mercoledì 28 gennaio 2015

Università allo sbando: cacca stellare, auto-cacca rettorale e tanta ipocrisia

Pivato è stato Rettore a Urbino per molti anni. Nel mio minuscolo ho contribuito a eleggerlo, investendo in lui grandi speranze di rinnovamento (ero rappresentante dei ricercatori nel Cda dell'Università) e una buona dose di amicizia.
Ho imparato presto però, sulla mia pelle, che la differenza tra un Barone conservatore e un Barone Rosso è sostanzialmente questa: quando ti incula, il Barone Rosso  vuole anche sentirsi dire grazie, perché lui è convinto di essere sinceramente democratico e ti sta beneficando.

Molto interno al sistema di potere PD (è stato assessore a Rimini), Pivato ha esordito con grandi proclami di trasparenza e partecipazione ma poi si è circondato di yesmen e chi osava criticare era fuori. Nel concreto, ha boicottato la protesta dei ricercatori contro la Legge Gelmini sostituendo tutti coloro che avevano rinunciato agli incarichi di insegnamento, ha applicato la controriforma con zelo impareggiabile prorogando se stesso e blindando un Cda onnipotente, ha trasformato l'Università di Urbino nel dormitorio della Celere di Senigallia con l'obiettivo di stroncare con la repressione il movimento studentesco.
Il fatto che per soddisfare l'aspirazione legittima a veder promosso il proprio libro si presti adesso a lasciarsi coinvolgere nel giochino di Gian Antonio Stella, uno dei principali promotori della campagna contro l'Università e la scuola pubblica, ne fa il Perotti del 2015.

Certamente io provo delusione nei suoi confronti e qualche scienziato benriuscito direbbe che sono "rancoroso". Tuttavia, quando Pivato ha scritto libri interessanti li ho segnalati in questo blog come tali. In questo caso, invece, davvero bisognerebbe imparare la decenza - appunto - di tacere.

Tutte queste cose lui le sa e sono pronto a ripetergliele [SGA].


Responsive imageStefano Pivato: Al limite della docenza. Piccola antropologia del professore universitario, Donzelli

Risvolto
«Coinvolta in scandali di vario genere, l’università è, da tempo, sotto scacco. C’è però da chiedersi fino a che punto sia utile e produttivo reagire scompostamente e non piuttosto avviare una profonda autocritica che coinvolga prima di tutto una serie di attitudini e comportamenti che potremmo definire “ai limiti della decenza”».
Il quaranta per cento di quanti si iscrivono all’università italiana non arriva a concludere il corso di laurea. Si tratta di una mortalità che non ha riscontri in altri paesi. Le cause invocate per spiegare questa anomalia sono molteplici: ci sono quanti chiamano in causa la mancanza di orientamento fornito dalle scuole superiori, e quanti invocano invece le scelte sbagliate degli studenti. Nessuno ha mai indagato, neppure in forma interrogativa, le eventuali responsabilità dei docenti universitari e la loro scarsa inclinazione alla «missione» didattica. La lezione di don Lorenzo Milani non sembra aver fatto breccia nelle aule universitarie. Ad accrescere la distanza nel rapporto fra docenti e studenti è anche la particolare mentalità del professore universitario. Se Claude Lévi-Strauss resuscitasse, avrebbe non poca materia per aggiornare il suo Pensiero selvaggio senza bisogno di inseguire i miti di terre lontane ma concentrando la sua attenzione sulla composita umanità del mondo accademico. Il volume di Stefano Pivato ne analizza nevrosi, tic e comportamenti nel tentativo di delineare una vera e propria antropologia del docente universitario italiano. Ne emerge il ritratto di una tribù alla quale è demandato il compito di preparare la classe dirigente del futuro. Un pamphlet dettato, dunque, dalla consapevolezza che un diverso atteggiamento dei docenti è preliminare al varo di una qualunque riforma. Pagine militanti che intendono salvaguardare quella parte di università che riesce, in maniera spesso miracolistica, a produrre eccellenti prodotti di ricerca e a preparare in maniera adeguata gli studenti. Un atto di denuncia e, al tempo stesso, un gesto d’amore nei confronti dell’istituzione universitaria e di uno dei mestieri più belli del mondo.
Narcisismo e cecità dei baroni uccidono l’università italiana

Autoreferenzialità, fobia digitale, concorsi «adattati»: è l’Italia che non vuole cambiare

di Gian Antonio Stella Corriere 28.1.15
«Mio padre era un professore universitario, ragion per cui aveva le abitudini tipiche dei professori universitari. Guardava tutti dall’alto in basso, non scendeva mai dalla cattedra, neanche in famiglia. Era una cosa che non sopportavo fin da quando ero bambino».

Tranquilli: l’ingombrante genitore del nostro scrittore non era senese, non era barese, non era bresciano e neppure foggiano o trentino. La testimonianza, infatti, è di Haruki Murakami, uno dei più celebri romanzieri giapponesi. Tutto il mondo è paese? Ma certo. Esiste tuttavia un Homo academicus specificatamente italiano. Al punto che Stefano Pivato, docente di Storia contemporanea a Urbino dove è stato anche rettore, autore di libri deliziosi a cavallo fra storia e costume come Vuoti di memoria , Il secolo del rumore , Il nome e la storia , ha deciso di dedicare a questa specie umana un feroce e divertito pamphlet.

Si intitola Al limite della docenza. Piccola antropologia del professore universitario , è edito da Donzelli, e dimostra che non sempre, come dice il vecchio adagio, cane non morde cane. In questo caso prof. morde prof. e rettore morde rettore. Come quello che, «magnifico di un’università del Nord in carica da ventotto anni» si levò furente all’assemblea della Crui dell’ottobre 2010 scuotendo i colleghi con parole di fuoco contro il limite di sei anni ai rettorati eterni voluto da Mariastella Gelmini e contro l’introduzione del codice etico. «L’etica si pratica, non si legifera!» Boooom!

C’era il pienone quel giorno, alla conferenza dei rettori. Troppo spesso però, secondo Pivato, l’ Homo academicus italicus somiglia a quel Bernardino Lamis protagonista d’una novella di Pirandello «descritto mentre tiene la sua “formidabile” lezione. Il docente è “infervorato” a tal punto che solo alla fine si accorge di aver parlato a un’aula priva di studenti».

L’ex rettore ne è certo: «Coinvolta in scandali di vario genere, l’università è, da tempo, sotto scacco. C’è però da chiedersi fino a che punto sia utile e produttivo reagire scompostamente e non piuttosto avviare una profonda autocritica che coinvolga prima di tutto una serie di attitudini». Come l’autoreferenzialità. Due che s’incrociano dicono: «Come stai?». Al contrario, «una certa tipologia di docente ha l’abitudine di salutarti con una formula piuttosto diffusa nell’ambiente universitario e, stringendoti la mano, senza chiederti nulla, ti dice “come sto io”. Insomma parla unicamente di se stesso».

E tutto va di conseguenza: «Il professore “come sto io?” se riceve da un amico o un collega un libro, calibra il suo entusiasmo dal numero delle citazioni che ha ottenuto nell’indice dei nomi». E «non parte mai dai problemi universitari, che riguardano in particolare gli studenti e attengono alla diffusione del sapere. Ma dai “suoi” problemi. Che sono al centro del mondo». E mosso da «uno smisurato ego», pubblica libri che non vende a nessuno, ma se lo incrociate «vi dice subito che il libro è giunto già alla terza o quarta edizione, e magari che sta entrando in classifica, pronto a scalzare i best sellers di Camilleri…».

Di più: «Spesso l’importanza del volume è sottolineata dal numero delle pagine che il docente “come sto io” mima allargando a dismisura le mani per darti l’idea del “tomone” che ha pubblicato. Come se l’importanza di un libro si misurasse a chili». E naturalmente il libro «fa giustizia di tutte le teorie e le ipotesi precedenti».
E se la grafomania fosse sfogata negli ebook? Ma per carità! «Un buon numero d’insegnanti, soprattutto quelli delle discipline umanistiche, non ha ancora dimestichezza con gli strumenti digitali. Anzi, oppone loro un vero e proprio rifiuto. La motivazione più ricorrente è quella che la scrittura con carta e penna riveste un fascino d’ antan che non può contaminarsi con la modernità». E per di più non sarebbero più possibili certi trucchetti per imporre l’adozione del proprio tomo agli studenti. Come quello di un docente che, per evitare che gli allievi si passassero i libri usati, ha fatto stampare il suo con un’accortezza: «L’ultima parte era costituita da una serie di pagine con domande ed esercizi che lo studente doveva compilare a penna e quindi staccare e consegnare al professore per la verifica. In questo modo, terminato l’esame, il testo, mancante della parte finale, non era più utilizzabile».
C’è chi dirà: «Uffa! Veleni». No: come giustamente recita la fascetta, quello di Pivato è un pamphlet malizioso, irridente ma tremendamente serio. Che getta sale sulle piaghe di un sistema universitario troppo spesso ostile a ogni riforma. Legato a riti e reverenze ampollose verso il Chiarissimo, l’Amplissimo, il Magnifico… Dove il rettore d’un ateneo privato al Nord può essere contemporaneamente il «magnifico» in «un’altra università del Sud a circa millecinquecento chilometri di distanza». Dove «il camaleontismo del professore mostra incredibili doti di adattamento ai meccanismi concorsuali» e l’imperativo è taroccare de Coubertin: «L’importante è partecipare ma soprattutto vincere».
Insomma, un luogo chiuso dove «i codici etici concretamente adottati dalle università affrontano tendenzialmente tutti i temi, ma per lo più in modo astratto». Dove esattamente al contrario che nei grandi atenei internazionali che sono un viavai di eccellenze, lo jus loci , il radicamento vita natural durante nel cantuccio della propria facoltà, «costituisce una delle regole più ferree». Dove le ore obbligatorie di lezione sono al massimo 120 l’anno contro le 192 in Francia, le 279 in Baviera, le 252 (ma fino a 360) in Spagna, le 240 in Gran Bretagna…
Abbiamo scommesso: c’è chi liquiderà il pamphlet, frutto di un grande amore ammaccato per l’università, come uno sfogo brillante ma fatto di mezze verità. E sbufferà: ma come, uno dei nostri che offre munizioni ai nostri nemici! Vadano a rileggersi Curzio Malaparte e la sua idea del patriottismo: «Un popolo sano e libero, se ama la pulizia, i panni sporchi se li lava in piazza».

“Lauree facili non fidatevi degli atenei web” 

Pochi professori di ruolo e molti crediti per gli studenti. L’Anvur fa luce sulle pratiche disinvolte di alcune università telematiche Ecco il dossier in anteprima

SIMONETTA FIORI Repubblica 28 1 2015
ILDOSSIERè quasi pronto, i grafici si vanno accumulando sulle scrivanie insieme alle singolari percentuali. No, così non va, continuano a ripetere all’Anvur, l’agenzia addetta alla valutazione dell’accademia. La lente d’ingrandimento si concentra sulle undici università telematiche private, nate in Italia nell’ultimo decennio. La prima schermata è sui professori: con rare eccezioni sono pochi, pochissimi, quelli di ruolo. E il numero complessivo è troppo basso rispetto alla popolazione studentesca. Ecco una nuova schermata sui crediti formativi, concessi all’ingresso: in alcuni atenei appaiono molto alti, com’è possibile?


Passiamo alle rette: ma quanto costa laurearsi presso un ateneo online? I dati appaiono incerti, da approfondire. E se sul sito di una qualsiasi università privata bastano cinque minuti per farsi un’idea, le cose si complicano in quello di una telematica. «Le università dovrebbero mandare le informazioni al Cineca, ma non tutte lo fanno», dice il presidente dell’Anvur, Stefano Fantoni. Così può succedere che alcune di loro, negli ultimi cinque anni, abbiano omesso di mandare notizia della propria attività. Senza suscitare scandalo. E qui sta il nodo più grande, da cui occorre partire. Quella delle università a distanza sembra una formidabile zona franca, protetta da efficientissimi uffici legali — «più avvocati che professori», scherzano all’Anvur — e da un sostanziale disinteresse da parte del Miur, che produce una gran quantità di relazioni senza alcuna conseguenza concreta. «Noi vorremmo correggere questa cattiva immagine delle telematiche », interviene Fantoni. «E l’unico modo per farlo è sottoporle a un controllo rigoroso per poi fissare regole certe. Se noi dobbiamo accreditare un’auto, bisogna pur sempre che abbia quattro ruote. Tre non bastano».

Quello dell’apprendimento lungo l’intero arco della vita (Long Life Learning) è uno degli obiettivi nobili fissati dall’Unione Europea. Il problema è come realizzarlo. In Italia le origini delle università a distanza appaiono confuse, inficiate anche dal sospetto che l’allora ministro Moratti abbia voluto fare un piacere a Silvio Berlusconi, legato da amicizia al proprietario del Cepu. Tra il 2004 e il 2006 è la stagione della grande fioritura degli atenei online, sull’onda di una convulsa produzione legislativa e in assenza di parametri certi. Una realtà parallela a quella delle università tradizionali su cui oggi l’Anvur vuole fare luce.

Tutte eguali, le telematiche? Non proprio. Alcuni atenei sono stati fondati da imprenditori già titolari di istituti per il recupero universitario. È il caso della eCampus, il cui proprietario Francesco Polidori è il titolare del Cepu. Ha un’origine analoga l’Unicusano di Stefano Bandecchi, ex parà simpatizzante del Movimento Sociale e grande sostenitore di Alemanno nelle elezioni del 2013. E così l’ateneo Pegaso di Napoli, fondato da Daniele Iervolino, titolare di una nota catena di istituti di recupero scolastico. L’associazione tra «ateneo» e «recupero » ha sollevato molte perplessità dentro il Miur, specie sotto la gestione del ministro Carrozza, ma la critica è rimasta senza esito. Al contrario, sono quelle stesse università — Pegaso, eCampus, Unicusano — ad aver allargato nell’estate del 2013 il numero dei corsi grazie alle sentenze favorevoli del Tar che hanno annullato un originario divieto dell’Anvur. Oggi Pegaso vanta 9 corsi di laurea e 59 master. ECampus 5 facoltà e 22 indirizzi di studio. Unicusano 6 aree didattiche e 13 corsi di laurea. Alcune di loro esibiscono anche nomi illustri. Pegaso, ad esempio, annovera tra i suoi docenti Giuseppe Tesauro, ex presidente della Corte Costituzionale. E nell’autunno scorso ha ospitato una lectio magistralis di Romano Prodi.

Quali sono gli aspetti su cui l’Anvur vuole vedere più chiaro? «Intanto la questione delle matricole », spiega Fantoni. «Quelle delle università telematiche appaiono sempre molto basse. Se nelle università tradizionali le matricole superano il 60 per cento sul totale dei nuovi ingressi, in quelle online raramente oltrepassano il 30 per cento». Questo si spiega anche con la natura particolare di questi istituti, che raccolgono studenti che erano stati iscritti in passato all’università, persone che vogliono riprendere studi interrotti (nome tecnico: “carriere successive”). Ma il dato che sorprende è che negli atenei telematici tra il 2008 e il 2010 il numero dei nuovi ingressi raddoppia da 8.975 a 17.926 studenti. L’aumento più forte si registra a Unicusano (più 2.800 studenti), Uninettuno (più 2.750) e Pegaso (più 1.500). Perché concentrarsi su queste cifre? Il numero dei professori è fissato sulla base del numero delle matricole, non della totalità degli studenti. Poche matricole vuol dire pochi docenti. «Ora l’obiettivo è aiutare il ministero a cambiare la norma: non più tot professori per tot matricole, ma tot professori per tot nuovi ingressi. In modo da garantire maggiore serietà ai corsi».

In alcuni atenei online il rapporto tra docenti e studenti risulta sproporzionato. L’Anvur calcola che a un docente di ruolo dell’ateneo Pegaso corrispondono 986 studenti, alla Uninettuno il rapporto è un professore per 550 allievi, alla eCampus uno per 334. «Diranno che si avvalgono dei tutor. Ma chi sono questi tutor? An- che qui occorre una verifica». La composizione del corpo docente è un altro nervo scoperto. Con la sola punta avanzata dell’Unitelma Sapienza (emanazione dell’omonima Università) dove l’80 per cento sono professori di ruolo, nella media delle telematiche i docenti di ruolo sono sotto quota 30 per cento. Il corpo degli insegnanti è generalmente composto da figure come lo «straordinario a tempo determinato», soprattutto presso Uninettuno (67,1 per cento), Giustino Fortunato (40 per cento), Pegaso (31,6 per cento): lo «straordinario » può essere un bravo professore in pensione ma anche un incompetente, comunque una persona che non è stata mai selezionata con un concorso. Oppure si ricorre ai «ricercatori a tempo determinato » — il 77,3 per cento alla San Raffaele, il 64,3 per cento alla eCampus, il 61,4 per cento alla Pegaso — figure più deboli e dunque più ricattabili. «L’abuso di personale a tempo determinato impedisce anche la continuità della programmazione», commenta Fantoni. Un altro capitolo assai critico riguarda i crediti formativi. Per anni gli studenti-lavoratori hanno beneficiato di crediti concessi dalle università sulla base degli accordi con gli ordini professionali (giornalisti, carabinieri, poliziotti, anche dipendenti pubblici). Con lo slogan di «laureare l’esperienza », bastavano pochi esami per ottenere il diploma. Il ministro Mussi decise di mettere fine a questo scambio, fino a una legge del 2010 che fissa a 12 per ciascuno il tetto massimo di crediti. Per le telematiche, una scos- sa tellurica: il primo anno accademico successivo alla norma restrittiva (2011-2012) mostra un calo di crediti e l’anno successivo ancora un conseguente calo degli iscritti (con qualche eccezione). Come rimediarvi? Le tabelle di quello stesso anno mostrano un aumento dei crediti (maturati questa volta non sul lavoro ma sui precedenti esami) nella laurea magistrale a ciclo unico di Giurisprudenza, con beneficio per le iscrizioni che nell’anno 2013-2014 soprattutto in alcuni atenei mostrano una straordinaria ripresa (127 crediti in media nelle telematiche contro i 21,1 rilasciati dalle università tradizionali). Come è stato possibile? All’Anvur ipotizzano che in queste università sia cambiato il bacino di utenza, coltivato tra i numerosi studenti già iscritti ad una università e allettati da una laurea in Legge più leggera, favorita dai molti crediti. «Vorremmo capire su quali basi questi crediti vengono concessi », dice Fantoni.
Ora le telematiche dovranno risponderne all’Agenzia della valutazione, sempre che il ministero mantenga la volontà di far luce. «Dopo che avremo fatto la fotografia e proposto le nostre correzioni toccherà al Miur intervenire », conclude il presidente dell’Anvur. Ma non c’è il rischio che nulla cambi, come sempre è accaduto? «Speriamo di no», allarga le braccia il professore, tra i maggiori fisici nucleari italiani apprezzati nella scena internazionale. Secondo una voce insistente, da parte delle università private ci sarebbe la richiesta di abbassare ulteriormente i parametri della docenza. Telematiche incluse, naturalmente. Il dossier dell’Anvur sembra arrivare al momento giusto. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Nel pamphlet anti-baroni manca l’autoironia che rende i prof migliori
1 apr 2015 Libero SIMONE PALIAGA
Si sciorinano sempre più spesso dati su dati sulla mortalità universitaria. L’abbandono scolastico è altissimo in Italia, si dice. E la responsabilità di chi è? Di studenti sfaccendati e lavativi che di rado hanno voglia di fare e sperperano così i soldi di mammà e papà. Ma siamo sicuri che è sempre così? Alzi la mano chi nella sua carriera universitaria non ha invece incontrato professori sfaccendati e lavativi i cui soldi sperperati non sono quelli di mammà e papà ma quelli del contribuente. Ma se fosse solo questo, visto che in Italia gli sprechi sono ovunque, sarebbe una storia di normale amministrazione. Purtroppo il problema sta altrove. Di chiarissimi professori all'altezza del loro compito e con il physique du rôle adatto ce ne sono pochi. O almeno io, sono stato così sfortunato, ad averne incontrati pochi.
Contro questi ora si scaglia lancia in resta un saporoso pamphlet: Al limite della docenza. Piccola antropologia del professore universitario ( Donzelli, pp. 128, euro 17). A scriverlo è Stefano Pivato, storico dell’Università di Urbino. Per essere scritto bene, è scritto bene. Nella capacità di sbeffeggiare tutti i tic del cattedratico ci riesce eccome. Tutti i luoghi comuni scorrono davanti gli occhi come in un film. Nel narcisismo di chi enumera con arroganza le sue pubblicazioni e soprattutto la loro corposità si intravede bene il profilo di molti docenti degli atenei nostrani anche se ricordiamo che molti sono quelli che occupano un posto senza mai pubblicare nemmeno un rigo. Come in molti aneddoti si ritrova la loro boria dinanzi a molti studenti o il loro atteggiamento spocchioso solo perché occupano un posto nell'ultimo grado, quello più alto, dell'istruzione e della ricerca.
Ha buon gioco Pivato nel mettere in luce le contraddizioni di un sistema dove i docenti vengono pagati per la didattica e valutati sulla ricerca. Ma forse è fin troppo facile farlo, seppure con gusto. Diciamo che è un po’ come sparare sulla croce rossa. Se volessimo proprio affondare il coltello dovremmo muoverci diversamente, cominciando da un problema di stile e di gusto.
Fin da piccino i miei mi hanno sempre insegnato a non sputare nel piatto dove ho mangiato o mangio. Soprattutto, aggiungo io, se di quel piatto sono stato uno dei responsabili. Pivato non è solo uno storico con pubblicazioni per case editrici importanti e prestigiose. Ma è anche stato rettore della sua università e immagino sia stato membro di numerose commissioni da cui sono stati sfornati ricercatori, associati e ordinari. Per cui una qualche assunzione di responsabilità, da parte di chi critica il sistema pur facendone egregiamente parte, sarebbe stata effettivamente di buon gusto. Per essere efficace e più costruttivo, forse, avrebbe dovuto partire da un’autocritica (anche se magari l’ex Magnifico non ha nulla da rimproverarsi) che avrebbe reso il suo discorso più credibile. E ne sarebbe uscito non solo un bel divertissement dai tratti satirici ma anche qualche proposta per raddrizzare un legno stortissimo, quello delle università che sembra testimoniare solo con la sua presenza la fuga di cervelli all’estero.

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