò al ministro Pedro
Rodriguez de Campomanes il compito di indagare sull’origine di quei moti
e Campomanes raccolse una serie di «presunte evidenze» che conducevano
ai seguaci di Sant’Ignazio. Il 3 aprile del 1767 anche la Spagna espulse
i suoi cinquemila gesuiti. Seguita, quello stesso anno, dal Regno di
Napoli e, nel successivo, dal Ducato di Parma. Papa Clemente XIII, a cui
fu chiesta una bolla di soppressione universale, disse che si sarebbe
tagliato una mano piuttosto che concederla. Ma di lì a breve, nel 1773,
il suo successore, Clemente XIV, dopo aver tergiversato per quattro
anni, acconsentì. Il generale dei gesuiti, Lorenzo Ricci, fu rinchiuso a
Castel Sant’Angelo dove morì nel 1775. Non al rogo come Malagrida, ma
pur sempre in carcere. E lo schiavismo poté imperversare fino al secolo
successivo.
Un’istituzione religiosa dotata di prestigio e forte influenzaCorriere 20.1.15
Sarà disponibile in libreria dal prossimo 12 marzo il saggio di Claudio
Ferlan I gesuiti , edito dal Mulino (pagine 210, e 13). Ferlan, nato a
Gorizia nel 1972, lavora come ricercatore a Trento presso la Fondazione
Bruno Kessler - Istituto storico italo-germanico. Un altro libro
importante sulla storia dei gesuiti è La compagnia di Gesù di Guido
Sommavilla, pubblicato da Rizzoli nel 1985 con una prefazione del
cardinale Carlo Maria Martini. Sul tema del rapporto tra cristianesimo e
schiavitù fornisce indicazioni utili il saggio di Jean Andreau e
Raymond Descat Gli schiavi nel mondo greco e romano , edito dal Mulino
nel 2009 e ristampato nel 2014 (traduzione di Raffaella Biundo, pagine
248, e 13). La questione è trattata anche nel saggio dello studioso
americano Rodney Stark A gloria di Dio , pubblicato in Italia nel 2011
dalla casa editrice Lindau di Torino.
Lo stile gesuita Ecco chi ha ispirato Bergoglio
di Giovanni Santambrogio Il Sole 29.3.15
Chi legge un testo sui gesuiti si pone oggi domande nuove. Al
tradizionale interesse per un ordine battagliero e controverso, dalla
storia contrastata – fu soppresso da Papa Clemente XIV nel 1773 e
riammesso nel 1814 da Pio VII – e non priva di misteri con veri o
fantasiosi complotti, si aggiunge ora la curiosità di capire Jorge Mario
Bergoglio, il primo Papa gesuita da due anni al governo della Chiesa.
Che indicazioni offre la storia della Compagnia di Gesù, fondata nel
1540 dal basco Ignazio di Loyola, per comprendere la personalità di
Francesco, il suo stile pastorale nonché la sua impostazione spirituale?
Dal saggio di Claudio Ferlan, appena edito da il Mulino, si ricavano
utili informazioni che possono diventare chiavi di lettura dei
comportamenti di Bergoglio. Il libro – frutto di un approfondito lavoro
di scavo nella ricca documentazione disponibile – mette in evidenza con
piacevolezza narrativa la personalità di Loyola e dei suoi fedelissimi
tra i quali Pierre Favre e Francesco Saverio; racconta l’avventura
dell’ordine presto divenuto un valido aiuto per il Papato. Il testo di
sant’Ignazio, gli Esercizi spirituali stampato nel 1548, accompagna da
sempre l’essere gesuita, ne è il fondamento della vocazione e la fonte
di formazione continua.
Jeronimo Nadal, uno dei primi seguaci riassume in un enunciato lo stile
del gesuita: «Agire con il cuore, con lo spirito e con la pratica». Il
volume di Ferlan, diviso in sei sezioni, mette in luce tre grandi
stagioni della Compagnia: la fondazione, la rinascita (1814), l’identità
rinnovata (1945-2013). Nella prima e nella terza si rintracciano le
fonti ispiratrici del pensiero e della personalità di Bergoglio. Come
non vedere nelle scelte del giovane Ignazio – il vivere d’elemosina, la
pratica della misericordia corporale, la catechesi di strada –
l’insistente richiamo di Francesco alle periferie, alla condivisione con
chi soffre, all’equità, alla condanna del denaro come mezzo di potere?
La stessa proclamazione dell’anno giubilare straordinario, con a tema la
misericordia, ricorda gli ideali ignaziani e la spinta missionaria che
subito caratterizzarono l’ordine. Francesco Saverio diventerà il
testimone dell’apertura al mondo e della evangelizzazione oltre i
confini della vecchia Europa: opererà in India, si spingerà fino alle
Molucche e al Giappone, morirà con il desiderio irrealizzato di sbarcare
in Cina che sarà invece teatro dell’apostolato di Matteo Ricci alla
fine del Cinquecento.
Nella stagione della “Terza Compagnia”, quella che inizia con il
Vaticano II e vede l’elezione a generale di Pedro Arrupe, figura
complessa e discussa, prende avvio una sensibile trasformazione
dell’identità dell’ordine ignaziano che pone al centro il rinnovamento
delle strutture interne, la formazione culturale dei giovani, la vita
spirituale. Bergoglio vive questo tempo nel luogo più esposto della
Compagnia, l’America Latina della teologia della liberazione, mantenendo
vivi gli ideali ignaziani rispetto alle derive politiche e alla
militanza d’ispirazione marxista. La sua elezione, a sorpresa per gli
stessi gesuiti, apre un nuovo e imprevedibile capitolo tutto da
scoprire.
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