giovedì 19 febbraio 2015

Anthony Kwame Appiah sulla costruzione del concetto di razza

Il colore coatto della subalternità 

Un'intervista con il filosofo ghanese Anthony Kwame Appiah. La razza è una «costruzione» sociale che varia nel tempo e nello spazio. Un’intervista con il filosofo di origine ghanese, naturalizzato americano e ritenuto uno dei maggiori studiosi del tema negli Usa 

Daniele Proglio, 19.2.2015 

Anthony Kwame Appiah, filo­sofo e teo­rico cul­tu­rale, roman­ziere e sag­gi­sta, è tra i più impor­tanti intel­let­tuali degli Stati Uniti. Docente di filo­so­fia e legge presso la New York Uni­ver­sity, ha rice­vuto nume­rosi premi e impor­tanti rico­no­sci­menti per i suoi lavori. Con una pro­du­zione scien­ti­fica ster­mi­nata e di grande valore, è inter­ve­nuto su nume­ro­sis­simi temi, tra cui la costru­zione dell’identità indi­vi­duale in rela­zione ai con­te­sti sociali, gli studi cul­tu­rali, la sto­ria degli intel­let­tuali afri­cani, le vicende raz­zi­ste negli Stati Uniti, il cosmo­po­li­ti­smo, la let­te­ra­tura afri­cana e afroamericana. 
Nato a Lon­dra, è cre­sciuto in Ghana. Il padre, Joseph Emma­nuel Appiah, fu avvo­cato, poli­tico e pre­si­dente del Ghana; la madre, Peggy Appiah, di ori­gine inglese, si dedicò alla scrit­tura di romanzi e alla let­te­ra­tura per bam­bini. La loro unione fu ampia­mente com­men­tata dai tabloid inter­na­zio­nali essendo tra i primi matri­moni inter­raz­ziali nel Regno Unito. Il pro­zio, nel 1970, fu pro­cla­mato nuovo re Ashanti. La nonna, invece, divenne vedova del diplo­ma­tico Sir Staf­ford Cripps, uno degli uomini inglesi a cui fu dato l’incarico di nego­ziare l’indipendenza dell’India. Lau­rea­tosi alla Kwame Nkru­mah Uni­ver­sity of Science and Tech­no­logy di Kumasi, Anthony Kwame Appiah con­ti­nuò gli studi di filo­so­fia a Cam­bridge, dove inse­gnò, prima di avere pre­sti­giosi inca­ri­chi acca­de­mici a Yale, Cor­nell, Duke, Harvard. 
L’incontro con lui, avve­nuto a Ber­ke­ley, è durato l’intero pome­rig­gio pre­ce­dente la sua lec­ture presso l’Auditorium Che­vron dell’Università della Cali­for­nia. Sono stati nume­ro­sis­simi i temi del nostro dia­logo: la wor­king class e l’idea di onore, la razia­liz­za­zione e la gen­de­riz­za­zione del mer­cato del lavoro – par­tendo dal suo testo Honour Code (2011); Lon­dra, il mondo atlan­tico e la cir­co­la­zione delle idee, delle imma­gini degli altri con­ti­nenti, degli ste­reo­tipi; la linea del colore in Ame­rica, dalle pian­ta­gioni alle metro­poli, dai ghetti a Fer­gu­son; l’Islam, la reli­gione e l’Europa, gli imperi colo­niali, la memo­ria e l’oblio del pas­sato; l’idea di uguaglianza. 
Durante l’intervista è emerso il tema della «razza» a par­tire dai nuovi e vec­chi raz­zi­smi in Europa e in Ita­lia, a par­tire, per il nostro paese, da un rin­no­vato dibat­tito scien­ti­fico che coin­volge diversi gruppi di ricerca (Inter­grace, Imma­gi­nari Post­co­lo­niali, Post­co­lo­nia­li­ta­lia, Semi­nari Sis­sco Memo­rie Colo­niali, ecc.), avviato con la pub­bli­ca­zione di due impor­tan­tis­simi volumi: Bianco e nero. Sto­ria dell’identità raz­ziale degli ita­liani (Le Mon­nier) di Gaia Giu­liani e Cri­stina Lombardi-Diop e Par­lare di razza. La lin­gua del colore tra Ita­lia e Stati Uniti a cura di Tatiana Petor­vich Nje­gosh e Anna Scac­chi (ombre corte). Inol­tre, a par­tire da ieri e fino al 20 feb­braio, gran parte degli stu­diosi ita­liani inte­res­sati a que­sti temi pren­derà parte al con­ve­gno «Archivi del Futuro» presso l’Università di Padova, orga­niz­zato da Post­co­lo­nia­li­ta­lia, con impor­tanti rela­zioni di Boa­ven­tura de Sousa San­tos, San­dro Mez­za­dra, San­dra Ponzanesi. 

Nel tuo volume «My Father’s House: Africa in the Phi­lo­so­phy of Cul­ture», affronti le tante e diverse imma­gini che sono cir­co­late nella sfera pub­blica ame­ri­cana tra la fine degli anni Ottanta e il 1993: dal pestag­gio del taxi­sta Rod­ney King da parte della poli­zia, alla rivolta di Los Angels del 1992, dalle bar­che dei pro­fu­ghi hai­tiani agli scon­tri tra i clan Hasi­dim e Afroa­me­ri­cani. Parli di imma­gini «raz­zia­liz­zate». Vor­rei a que­sto pro­po­sito chie­derti cosa intendi per «razza». È una costru­zione cul­tu­rale, così come hanno soste­nuto molti intel­let­tuali, da W.E.B. Du Bois a Stuart Hall? 

Sì, è una costru­zione cul­tu­rale. Ma c’è una que­stione impor­tante che penso sia frain­tesa. Dire che è una costru­zione cul­tu­rale non è la stessa cosa di dire che non è reale; equi­vale, invece, a chia­rire come è reale, in che modo diventa reale. Ciò ha a che fare con l’integrità intel­let­tuale pro­pria­mente intesa, per­ché se si com­prende che un costrutto cul­tu­rale è il pro­dotto di pro­cessi sociali, allo stesso modo ci si può ren­dere conto che i pro­cessi sociali sono o devono essere coin­volti nel suo ripen­sa­mento. Se costrui­sci qual­cosa social­mente lo puoi rico­struire social­mente. Se è bio­lo­gi­ca­mente dato, devi modi­fi­care la bio­lo­gia se vuoi appor­tare delle modi­fi­che. Quindi potremmo dire che è neces­sa­rio capire come que­sti mec­ca­ni­smi fun­zio­nano al fine di ragio­nare se li vogliamo cam­biarle – defi­nendo cosa vogliamo cam­biare – e poi come dovremmo cambiarli. 

L’idea che la «razza» sia social­mente costruita non è solo vera, ma dà la pos­si­bi­lità alle per­sone di pro­vare a pen­sare quale danno il raz­zi­smo abbia pro­vo­cato nel mondo; con­sente cioè di riflet­tere sul fatto che abbiamo modi di ragio­nare bloc­cati, e, pari­menti, che pos­siamo deci­dere se vogliamo una sto­ria che si svi­luppi a par­tire da certi pre­sup­po­sti o meno. 

Non vi è dub­bio che il modo di inten­dere la «razza» divenne cen­trale nel mondo atlan­tico nel 18° e nel 19° secolo. Va chia­rito che da Medievo al Sei­cento sono state ela­bo­rate con­ce­zioni diverse di «razza» da quelle che abbiamo oggi. Sono secoli dove le distin­zioni chiave non si tro­va­vano sulla linea del colore, ma nella dif­fe­renza tra Cri­stiani, Musul­mani e tutti gli altri, i pagani. Que­sto è un punto cen­trale. Ed è anche una delle mag­giori ragioni per cui i tre re magi rap­pre­sen­tano i tre regni: quello asia­tico, quella afri­cano e quello euro­peo. Uno dei motivi per cui que­sto modello si è svi­lup­pato è per­ché nel dodi­ce­simo, tre­di­ce­simo e quat­tor­di­ce­simo secolo il modo di espri­mere l’idea di cri­stia­nità non riguar­dava il colore della pelle: il Cri­stia­ne­simo era una reli­gione uni­ver­sale e quindi ogni per­sona, di qual­siasi colore, poteva diven­tare un servo di Cristo. 

L’idea che la «razza» sia un costrutto sociale ci per­mette di foca­liz­zare più que­stioni. Una è che le forme di raz­zia­liz­za­zione variano in ogni società e si svi­lup­pano in modi par­ti­co­lari: con­se­guen­te­mente, nel mondo atlan­tico non vi è un signi­fi­cato uni­ver­sale di nerezza. Se vai in Bra­sile e chiedi se una per­sona è «negro» loro com­pren­de­ranno che tu intendi nero. Io non sono «negro», non sono abba­stanza scuro, in Bra­sile. E come il Bra­sile ci sono altri mondi, ci sono cen­ti­naia di mondi, con dif­fe­renti modi di inten­dere le tona­lità di colore. In Bra­sile, due fra­telli potreb­bero essere uno «negro» e l’altro «barbo», tra le tante pos­si­bi­lità. Negli Stati Uniti la via su cui si è svi­lup­pata la «razza» è pro­fon­da­mente legata alla fami­glia: non pos­siamo avere un fra­tello di un colore e uno di un altro. Si può avere qual­cuno che è cul­tu­ral­mente nero e con una pelle molto chiara – ma rimane ancora nero, comunque. 

Simi­lar­mente, sono cre­sciuto nell’Africa Occi­den­tale, in Ghana, in una comu­nità in cui ero quello con la pelle più bianca. Que­sto per­ché mia madre era inglese. Ero una sorta di brown, il mio colore aveva un nome. E men­tre cam­mi­navo per il vil­lag­gio molte per­sone vedendo il colore della mia pelle non mi chia­ma­vano per nome, ma dice­vano «fermo, fermo, non è una que­stione di ami­ci­zia, non è una que­stione di non ami­ci­zia, è un fatto». Quindi la «razza» si con­fi­gura in modi diversi in luo­ghi diversi, e una delle sfide del movi­mento pana­fri­cano, il movi­mento di soli­da­rietà con la dia­spora atlan­tica, è stata quella di rico­no­scere che vi erano molti modi di essere asso­ciati con­cet­tual­mente con l’Africa, che ciò variava per ogni luogo in modi dif­fe­renti – penso in par­ti­co­lare in Africa e fuori dall’Africa – ma vi erano dif­fe­renze anche nei Caraibi e in Nord Ame­rica, tra i nativi d’America e gli indi­geni euro­pei. Anche se ciò non è messo ade­gua­ta­mente a fuoco dalla storia. 

Invece di deci­dere chi ha ragione, credo sia più utile sce­gliere quale sia l’opzione più utile. Doman­darsi chi ha ragione non è utile! Che senso ha chie­dersi se W.E.B. Du Bois – intel­let­tuale ame­ri­cano, del mio stesso colore – era real­mente nero? Che tipo di domanda è que­sta? È utile pen­sare che sia una per­sona nera in un certo con­te­sto? È inu­tile? – que­ste sono buone domande! E legato a ciò vi è anche la ridi­cola discus­sione sul colore del pre­si­dente degli Stati Uniti. Sua madre è bianca, e a me sem­bra dav­vero una que­stione stu­pida sta­bi­lire se sia o meno real­mente nero. Egli è quello che è. In alcuni con­te­sti sociali, va ricor­dato, una per­sona cam­mi­nando per la strada, con l’apparenza che ha, viene rico­no­sciuta come nera da un poli­ziotto. I suoi geni­tori non pos­sono fare nulla con­tro questo. 

La «razza» è quindi una costru­zione sociale. Come lo è il genere, certo, ma in modo dif­fe­rente e con pro­cessi dif­fe­renti. Ed è illu­mi­nante ricor­dare que­sto per­ché la «razza» è costruita in modo dif­fe­renti in luo­ghi dif­fe­renti, non è uni­ver­sal­mente un pro­dotto bina­rio, basti pen­sare all’India, al Ghana e a tanti altri luo­ghi del pianeta. 

Sto­ria, memo­ria, oblio: in che pro­spet­tiva si può par­lare di memo­rie del colonialismo? 

Penso che tutte le società abbiano dei grandi pro­blemi a ricor­dare il loro pas­sato. Vor­rei por­tare l’attenzione sul sag­gio di Ernest Renan Che cosa è una nazione?, redatto nel XIX secolo, nel quale l’importante sto­rico spiega, dalla sua pro­spet­tiva di fer­vente nazio­na­li­sta fran­cese, come la sto­ria sia nemica della nazione. Per­ché le nazioni – come spiega Renan – sono costi­tuite da cosa si dimen­tica così come da cosa si ricorda. A volte si è cioè por­tati a dimen­ti­care al fine di rima­nere uniti. Penso non sia mai una buona cosa, per­ché alla fine ci si trova in con­di­zioni che pos­sono essere spie­gate con il ter­mine freu­diano «represso», ossia che quanto volu­ta­mente dimen­ti­cato ritorna, usando una meta­fora. Pren­diamo ad esem­pio l’Inghilterra, l’Impero Bri­tan­nico. Sono nato come sub­ject of the Bri­tish Queen, mio padre è nato sub­ject del re Bri­tan­nico, in colo­nia, e mia madre è nata come Bri­tish sub­ject in Inghil­terra. Ogni sta­tus di sub­ject ha aspetti dif­fe­renti. Ovvia­mente mio padre era un colo­nial sub­ject con rela­zioni diverse con lo stato, con la società, con l’impero rispetto a mia madre. Nel momento in cui mi sono tro­vato a cre­scere nel Ghana indi­pen­dente – e pre­ciso che noi siamo stati per lungo tempo sub­jects, siamo stati per parec­chio tempo Bri­tish sub­jects – ricor­da­vamo il pas­sato colo­niale in un modo diverso da quello che ci veniva rac­con­tato. Non penso che in Ghana si abbia una grande infe­lice ricordo del periodo colo­niale per­ché non vi è un molto risen­ti­mento con­tro l’Impero Bri­tan­nico. Ma non ci ricor­diamo que­sto periodo di costru­zione di strade, isti­tu­zioni e ospe­dali come se lo ricor­dano gli inglesi. Quindi pos­siamo dire che ricor­diamo in modo diverso a seconda degli status.

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