giovedì 19 febbraio 2015

Il capitalismo italiano rimarrà straccione e assistito come è sempre stato

La via del Nord. Dal miracolo economico alla stagnazione
Solo oggi possiamo misurare tutta l'entità delle cazzate seminate da Ingrao [SGA].

Giuseppe Berta: La via del Nord, Il Mulino

Risvolto
Nel raccontare la metamorfosi della società settentrionale dalla ricostruzione post-bellica a oggi, il libro ne documenta dapprima l'ascesa, delineando le trasformazioni che hanno attraversato le imprese, il lavoro, le città, la politica, per soffermarsi poi sulle contraddizioni, le fragilità, i problemi irrisolti che hanno via via sottratto al Nord il ruolo di guida del paese, fino a fargli perdere quella capacità progettuale che aveva sostenuto la sua espansione. Il Nord dei nostri giorni subisce così la deriva del ripiegamento e della stagnazione, che mentre induce il declino dell'Italia minaccia ormai ampie aree dell'Europa. 

Così il parassitismo dello Stato ha cancellato i miracoli del NordCarlo Lottieri - il Giornale Mer, 10/06/2015

Industria , se si ferma il Nord 

Milano, Torino e il Veneto non hanno risposto adeguatamente alla sfida neoterziaria 
Mercoledì 18 Febbraio, 2015 CORRIERE DELLA SERA © RIPRODUZIONE RISERVATA
Se Giuseppe Berta non fosse uno storico, ma un’agenzia di rating, potremmo dire che il suo La via del Nord (Il Mulino) suona come un clamoroso downgrading dell’economia e dell’imprenditoria settentrionali. Nella prefazione, con grande onestà intellettuale, Berta spiega come in un recente passato il suo giudizio fosse stato più cauto — nonostante che le traiettorie del declino fossero già delineate — forse perché «ero più contiguo a qualche spezzone dell’establishment» ed «è bastato questo a farmi abdicare, pur senza averne la consapevolezza, all’attitudine al distacco critico che uno studioso dovrebbe salvaguardare in ogni circostanza». Rientrato in quello che definisce «lo spazio del cittadino comune», Berta sferra un durissimo attacco alle classi dirigenti del Nord, a coloro che avrebbero dovuto guidare la transizione dal vecchio e glorioso triangolo industriale (per il quale traspare profonda nostalgia) alla nuova economia moderna e terziarizzata. 

Partiamo da Milano, fulcro di questo cambiamento. Lo storico imputa alle élite della città di aver gestito il passaggio dall’identità manifatturiera a quella neoterziaria «senza una discussione né un confronto pubblico», liquidando sbrigativamente il passato «senza remore e indugi». Moda e design saranno anche i nuovi simboli, ma Berta ne parla come di «un piatto di lenticchie» e rintraccia invece nell’edilizia la vera «forza ambigua» che ha mosso la nuova Milano. E in continuità con questo giudizio è «Salvatore Ligresti il protagonista della città che si terziarizza attraverso un’ininterrotta colata di cemento». È andata davvero così? Chi scrive nutre molti dubbi su una così radicale reductio ad unum . La terziarizzazione di Milano non si può dire certo che sia stata una clamorosa storia di successo, ma le dinamiche sono assai più complesse. Berta sembra racchiuderle in un mero spazio nazionale e così per certi versi finisce per sottostimare peso e valore del made in Italy (l’export è cresciuto negli anni della Grande Crisi!) e dall’altro non sembra vedere come Milano abbia perso il suo match soprattutto nei servizi professionali. 
Con la sua Torino, Berta è ancora più tranchant , tanto da definirla «città opaca». «È venuta meno l’impronta industriale che la rendeva immediatamente identificabile senza però che sia stata sostituita da un segno e da una missione altrettanto robusti». A fallire è stata l’idea-guida di una Torino policentrica che, partendo dalle Olimpiadi, avrebbe dovuto convogliare investimenti nelle aree industriali dismesse e recuperare il centro storico, avrebbe poi dovuto orientare le competenze della città in direzione dell’economia della conoscenza e, infine, crescere come centro di cultura e intrattenimento. Ma come si fa a nutrire queste ambizioni — si chiede l’autore — se la provincia di Torino è al terzultimo posto delle aree metropolitane in Italia per numero di laureati in rapporto al numero di imprese? Per Berta quindi il bruco non è mai diventato una farfalla ed è rimasto una crisalide, le classe dirigenti hanno coltivato una bulimia progettuale che le ha portate a trascurare la direttrice più promettente, una Torino politecnica in forte continuità con la sua tradizione. 
Sistemate le due maggiori città del Nord, Berta si rivolge ad analizzare i territori che vanno verso Nordest («la megalopoli insicura») e il pessimismo cresce. Lo storico vede «un’atmosfera intrisa di un senso di minaccia e di insicurezza che non può che esprimere una domanda di protezione». E chi è in grado di fornirla? Non le classi dirigenti miopi, ma «la malavita organizzata di stampo mafioso che si è incardinata nei circuiti economici settentrionali proprio durante gli anni della crisi». La camorra è il soggetto che sembra dare una risposta o un momentaneo sollievo alle angustie della crisi, attraverso un’offerta illecita di credito alle imprese, e se la criminalità organizzata ha allargato il suo perimetro di influenza «è perché la società settentrionale non ha più i suoi assi portanti di un tempo». 
Nel volume del Mulino c’è molto di più di questa sintesi, c’è la storia di un capitalismo fondato sul lavoro e di una politica che fa contraddittoriamente i conti con la questione settentrionale, ma ciò che farà discutere delle tesi di Berta è lo schiaffo. Del resto i libri migliori non solo quelli che si condividono dalla prima all’ultima pagina, ma quelli che ci svegliano. E ci spingono a trovare argomentazioni, magari di segno contrario, ma all’altezza del confronto.  © RIPRODUZIONE RISERVATA

La fabbrica torna ma l’Italia è pronta? Due ricette per il futuro, tra spinta pubblica e mercato Mentre il “sistema Nord” perde il suo primato Francesco Manacorda tuttolibri 7 3 2015
Si può fare ancora industria - e se sì come la si può fare - in Italia? Mentre cresce il dibattito sul «reshoring», il ritorno a Occidente delle fabbriche che scoprono come la delocalizzazione non sia panacea per tutti i mali, due libri affrontano con prospettive diverse il destino della manifattura e dell’impresa nel nostro Paese e la sostanziale assenza - tra interventi emergenziali, rischi di neostatalismo e clamorose disattenzioni - di un disegno politico che si faccia carico di disegnare ambiente e percorsi per le imprese. 

In Cacciavite, robot e tablet, con l’eloquente sottotitolo di «Come far ripartire le imprese» si confrontano un’economista come Gianfranco Viesti e il giornalista-saggista Dario Di Vico, con l’obiettivo dichiarato di (ri)trovare una via italiana alla politica industriale. Due approcci assai differenziati nei loro rispettivi interventi, i loro, come del resto già la collana «Bianconero» del Mulino promette. Viesti vede come necessario il focus della politica industriale su innovazione, dimensione e internazionalizzazione delle imprese, attingendo a molti esempi di stampo tedesco e indicando la necessità di una politica «paziente», una strategia che «rimanga ragionevolmente stabile a lungo; che non sia preda delle smanie di consenso di chi detiene provvisoriamente un potere». In quanto al soggetto che potrebbe attivare questa politica industriale, Viesti indica senza esitazioni la Cassa Depositi e Prestiti - partecipata dal Tesoro e dalle Fondazioni bancarie - che sarebbe adatta «per determinare investimenti di lungo termine nella manifattura». 
Di Vico sceglie invece di attingere a una cassetta degli attrezzi più assortita. Non è convinto di un ruolo primario della Cassa Depositi e Prestiti: «L’idea che personalmente coltivo non è dunque quella di ricamare sulla carta un rinascimento statalista, quanto quella di proseguire sulla strada di una politica industriale di mercato». Una formula volutamente ampia, che si può riempire sia scegliendo il meglio dell’esistente in Italia, sia andando a cercare esperienze estere - ad esempio quella francese sulla grande distribuzione - da importare- «Meno tasse, dunque, ma anche più cultura industriale (moderna). Siamo rimasti indietro in troppe materie, come il rapporto con il sistema bancario, la cultura del retail e della logistica, l’e-commerce e via di questo passo. Non ce lo possiamo permettere». È un approccio esplorativo e comparativo - come è giusto che sia per un giornalista - teso però a mettere i frutti di questa ricognizione al servizio di un modello e delle sue peculiarità, ad esempio i distretti industriali e quelle multinazionali tascabili che sono una «variabile adattativa del capitalismo italiano particolarmente congeniale alle nostre caratteristiche». 
Diverso nel taglio e nelle conclusioni, fin dal titolo dedicato a La via del Nord, il volume appena uscito dello storico dell’economia Giuseppe Berta. Ripartendo idealmente dalle tappe dedicate all’industria del «Viaggio in Italia» di Guido Piovene, Berta racconta sessant’anni di sviluppo - e regressione - del Nord Italia, che dagli Anni ’80 a fine 2000 «diviene una realtà che si declina al plurale», tra Nordovest e Nordest, «mentre si vanno scomponendo anche i grandi aggregati economici e sociali». Se nel suo precedente Nord, pubblicato sullo stesso tema nel 2008 , Berta era più possibilista su una conclusione positiva della parabola del settentrione industrializzato, adesso ha cambiato prospettiva - scrive senza risparmiare gli accenni autocritici: «Oggi direi che a un periodo di sviluppo bruciante e convulso fa seguito una prolungata stagione in cui il Nord consuma e disperde le sue energie e le sue capacità». Attingendo come sempre in modo assai gustoso non solo alla saggistica, ma anche alla letteratura - da Calvino, a Ottieri, fino al Massimo Lolli di «Volevo solo dormirle addosso» - Berta ritrae la caduta di vecchie sicurezze e l’emergere di nuove precarietà.
Il Nord motore trainante dell’economia si è diluito, verrebbe da dire disciolto, nel mare dei vizi tutti italiani e «appare adesso in larga misura omogeneo al resto di una nazione che, insieme col proprio punto d’equilibrio, stenta a trovare una sua collocazione nel mondo, mentre avverte al minaccia di una caduta irrimediabile». Anche in queste pagine emerge l’assenza della politica nel suo senso migliore: siamo di fronte a un Nord «desolatamente povero di idee e di progetti tali da permettergli di disegnare un futuro possibile», dove due industrie-simbolo dell’industria del Nord come Fiat e Pirelli scelgono per svilupparsi strategie che guardano all’estero come presenza produttiva e sui mercati e - almeno nel caso degli pneumatici - anche come azionariato. «Segni - è la conclusione forse inevitabile, ma forse non così amara come gli assunti da cui parte Berta - che lasciano presagire come l’esperienza industriale italiana possa perpetuarsi soltanto se cambia pelle fino a divenire altro da sé».

1 commento:

Francesco Canepa ha detto...

Si parla di Milano e di Torino come "triangolo industriale". Genova non è neppure più degna di analisi e critica. Che tristezza!