domenica 15 febbraio 2015

La statua di Giordano Bruno e gli esordi dell'Italia moderna

Risultati immagini per Bucciantini: Campo dei Fiori. Storia di un monumento maledetto
Massimo Bucciantini: Campo dei Fiori. Storia di un monumento maledetto, Einaudi, Torino, pagg. 392, € 32,00.

Risvolto

«Tra il 1888 e il 1889 attorno a Campo dei Fiori si concentrarono le speranze e i timori di gran parte degli italiani che videro nella statua di Giordano Bruno il simbolo supremo della libertà o della peggiore delle maledizioni, del riscatto o della vergogna, di un'Italia fieramente laica e anticlericale o di un'Italia priva di ogni valore morale e principio di civiltà».

I cattolici piú intransigenti le cambiarono persino il nome. Dopo quanto accadde la mattina del 9 giugno 1889 chiamarono quella piazza non piú Campo dei Fiori ma Campo Maledetto. E nelle loro intenzioni sarebbe rimasta tale fino al giorno in cui al posto del "monumento infame" non sarebbe sorta una cappella di espiazione al Cuore Santissimo di Gesú. Questo libro è il racconto drammatico di un conflitto durato la bellezza di tredici anni, tanti ne occorsero per erigere quella statua. Un burrascoso affresco che trovò linfa vitale nelle passioni di studenti innamorati di Bruno e Mazzini, di Garibaldi e Oberdan, e decisi a mettere in pratica un disegno radicale che in breve tempo si trasformò in una seconda Porta Pia. Ma Campo dei Fiori è anche il capitolo di una storia piú grande, che tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento è scandita dalle battaglie per l'emancipazione femminile e il suffragio universale, per la cremazione e l'abolizione dell'insegnamento religioso nelle scuole e della pena di morte. Sono trascorsi 125 anni dall'inaugurazione della statua, e oltre quattro secoli da quando, all'alba di un giovedí di febbraio, a dorso di mulo, Giordano Bruno venne trasportato in quella piazza, e lí legato a un palo e bruciato vivo.

Campo dei Fiori è una biografia: la biografia di una statua. Ma è anche un libro sull'Italia, sulle tante debolezze del fronte laico e sulla ostinata chiusura a ogni idea di modernità presente nella Chiesa cattolica di allora. È l'avvincente ricostruzione di una lotta politica che ebbe numerosi protagonisti: il movimento studentesco romano, Francesco Crispi e la massoneria, Ettore Ferrari e Giovanni Bovio, papa Leone XIII e i gesuiti della «Civiltà Cattolica», Francesco De Sanctis, Antonio Labriola, Giuseppe Garibaldi. E anche un certo Armand Lévy, di professione rivoluzionario, ex comunardo, esule, ebreo e socialista, sconosciuto ai piú, ma che svolse un ruolo decisivo nella fase preparatoria del monumento. Si trattò di una vera e propria battaglia laica e anticlericale: una delle poche combattute nel nostro Paese e che è giusto non dimenticare. Non tanto per celebrarla quanto per conoscerla, anzi forse è meglio dire per decifrarla: attraverso la comprensione di uno scontro che fu violentissimo e dei tentativi compiuti per disinnescarlo, come delle alleanze e degli opportunismi che di volta in volta furono messi in campo per vincere la partita o per rinviarla per sempre.

Il sogno Bruno dell’Italia laicaMassimo Bucciantini ha scritto la storia del monumento di Campo dei Fiori dedicato al filosofo bruciato in quella piazza nel 1600 L’inaugurazione, nel 1889, fu la prima vera uscita della nazione senza timori verso la Chiesadi Sergio Luzzatto Il Sole Domenica 15.2.15
Di fotoreporter ce n’erano parecchi, quel giorno in Campo dei Fiori, anche se i loro nomi hanno poi faticato a entrare negli annali della grande fotografia: Carlo Rocchi, M.C. Sirani, T. Fabbri... La manifestazione popolare per l’inaugurazione della statua di Giordano Bruno – Roma, 9 giugno 1889 – è una delle primissime nella storia d’Italia che sia fotograficamente documentata, come nell’«istantanea» del «corteggio in via Nazionale» pubblicata di lì a poco dall’«Illustrazione italiana». In quel giorno di Pentecoste, l’Italia nuova si dà appuntamento in Campo dei Fiori, a un tiro di schioppo dal Vaticano, per celebrarsi come Italia laica. Per contestare al Sommo Pontefice di Santa Romana Chiesa non più soltanto il potere temporale, ormai cancellato da Porta Pia, ma anche il potere spirituale.

Treni speciali trasportano a Roma pellegrini laici a migliaia, da Pisa, da Napoli, dai quattro angoli di un Paese che è andato scoprendo negli anni precedenti – per effetto di un’insistita campagna d’opinione – la figura stessa di Giordano Bruno: il frate domenicano che la Chiesa della Controriforma aveva perseguitato come apostata, condannato come eretico e infine, il 17 febbraio 1600, bruciato vivo in Campo dei Fiori. Ventimila, nei calcoli della Questura, i manifestanti raccolti alla base dell’imponente statua di bronzo disegnata da Ettore Ferrari (ma sembrano di meno, a dire il vero, nel colpo d’occhio delle fotografie). Cui va aggiunta la gente affacciata alle finestre e ai balconi delle case prospicienti la piazza, romani benestanti che hanno pagato una specie di affitto giornaliero ai popolani residenti nel Campo.
Invano il cardinale Rampolla, segretario di Stato di papa Leone XIII, ha cercato di spaventare la cittadinanza prevedendo disordini di piazza, e arrivando a offrire biglietti ferroviari gratuiti a quanti volessero allontanarsi dalla capitale. La manifestazione del 9 giugno è un successo anche per l’ordine perfetto con cui le più varie delegazioni e associazioni d’Italia – consiglieri comunali, notabili provinciali, reduci garibaldini, operai mazziniani, studenti universitari – sfilano in corteo dalla stazione Termini a Campo dei Fiori. Il tutto in un clima di festosa animazione descritto l’indomani dal cronista del «Messaggero»: «Si vendono banderuole di carta, fazzoletti con il ritratto di Giordano Bruno, busti e statuette di gesso, opuscoli d’ogni specie». «La folla sparpagliata dovunque si fa sempre piu fitta», e «tutte le classi sociali vi sono rappresentate». «Moltissime le donne» (ma anche di queste, nelle fotografie scattate quel giorno, non se ne riconoscono poi tante).
Era un sospirato punto d’arrivo, l’apoteosi d’oltretomba di Giordano Bruno. Coronava un progetto – vendicare il rogo inquisitoriale del 1600 con il più parlante dei simboli, la statua della vittima eretta nel luogo stesso del martirio – che risaliva a una dozzina d’anni prima. Nel 1876 una manciata di studenti dell’università di Roma, intraprendenti giovanotti originari delle province dell’ex Stato pontificio, si erano visti regalare l’idea da un loro amico straniero: un rivoluzionario francese per nascita e cosmopolita per vocazione, un esule della Comune di Parigi che di nome faceva Armand Lévy. Progetto abbracciato con entusiasmo da Giuseppe Garibaldi («possa il monumento da voi eretto al gran pensatore e martire essere il colpo di grazia alla baracca di cotesti pagliacci che villeggiano sulla sponda destra del Tevere»), ma poi arenatosi fra le secche della politica politicante, quali davvero non mancavano lungo entrambi i versanti dell’Isola Tiberina.
Secondo Massimo Bucciantini, che della statua di Campo dei Fiori ha scritto adesso la fascinosa storia, il progetto sarebbe definitivamente fallito senza l’intervento di un professore universitario di filosofia destinato a contare nella vicenda del socialismo italiano: Antonio Labriola. Nel 1885, fu grazie al prestigio di Labriola che una rinnovata conventicola di studenti romani poté rilanciare l’idea della statua raccogliendo adesioni – e sottoscrizioni, cioè soldi – da tutta Europa e perfino dalle Americhe. Allora il progetto perse il suo carattere più provinciale e striminzito, di goliardata anticlericale, e assunse la cifra di un omaggio internazionale alla libertà di pensiero. Quelli di Victor Hugo, Ernest Renan, Henrik Ibsen, Walt Whitman, furono soltanto alcuni tra i bei nomi che accettarono di figurare nel Comitato d’onore dell’erigendo monumento a Giordano Bruno.
Una «brunomania» – come fu sdegnosamente qualificata dai gesuiti della «Civiltà cattolica» – percorse la cultura democratica italiana negli anni a ridosso dell’inaugurazione della statua. Libri, libelli, opuscoli, saggi, biografie romanzate, commedie teatrali, opuscoli commemorativi: oltre duecento titoli nel solo biennio 1888-89. A Roma, un Consiglio comunale politicamente moderato mantenne a lungo un atteggiamento ostruzionistico. Ma a partire dal 1887, quando alla presidenza del Consiglio dei ministri assurse un ex garibaldino del peso politico di Francesco Crispi, la bilancia prese a pendere in favore degli ammiratori di Bruno. E nell’autunno del 1888, quando gli elettori della capitale elessero al Campidoglio una maggioranza liberale, le condizioni furono riunite perché il bronzo della statua potesse finalmente essere fuso.
Cammin facendo, i promotori del monumento avevano dovuto rinunciare a raffigurare Bruno – come in un primo bozzetto di Ferrari – alla stregua di un profeta trascinante, o addirittura di un avatar capitolino della Statua della Libertà montata in quegli anni tra Parigi e New York. Pur di realizzare il progetto, avevano dovuto contentarsi di un Bruno statico e riflessivo, meno apostolo che filosofo. Ma che la statua inaugurata il 9 giugno 1889 in Campo dei Fiori rappresentasse comunque una dichiarazione di guerra contro ogni verità rivelata, è quanto riusciva chiaro a tutti i cattolici d’Italia, Sommo Pontefice in testa. Il 30 giugno, in un’allocuzione davanti al Concistoro, Leone XIII tenne a ribadire come Giordano Bruno fosse stato «doppiamente apostata, convinto eretico, ribelle fino alla morte all’autorità della Chiesa». «Così dunque le straordinarie onoranze tributate a tal uomo, dicono alto e chiaro, essere ormai tempo di romperla colla rivelazione e la fede: l’umana ragione volersi emancipare affatto dall’autorità di Gesù Cristo».
Punto d’arrivo, l’apoteosi d’oltretomba di Giordano Bruno non riuscì a costituire un punto di partenza. Nei decenni successivi al 1889, l’Italia laica avrebbe perso più battaglie (sul divorzio, sul riposo domenicale, sulle opere pie, sull’insegnamento religioso nelle scuole) di quante ne avrebbe vinte. E la storia d’Italia avrebbe evidenziato – sottolinea Bucciantini – tutti i limiti di un radicalismo astratto, da salotto borghese o da cattedra universitaria, che inneggiava alla poesia della scienza e della filosofia più di quanto praticasse la prosa della riforma politica e sociale.
Alla lunga, il monumento di Campo dei Fiori rischierà di sembrare niente più che il simbolo di un’inutile fuga in avanti: il bronzeo giocattolo di un pugno di vincitori perdenti. E quarant’anni dopo il 1889, nell’Italia dei Patti lateranensi, Benito Mussolini sarà costretto a smentire pubblicamente – nel suo discorso di ratifica del Concordato, il 13 maggio 1929 – le voci secondo cui lo Stato aveva promesso alla Chiesa la demolizione del monumento di Campo dei Fiori: «Bisogna che io dichiari che la statua di Giordano Bruno, malinconica come il destino di questo frate, resterà dov’è». Non avrà bisogno, il Duce, di abbattere la statua dell’eretico. Perché a quel punto l’Italia laica sarà già in macerie, sarà già crollata sotto i colpi di mazza del clerico-fascismo.



Giordano Bruno e le sue ceneri parlanti

Storia. Come si arrivò al giorno in cui il mondo intero guardò al pensoso monaco nero, protagonista di "Campo dei Fiori. La storia di un monumento maledetto" raccontata da Massimo Bucciantini per Einaudi
—  Ci fu un tempo in Ita­lia in cui tutta la poli­tica e la cul­tura sem­brava fos­sero rias­su­mi­bili in un nome e nell’idea di un monu­mento: il nome era quello di Gior­dano Bruno e il monu­mento quello cele­bre di Campo dei Fiori. È di que­sta sto­ria che rac­conta Mas­simo Buc­cian­tini, già nar­ra­tore di cose gali­leiane, nel suo nuovo libro, Campo dei fiori Sto­ria di un monu­mento male­detto (Einaudi, pp. 391, euro 32,00).La Chiesa e i cat­to­lici ita­liani fecero di Gior­dano Bruno un «male­detto», come si sa; ma non è il loro punto di vista a inte­res­sare Buc­cian­tini, che invece ha dedi­cato ricer­che accu­rate al mondo dei caffè e delle aule uni­ver­si­ta­rie dove i gio­vani figli della bor­ghe­sia ita­liana si ubria­ca­rono di reto­rica del mar­ti­rio e del libero pen­siero. Furono loro a con­ce­pire il pro­getto del monu­mento. Distratta e sbia­dita, la «nuova Ita­lia» libe­rale rimase sullo sfondo, alle prese con l’ostilità di masse popo­lari, sem­pre fedeli alla reli­gione e al papa.
Tra i meriti della ricerca di Buc­cian­tini c’è dun­que l’aver con­cen­trato l’attenzione sull’ambiente gio­va­nile e stu­den­te­sco da cui ven­nero sia la prima idea del monu­mento sia l’impegno deci­sivo per la sua rea­liz­za­zione. Dif­fi­cile dire che cosa sapes­sero di Gior­dano Bruno il primo attore della sto­ria, Adriano Colocci, ven­tenne di pic­cola nobiltà mar­chi­giana, e il suo com­pa­gno d’avventura il cese­nate Coman­dini. D’altra parte, per­fino Anto­nio Labriola, quando l’onda del movi­mento lo coin­volse con la richie­sta di una con­fe­renza su Bruno, dovette chie­dere i libri neces­sari a un gio­vane e già dot­tis­simo Bene­detto Croce: gli man­cava per­fino quella edi­zione Daelli degli scritti di Bruno che fu a lungo l’unica offerta dell’editoria italiana.
Resta indi­scu­ti­bile, tut­ta­via, un dato di fatto: il secondo Otto­cento dell’Italia libe­rale fu inte­ra­mente per­vaso dalla «bru­no­ma­nia»: l’insultante defi­ni­zione fu lan­ciata da un arti­colo del gesuita Luigi Pre­viti, uscito ano­nimo sulla «Civiltà cat­to­lica» del 1888, l’anno pre­ce­dente a quello della inau­gu­ra­zione del monu­mento a Campo dei fiori. Ma l’epoca in cui Gior­dano Bruno divenne oggetto di una vera e pro­pria mania era comin­ciata molto prima e i suoi effetti si erano dif­fusi in tutto il nostro paese. 
Quando nel 1876 lo sto­rico cat­to­lico bava­rese Lud­wig Pastor scese in Ita­lia per dedi­carsi al com­pito di ribat­tere al libro di sto­ria dei Papi del pro­te­stante Ranke con quella che doveva diven­tare una delle più grandi imprese eru­dite di ogni tempo, la prima domanda che si sentì rivol­gere, appena toc­cata Verona, fu se era pro­prio vero che Gior­dano Bruno fosse stato man­dato al rogo. L’apologetica cat­to­lica si era rifu­giata nella nega­zione di quella morte. Solo alla fine, quando ormai si spe­gne­vano i furori dell’età libe­rale, il docu­mento fu tro­vato: e fu una delle poche acqui­si­zioni di nuove cono­scenze in tutta quella fase di scrit­ture e di discorsi. Una gigan­te­sca fab­brica di parole, secondo Mas­simo Buc­cian­tini, che nel suo libro non nasconde il fasti­dio per essersi dovuto sci­rop­pare il beve­rone di reto­rica piaz­za­iola e avvo­ca­te­sca, allora di pram­ma­tica in quell’ambiente. Il Sant’Uffizio dell’Inquisizione, da poco tempo pri­vato del brac­cio seco­lare con la nascita dello stato libe­rale, appa­riva allora come la mac­china mostruosa dell’intolleranza e della super­sti­zione che aveva tenuto gli ita­liani lon­tani dalla civiltà moderna – quella civiltà che papa Pio IX aveva addi­tato col Sil­labo come la somma di tutti gli errori. Nel pro­cesso pub­blico che si aprì toccò al papato pren­dere il posto dell’imputato davanti ai fan­ta­smi dei «mar­tiri del libero pen­siero»: la folla di ombre di tor­tu­rati e uccisi, incal­zante die­tro i nomi di Bruno, Cam­pa­nella e Gali­leo. Però alla fine Gali­leo rimase indie­tro: per entrare nel pan­theon dei mar­tiri poteva esi­bire solo la frase cele­bre ma inven­tata dell’«eppur si muove» e l’altrettanto inven­tata tor­tura inqui­si­to­riale, che però non bastava ad assol­verlo dal cedi­mento dell’abiura.
E tut­ta­via il sogno di un’Italia laica, capace di pren­dere le distanze dal potere papale e di legarsi ai valori laici delle nazioni euro­pee, attirò intorno al pro­getto del monu­mento l’attenzione e il con­senso di tanti auto­re­voli pro­ta­go­ni­sti della vita intel­let­tuale del tempo: lo mostra l’elenco delle ade­sioni e delle offerte in danaro che arri­va­rono dall’estero al comi­tato pro­mo­tore degli stu­denti; anche se poi, davanti al tra­sci­narsi senza esiti del pro­getto, ci furono cir­co­spette domande di informazioni.
Ma nomi come quelli di Vic­tor Hugo, Ernest Renan, Rudolf Jhe­ring e tanti altri, danno un’idea delle attese che l’Italia era in grado di susci­tare nella cul­tura inter­na­zio­nale. E il corag­gio di que­sti stu­denti appare tanto più apprez­za­bile, pur con tutta la sua dose di gio­va­nile appros­si­ma­zione, a fronte delle chiu­sure e delle pavi­dità di una diri­genza poli­tica che li lasciò soli in Cam­pi­do­glio quando orga­niz­za­rono una solenne com­me­mo­ra­zione di Jules Miche­let.
D’altra parte, nem­meno l’idea del monu­mento fu farina di menti ita­li­che: Buc­cian­tini ha sco­perto che il primo inven­tore e poi assi­duo soste­ni­tore del pro­getto fu l’esule comu­nardo ebreo fran­cese Armand Lévy. È que­sto il nome da ricor­dare, sfug­gito finora per­fino all’imponente e dot­tis­simo Dizio­na­rio bru­niano da poco pub­bli­cato dalle edi­zioni della Nor­male a cura e sotto la dire­zione di Michele Cili­berto. Die­tro Armand Lévy si avan­za­vano tanti gio­vani, da Gio­vanni Amici al bolo­gnese Giu­seppe Ver­nazzi e agli ani­ma­tori e com­po­nenti dei gruppi gio­va­nili che ten­nero viva la fiac­cola del pro­getto. Per­ché l’altra sco­perta di que­sto libro riguarda l’esclusivo merito di un movi­mento ita­liano di stu­denti – allora pic­cole mino­ranze di una uni­ver­sità d’élite in un paese di anal­fa­beti – nel por­tare al suc­cesso defi­ni­tivo la costru­zione di quel monumento.
Bastò la fedeltà a quel pro­getto per por­tare un vento di nobili ideali e di grandi valori che mosse le acque sta­gnanti di una poli­tica asfit­tica, domi­nata da con­sor­te­rie mas­so­ni­che e dal timore dei movi­menti popo­lari. Agli stu­denti romani si affian­ca­rono quelli di tante altre uni­ver­sità: e a loro si aggiun­sero movi­menti anar­chici, come quelli della tur­bo­lenta Pisa da cui partì l’invito a Labriola, che fu dun­que costretto a docu­men­tarsi su Gior­dano Bruno. Ma c’era anche qual­cosa di nuovo. Labriola spiegò a Croce che a muo­verlo era l’impulso di una classe ope­raia in for­ma­zione: la si era vista per le strade di Roma in un impo­nente cor­teo gui­dato da Andrea Costa, e l’anarchico roma­gnolo non perse l’occasione per ricon­durre ideal­mente la lotta pre­sente a quella di Gior­dano Bruno e degli altri mar­tiri della libertà.
Erano segni nuovi e inquie­tanti per le classi diri­genti dell’Italia liberal-massonica. Non per niente il con­si­glio comu­nale di Roma oppose sor­dità e silenzi all’iniziativa degli stu­denti. Ci vol­lero l’intervento deciso di Cri­spi e le nuove ele­zioni che por­ta­rono in con­si­glio una diversa mag­gio­ranza per­ché final­mente fosse appro­vata l’erezione del monu­mento nel luogo dove si era svolto il rogo. Die­tro quelle resi­stenze si per­ce­pi­sce la paura di una classe sociale esi­tante davanti ai ricatti della Chiesa, che fino ad allora le aveva garan­tito la doci­lità delle classi popo­lari vin­co­lan­dole alla reli­gione. E così arrivò la grande gior­nata del 9 giu­gno 1889, e la marea di popolo venne esau­rien­te­mente docu­men­tata da un gior­na­li­smo che impa­rava allora a far uso del repor­tage fotografico.
Il mondo intero guardò quel giorno all’Italia e al cupo pen­soso monaco nero scol­pito da Ettore Fer­rari per Campo dei fiori. Bastò il suo spet­tro a esor­ciz­zare, in quella fine secolo, la minac­cia della con­ci­lia­zione tra Stato e Chiesa. Ma il sogno dell’Italia laica ebbe breve durata. E la sta­tua corse non pochi peri­coli quando, tor­nate le classi domi­nanti alla devo­zione, la Con­ci­lia­zione divenne una realtà. Toccò a Euge­nio Pacelli chie­dere la rimo­zione della sta­tua da quel luogo. Non la ottenne. Il re e Mus­so­lini non ebbero il corag­gio di con­sen­tire una scon­fes­sione troppo sfac­ciata dell’eredità risor­gi­men­tale. La Chiesa dovette con­ten­tarsi di un risar­ci­mento sim­bo­lico: dichia­rare santo il car­di­nale Bel­lar­mino, tanto per riba­dire la con­danna di Gior­dano Bruno. Né ci fu posto per il frate filo­sofo quando il quarto cen­te­na­rio del suo rogo fu tutto occu­pato dal Grande Giu­bi­leo, nell’anno 2000. Ma quel monaco nero resta come un rimorso per il paese della lai­cità assente, che impicca a un arti­colo 7 le solenni dichia­ra­zioni di ugua­glianza dei diritti della Costi­tu­zione repubblicana.


Biografia della statua «maledetta»
Il progetto di un monumento a Giordano Bruno divise per anni l’Italia tra clericali e laicidi Corrado Stajano Corriere 21.3.15
Dopo quattro secoli (e 15 anni) si parla ancora, come se fosse accaduto appena ieri, dell’«abbruciamento dell’eretico impenitente» e della statua che con fatica e coraggio fu posta e dedicata a Giordano Bruno nel luogo del rogo al quale fu condannato dai cardinali dell’Inquisizione. A quell’evento di follia che seguita a suscitare angoscia e incredulità e al monumento in onore del frate, Massimo Bucciantini, professore di Storia della scienza all’Università di Siena, ha dedicato un rigoroso saggio: Campo dei Fiori. Storia di un monumento maledetto (Einaudi). (Quel «maledetto» fu l’aggettivo usato dai clericali; il bronzo ha voluto rappresentare piuttosto la volontà dei posteri di rendere onore alla libertà di pensiero: che almeno la memoria sia segno di giustizia).
Purtroppo la storia non insegna mai nulla, il tragico Novecento ne è un atroce esempio di massa, con milioni di morti bruciati nei lager nazisti, colpevoli soltanto di essere ebrei o di avere un differente credo politico.
Ma il rogo fiammeggiante di Campo dei Fiori, il mostruoso sonno della ragione di quei carnefici assolutisti della fede resta un indimenticato modello per gli spiriti creativi: anche un giovane musicista pisano che vive a Parigi, stimato in tutta Europa, Francesco Filidei, sta lavorando proprio ora a un’Opera sul frate nero che sarà rappresentata al Piccolo Teatro di Milano.
Le ultime parole del frate domenicano ai suoi persecutori — «Forse voi giudici pronunciate la sentenza contro di me con più paura di quanto io ne abbia nell’ascoltarla» — sembra che seguitino a risuonare in quella piazza allegra, tra le bancarelle del mercato, con il pesce madreperlaceo che sembra appena uscito dalle reti, la frutta colorata che sembra invece appena uscita da un dipinto cinquecentesco, in un gran vociare. Mentre il droghiere, il fornaio, il salumiere sull’angolo di via de’ Balestrari, dove fu effettivamente bruciato Giordano Bruno, invitano i turisti nelle loro botteghe: il frate nero dal suo piedistallo di marmo osserva severo. Una spina nel cuore e nelle coscienze, la vita e la morte.
Durò 13 anni — dal 1876 al 1889 — la furibonda lotta tra i fautori e gli oppositori del monumento. Massimo Bucciantini, con cura meticolosa, tra storia e narrazione, ha ricostruito, attraverso la biografia della statua, un agitato pezzetto della vita politica postrisorgimentale. Senza tralasciare nel racconto l’apologetica cattolica che difese l’indifendibile con il negazionismo e la retorica anticlericale che rammenta spesso le reboanti orazioni di certi avvocati di provincia e degli urlanti politici ottocenteschi.
L’idea del monumento a Giordano Bruno non nacque dall’alto, non fu l’espressione di un sottile disegno politico antivaticanesco. A provocar la polemica e la faticata posa del monumento fu il discorrere di un gruppo di studenti universitari che si incontravano all’Osteria del Melone, vicino alla Sapienza, e facevano notte bighellonando nelle vie della città. Adriano Colucci, di Jesi, e Alfredo Comandini, di Faenza, entrambi studenti di giurisprudenza, furono a capo del movimento nascente. Poi presero ognuno, col passare degli anni, la sua strada, professore, deputato al Parlamento, scrittore, poeta, Colucci; deputato anch’egli, direttore di diversi giornali, anche del «Corriere della Sera», dal settembre 1891 al novembre 1892, Comandini. Furono i due giovani a guidare il primo comitato, a raccogliere fondi, a propagandare il progetto che tanto inquietava al di là del Tevere. Ma in effetti la vera mente fu un ebreo francese, Armando Levy, profugo della Comune di Parigi, filosofo, patriota, filantropo, «rivoluzionario romantico», più tardi massone, a innamorarsi del monumento e a farne una ragione di vita.
Il movimento della statua a Giordano Bruno si diffuse con rapidità in Italia e al di là delle Alpi. Non fu la massoneria, come si disse, la sua nutrice, anche se poi molti massoni furono ardenti sostenitori dell’idea. Ma con loro mazziniani, ex garibaldini, repubblicani, radicali, anarchici, liberali che si ribellavano al Sillabo papale, anticlericali senza etichette e, nell’altra fazione, i seguaci del Papa Re, i gesuiti di «Civiltà Cattolica», le figlie di Maria, la destra politica timorosa di un nuovo corso moderato, infuriata con la sinistra, i cattolici più intolleranti al riparo da ogni tentazione di autocritica, del tutto privi dell’arma del dubbio, senza un pizzico di vergogna o, almeno, di rammarico, indignati soltanto dall’oltraggio che quel monumento recava al Papa e al Vaticano.
L’idea dei due giovani studenti — fu poi un loro coetaneo bolognese, Giuseppe Vernazzi, a prendere la guida del movimento — ebbe consensi autorevoli e di gran nome, Victor Hugo, Ernest Renan, Rudolf von Jhering, Antonio Labriola, Andrea Costa, Cesare Lombroso, Giustino Fortunato, ma anche Garibaldi e gli eredi del «Risorgimento tradito».
Il saggio di Bucciantini è anche un trattato di scienza della politica italiana dopo la breccia di Porta Pia. Appaiono ben documentate le meschinità della classe dirigente dell’epoca, non troppo diversa da quella di oggi, le compromissioni, le prudenze, i timori di turbare la curia vaticana e anche il coraggio ribelle, la testardaggine di portare a compimento la statua scolpita da Ettore Ferrari. Due mondi, due Italie inconciliabili.
Il conflitto coinvolse segretari di Stato vaticani, presidenti del Consiglio, sindaci della capitale, Gran maestri della massoneria, cardinali, predicatori, studiosi di Giordano Bruno filosofo, allora quasi del tutto sconosciuto, e cittadini senza nome che parteciparono con fervore a manifestazioni, raccolte di denaro, pubblicazioni di libri e di pamphlet, polemiche pubbliche, cortei che i giornali dell’epoca documentarono.
La svolta liberatoria arrivò con Francesco Crispi presidente del Consiglio che rimosse ogni ostacolo. Vinse con lui la laicità «provvisoria» dello Stato. Fu un gran giorno di festa il 9 giugno 1889. Ne scrisse Émile Zola nel suo Diario .

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