domenica 15 febbraio 2015

Magna Charta Libertatum, le origini del liberalismo ovvero della legittimazione democratica delle elites: Franco Cardini



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La Magna Carta festeggia 800 anniPur essendo un atto unilaterale di concessione da parte di re Giovanni Senzaterra, è ritenuta fondamento delle istituzioni politiche costituzionali moderneOrlando Sacchelli - il Giornale Lun, 15/06/2015

Magna Charta, il seme della libertà religiosa
di Marco Ventura Corriere 15.6.15
C’era Dio in cima alla Magna Charta , la celebre carta delle libertà che compie oggi otto secoli. Per «grazia divina» Giovanni regnava sull’Inghilterra ed era ecclesiastica la prima libertà enumerata: «La Chiesa inglese sarà libera, i suoi diritti resteranno integri e le sue libertà non verranno violate». Ricordando quel compromesso tra potenti, la limitazione del sovrano, il catalogo di diritti, è dunque la libertà della Chiesa che commemoriamo in primo luogo. Nel 1215 l’impegno affinché «Anglicana Ecclesia libera sit» doveva il suo significato al contesto del tempo: scomunicato da Innocenzo III per le sue misure anti-ecclesiastiche, re Giovanni Senzaterra firmava, nella Magna Charta , la sua resa al potere dei vescovi e del Papa. Nell’esperienza anglosassone successiva, la libertà della Chiesa è divenuta poco a poco libertà delle Chiese, e infine, almeno in principio, libertà religiosa di tutti. Per il giudice inglese Lord Bingham of Cornhill la Magna Charta è stata decisiva tanto «per ciò che essa disse», quanto «per ciò che si è ritenuto essa abbia detto». Agli storici spetta spiegare cosa volle dire allora quel «la Chiesa inglese sarà libera». A noi tutti, oggi, spetta celebrare ciò che le generazioni succedutesi hanno «ritenuto» la Magna Charta abbia detto. Ovvero che cominciano dalla libertà dei gruppi religiosi le libertà civili e politiche di ogni nazione. 

Così un re senza scrupoli inventò lo Stato di dirittoUna mostra celebra gli otto secoli della "Magna Charta": era il 15 giugno 1215 quando Giovanni Senzaterra accontentò i baroni infuriati. E fece nascere un mitoAridea Fezzi Price - il Giornale Sab, 11/04/2015 -

L’anniversario 15 giugno 1215
Il mito della Magna Charta Sancì le libertà, è vero, ma dei baroni

Ivanhoe e Robin Hood? Dimenticateli L’ottavo centenario di un documento dal nome solenne e un po’ ingannatore Una vicenda più francese che inglese

di Franco Cardini Corriere La Lettura 15.2.15
Grande anno di celebrazioni, questo 2015: centenario, o cinquantenario, o pluridecennale o comunque anniversario di un sacco di cose. Un tempo si diceva che la «storia per anniversari» era roba per assessori: oggi si comincia forse quasi a rimpiangere quel tempo felice nel quale politici e amministratori avevano talora un occhio per la storia. Il 15 giugno prossimo si celebrerà l’ottavo centenario di un documento dal nome solenne e un po’ ingannatore, Magna Charta Libertatum , attorno al quale aleggia ancora una specie di mito, garante del quale è la grande letteratura dell’Ottocento romantico inglese: quello di sir Walter Scott, del suo Ivanhoe , dell’immaginario «Ritorno del re giusto» rappresentato dal buon re Riccardo «Cuor di Leone» reduce dalla crociata. 


Peccato solo che Riccardo I Plantageneto, peraltro coraggioso guerriero, non fosse per nulla un «buon re», sotto alcun punto di vista; e che dalla crociata (la «terza») rientrasse in effetti in Inghilterra nel 1194, ma vi si trattenesse soltanto poco tempo prima di trasferirsi al di qua della Manica, nel suo ducato di Normandia, dove in quanto tale era vassallo del re di Francia Filippo II Augusto, suo compagno d’arme nella crociata e suo avversario storico. Dal continente non sarebbe più tornato: una freccia che lo colse durante una modesta scaramuccia lo fece uscire, appena quarantaduenne, dalla scena della storia. 

Che ne è quindi delle vecchie care storie di Walter Scott, quelle che hanno fornito materiale a tanti film da «medioevo in calzamaglia» — da Errol Flynn a Sean Connery — con il brigante-gentiluomo Robin Hood «che ruba ai ricchi per dare ai poveri», in realtà spirito folclorico dei boschi a suo tempo decrittato da Eric Hobsbawm e del quale ha poi finito con l’impadronirsi il solito Walt Disney? Fu l’Inghilterra della regina Vittoria e di re Giorgio V, la Grande patria liberale, imperiale e colonialista della democrazia costituzionale europea, a comporre i differenti episodi della sua storia in un trionfale cammino teso verso la libertà moderna e a stabilire su ciò un longevo mito paradigmatico. All’interno di esso, la Magna Charta rifulgeva di luce propria come documento ed episodio fondatore di un lineare cammino di liberazione scandito dalla Gloriosa rivoluzione di Guglielmo d’Orange, dalla Costituzione americana, dalla nostra democrazia. 

Se accettassimo questa persistente e rassicurante affabulazione parastorica, tutto sarebbe chiaro e coerente. Ma le cose non stanno esattamente così; Max Weber, impartendoci la dura ma salutare lezione del «disincanto», ci ha insegnato a guardar bene dentro il passato per liberarlo da equivoci e contraddizioni. La Magna Charta Libertatum fu un documento promulgato dal re d’Inghilterra Giovanni I detto «il Senzaterra», fratello di Riccardo (erano entrambi figli di Enrico II e della grande Eleonora d’Aquitania), il quale — «graziosamente» e «spontaneamente», sul piano formale — limitava le prerogative regie nei confronti dell’aristocrazia feudale. In realtà si trattò del risultato di un braccio di ferro durato a lungo, di una duplice sconfitta — militare e politica — del sovrano e di un compromesso tra la corona e l’aristocrazia che fondò la vera e propria «monarchia feudale». 
La vicenda affonda i suoi presupposti non tanto nella storia inglese, quanto in quella francese. Nel corso dei decenni centrali del XII secolo il re capetingio Luigi VII aveva lavorato al consolidamento del potere della monarchia. La sua opera fu continuata dal figlio Filippo II Augusto (sul trono dal 1180 al 1223), che riformò la cancelleria e la corte e dette ulteriore impulso sia alla riorganizzazione amministrativa della corona, sia al rapporto fra questa e i ceti mercantili, che si sentirono privilegiati e protetti. Era comunque per lui prioritario risolvere il problema costituito dal fatto obiettivo che il re d’Inghilterra, suo vassallo in quanto duca di Normandia, conte d’Anjou e del Maine, duca d’Aquitania e di Guascogna nonché conte del Poitou, era signore effettivo di gran parte del territorio francese: a lui guardavano tutti gli aristocratici che, in un modo o nell’altro, intendevano svolgere una politica autonoma rispetto al loro re. 
In Inghilterra, intanto, il regno di Enrico II aveva posto fine a un periodo di torbidi, che tuttavia ripresero alla sua morte (1189): la situazione si andò deteriorando con i suoi figli e successori Riccardo «Cuor di Leone» (1189-99) e Giovanni «Senzaterra» (1199-1216). I due, d’indole entrambi labile e ombrosa e per giunta in discordia tra loro, si erano già ripetutamente ribellati al padre. Giovanni, che aveva prima tentato di usurpare il potere del fratello e gli era poi succeduto nel 1199, condusse una politica scriteriata che gli inimicò al tempo stesso la nobiltà laica e le gerarchie ecclesiastiche: giunse addirittura a confiscare i beni ecclesiastici attirandosi per questo la scomunica di papa Innocenzo III; dopo di che, intimidito dalla reazione, corse ai ripari prestando omaggio feudale al pontefice (il che peraltro rinnovava una consuetudine normanna dell’XI secolo). 
Filippo Augusto di Francia colse l’occasione della debolezza e dell’incapacità del suo vassallo Giovanni e, sfruttandone la fragilità, nel 1202 lo dichiarò colpevole di «fellonia» (il delitto del quale si macchiava il vassallo infedele) e lo privò formalmente di tutti i suoi diritti feudali, Aquitania esclusa. La risposta di Giovanni, dopo lunga incertezza, fu l’alleanza con il suo congiunto Ottone IV di Braunschweig, pretendente alla corona reale di Germania e concorrente del candidato favorito del Papa, Federico di Svevia (il futuro Federico II). Si configurò dunque una guerra europea franco-anglo-germanica che vide la coalizione tra Giovanni e Ottone scontrarsi con quella tra Filippo Augusto e Federico. Le sorti si decisero il 27 luglio 1214 nella battaglia di Bouvines, una località franco-settentrionale poco distante da Lille. Fu, quella, la celebre Domenica di Bouvines celebrata in un indimenticabile libro di Georges Duby (Einaudi). 
Sconfitto sul campo, Giovanni fu costretto a prestare di nuovo omaggio feudale al re di Francia e a piegarsi ai suoi baroni ch’erano guidati dall’energico Stefano Langton, arcivescovo di Canterbury, riconoscendo tutte quelle prerogative e quei diritti (le libertates ) sia della Chiesa, sia della nobiltà feudale laica, che aveva tentato di violare. In particolare dovette rinunziare al diritto d’imporre nuove tasse senza il consenso dei suoi nobili riuniti in un Magnum Consilium (dal 1242 definito Parlamentum ) e di consentire che essi, in caso di processo, venissero giudicati da una corte di loro pari. 
Va da sé che la Magna Charta non fu evidentemente intesa come uno strumento di «modernizzazione»: al contrario, sotto il profilo giuridico essa rappresentava il ristabilimento di antiche consuetudini poi cadute in disuso. Mentre la corona francese, con la sua forte spinta all’accentramento dei poteri, poneva le basi dello Stato moderno, quella inglese non faceva che piegarsi dinanzi ai diritti tradizionali che la feudalità aveva sempre rivendicato e che essa aveva cercato di strapparle. 
Ecco il paradosso che ci sfugge. In sé, il celebrato documento — considerato dal punto di vista «moderno» — fu un «passo indietro» sulla strada che avrebbe condotto allo Stato assoluto e quindi alla democrazia. Esso affermava comunque libertates che poi sarebbero state rivendicate dalle borghesie urbane. Ci sarebbe voluto ancora quasi un mezzo millennio: ma da lì sarebbe scaturita quella libertà britannica, madre dell’americana, nella quale noi riconosciamo una radice della democrazia. Sennonché, si trattava — e si tratta — della democrazia «aristocratico/oligarchica» delle libertà (al plurale), quella di Edmund Burke: non lontanissima sotto molti aspetti dall’ordine auspicato dai tradizionalisti de Maistre e Donoso Cortés, e ben diversa comunque dalla democrazia egalitaria della Liberté , quella di Jean-Jacques Rousseau, madre della Rivoluzione francese, ma anche dei totalitarismi. 

Magna Carta, qui cominciano le libertà
Compie 800 anni (ed è ancora in vigore) il documento alla base della Costituzione inglese e dei diritti individuali contro l’autorità arbitraria del despota In realtà all’inizio serviva soprattutto a difendere gli interessi dei baronidi Alessandro Barbero La Stampa 26.4.15
Ottocento anni fa, nell’estate 1215, papa Innocenzo III dovette occuparsi di una seccatura proveniente dall’Inghilterra. Il re Giovanni raccontava di essere stato costretto dai baroni ribelli a firmare un documento, una carta, di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Si era dovuto impegnare a non imporre nuove tasse senza il consenso di un’assemblea di vescovi e baroni, a non negare la giustizia a nessuno, non ritardarla e non venderla; a non far arrestare un uomo libero né confiscare i suoi beni «se non per giudizio legale dei suoi pari». Il re aveva anche promesso di ottenere l’approvazione del Papa; e infatti scrisse subito a Roma, ma per informare Innocenzo III che i baroni lo avevano obbligato a firmare con la violenza e chiedergli di annullare il documento.
Il Papa era impegnato nella convocazione del IV Concilio Lateranense, che si sarebbe aperto a novembre e in cui, fra l’altro, si preparava ad autorizzare gli ordini mendicanti e istituire l’Inquisizione: insomma, aveva molto da fare. La faccenda di re Giovanni venne sbrigata al più presto: Innocenzo III decretò che la carta era «vergognosa, umiliante, illegale e ingiusta», la dichiarò «cassata e invalida per sempre», e minacciò di scomunica chiunque tentasse di farla osservare.
Senza dubbio il Papa e re Giovanni pensavano che la questione fosse liquidata, e sarebbero rimasti molto sorpresi se avessero saputo che già l’anno seguente la carta venne solennemente confermata ed entrò in vigore come legge del regno. Ma non lo seppero mai, perché nel frattempo entrambi erano morti: il re aveva 50 anni e il papa 55, erano uomini vecchi per il loro tempo.
Una lettura antistorica
Ma il figlio di Giovanni aveva solo otto anni, e i suoi consiglieri preferirono tenersi buoni i baroni: perciò il nuovo re rinnovò la concessione, e ne aggiunse parecchie altre. Per distinguerla da queste ultime, la garanzia di re Giovanni cominciò a essere chiamata la Magna Carta, e con questo nome fu via via confermata da ciascun re d’Inghilterra. Letta due volte all’anno al popolo in tutte le cattedrali del regno, recitata quattro volte all’anno in ogni contea all’apertura della sessione giudiziaria, solennemente confermata a ogni sessione del Parlamento, la Magna Carta entrò a far parte delle nozioni elementari che definivano l’identità inglese.
Fra Cinque e Seicento eruditi e giuristi la trasformarono in un mito. La Magna Carta, sostennero, incarnava la libertà naturale di ogni inglese, che il dispotismo dei re normanni aveva cercato di soffocare. Era una lettura del tutto antistorica: le garanzie concesse da Giovanni riguardavano gli uomini liberi, ma l’Inghilterra medievale era un paese dove il servaggio contadino era più diffuso che sul continente, per cui la stragrande maggioranza degli inglesi non era tutelata dalla Magna Carta. Ma in compenso questa lettura era estremamente attuale, perché all’inizio del Seicento i re d’Inghilterra, imitando i loro vicini francesi, affermavano che il loro potere derivava direttamente da Dio, e pretendevano di imporre nuove tasse senza consultare il Parlamento. Studiare la Magna Carta diventò pericoloso: Carlo I cominciò a far arrestare gli eruditi che ne parlavano troppo e a vietare la pubblicazione di libri sull’argomento. Si sa come andò a finire: il Parlamento perse la pazienza e dichiarò guerra al re, lo sconfisse, lo processò per alto tradimento e nel 1649 lo giustiziò sul patibolo.
L’habeas corpus
A questo punto la Magna Carta incarnava agli occhi di tutti i princìpi fondamentali della costituzione inglese e della common law: l’habeas corpus, per cui la polizia non può arrestare nessuno senza l’autorizzazione di un giudice, il diritto a essere processati davanti a una giuria di cittadini, il principio per cui anche il re è soggetto alla legge e le tasse devono essere approvate dal Parlamento. Perfino i vincitori della guerra civile scoprirono che governare entro i limiti imposti dalla Magna Carta era molto fastidioso: Cromwell, diventato a tutti gli effetti dittatore d’Inghilterra, ebbe a definirla «Magna Farta» (da fart, che in inglese significa «peto»). Ma la vecchia pergamena sopravvisse anche alla dittatura puritana, ispirò i coloni americani nella loro rivolta contro la madrepatria, s’intrufolò nella Costituzione degli Stati Uniti, tanto che occasionalmente la Corte Suprema la cita nelle sue sentenze, e per quanto possa sembrare incredibile è tuttora in vigore nel Regno Unito.
Non tutta, in verità: la Magna Carta originale conteneva ben 63 articoli su tutti i temi possibili, compreso il divieto di processare qualcuno per omicidio se l’accusa era presentata da una donna, a meno che la vittima non fosse il marito. Quasi tutti gli articoli sono stati abrogati a partire dall’Ottocento; ne restano in vigore solo tre. Uno difende la libertà della Chiesa d’Inghilterra, un altro garantisce i privilegi della City di Londra, e il terzo è quello, famoso, che permette a ciascuno di essere giudicato dai suoi pari. Ma i giudici inglesi continuano a citarla come «la più grande carta costituzionale di tutti i tempi - il fondamento della libertà dell’individuo contro l’autorità arbitraria del despota».
La storia continua
Inutilmente gli storici hanno segnalato che in origine la Magna Carta serviva soprattutto a difendere gli interessi dei baroni: il mito è più importante della verità storica, e forse è bene così. Sotto la minaccia del terrorismo, il parlamento inglese ha approvato dal 2000 in poi una serie di leggi che permettono alla polizia di imprigionare i sospetti di terrorismo e interrogarli senza dover presentare un atto d’accusa per un tempo limite di 7 giorni, poi prolungati a 14 e finalmente a 28. Nel 2008 il governo chiese di innalzare il limite a 42 giorni; durante il dibattito, il vecchio laburista Tony Benn dichiarò: «Non credevo che mi sarei trovato in questa Camera il giorno in cui avrebbero abolito la Magna Carta». Il governo subì una schiacciante sconfitta e ritirò il provvedimento; oggi il periodo massimo di detenzione senza accusa nel Regno Unito è stato abbassato a 14 giorni. Anche nel XXI secolo la Magna Carta continua a fare il suo lavoro.

Magna Charta Il primo diritto o l’ultimo dei privilegi?
A ottocento anni dalla concessione dell’habeas corpus in Inghilterra ci si chiede se davvero la democrazia iniziò in quel momentodi Raffaella De Santis Corriere 16.6.15
Tra celebrazioni e discussioni, ieri si sono festeggiati gli ottocento anni della Magna Charta. Il documento che il re inglese Giovanni Senzaterra fu costretto a concedere ai nobili, fu firmato a Runnymede, lungo il Tamigi, il 15 giugno del 1215. Era la prima volta che il sovrano limitava il proprio potere assoluto e per questo quell’atto viene considerato come il momento in cui nasce il costituzionalismo inglese. Il fatto che quel patto venga modificato molte volte nei tempi successivi non fa che attestare la sua importanza.
Da qualche giorno la stampa anglosassone non parla d’altro. Sul Tamigi sono state organizzate parate e sono arrivate decine di telecamere a riprendere la regina Elisabetta e il premier David Cameron. La British Library ha inaugurato una grande esposizione, e perfino Google ieri celebrava sulla homepage l’evento con un doodle animato. Ma tra gli storici le opinioni divergono. Tutto ruota intorno a una domanda: la Magna Charta è davvero il documento fondativo delle nostre libertà democratiche e costituzionali? A tanti secoli di distanza la questione è aperta. Con quel documento il re assicurava ai baroni che non potevano essere catturati, torturati, sbattuti in prigione indiscriminatamente. In poche parole non potevano essere spossessati dei loro diritti, né violati nella loro integrità fisica. Stefano Rodotà che da anni si occupa dei diritti della persona spiega: «È chiaro che la Magna Charta non è una concessione di diritti a tutti i cittadini ma solo ad alcune categorie, come ecclesiastici e nobili. Ma ha una simbolicità innegabile, soprattutto per quanto riguarda l’articolo trentanove, in cui è introdotto l’Habeas corpus, a garanzia del corpo e dei diritti della persona ». Quell’articolo dice: «Non metteremo le mani su di te. Per questo fu uno strumento importante della limitazione del potere».
Nel corso degli anni, la Magna Charta è chiamata in causa ogni volta che ci sono lotte per la libertà degli individui. C’è una Magna Charta dietro Oliver Cromwell, una che attraversa l’oceano e arriva ad animare la rivoluzione americana, una Magna Charta dietro le lotte per l’indipendenza di Gandhi e di quelle di Nelson Mandela. Claire Breary, a capo dei manoscritti medievali della British Library ha detto: «È diventata un simbolo di libertà e di diritti, è nota in tutto il mondo come il testo che difende da qualunque tirannia». Dunque, sebbene vada inscritta nel quadro di una giurisprudenza feudale, la Magna Charta Libertatum è stata interpretata come il documento che pone le basi per il riconoscimento universale dei diritti dell’uomo e del cittadino.
Non tutti però sono d’accordo. Tra gli studiosi c’è chi considera certi toni esageratamente celebrativi. «In realtà si tratta solo del risultato di una lotta interna alle élite per i loro privilegi », ha scritto sul New York Times Tom Ginsburg, professore di diritto internazionale a Chicago. E Carlo Galli, filosofo politico, chiarisce: «La Magna Charta non è altro che una delle tante forme di pattuizione che nel Medioevo intercorrono tra monarchi e nobili, i quali ottengono che il re non possa chiedere loro aiuti economici senza prima averli consultati. Tutte le altre valutazioni sono costruzioni ideologiche posteriori,  narrazioni, invenzioni ideate nel XVI e XVII secolo e portate avanti nell’Ottocento. Dire che si fonda sui diritti umani uguali per tutti è come dire che Giulio Cesare andava in bicicletta. Ma così l’Inghilterra ha costruito il suo mito politico». Quindi, non dobbiamo considerare la democrazia occidentale come figlia della Magna Charta? «La nostra democrazia si fonda sulla rivoluzione francese e sulla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino, in cui il potere appartiene a tutto il popolo». In un articolo sul
New Yorker , Jill Lepore, docente di storia ad Harvard, ha scrit- to che «l’importanza della Magna Charta è stata sopravvalutata e il suo significato distorto ». Per uno storico del diritto penale antico attento a questi temi come Adriano Prosperi è invece proprio da questo documento che prende vita il parlamentarismo, attraverso la nascita delle prime assemblee dei baroni ed è lì che si pone la «questione decisiva della protezione dei diritti della persona». Il problema è semmai un altro: il modo in cui noi occidentali siamo riusciti a dimenticare i sacri principi di quella Charta. Dice Prosperi: «In nome del terrorismo come nemico assoluto ha prevalso il principio dell’efficacia. Viviamo ormai in uno stato d’eccezione permanente che erode ogni diritto». Il tema è infinito e nell’era di Internet si complica. «Oggi avremo bisogno di proteggere il nostro corpo elettronico», dice Rodotà, che sta coordinando la commissione parlamentare per la “Dichiarazione dei diritti di Internet”. Il prossimo passaggio sarà la nascita dell’Habeas Data. 

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