martedì 3 marzo 2015
Il "tradimento" nella politica: il libro di Marcello Flores
Marcello Flores: Traditori. Una storia
politica e culturale, il Mulino
Risvolto
In ogni epoca il tradimento è stato considerato il crimine peggiore.
Questo libro ricostruisce la storia del tradimento "moderno", quello che
s'impone attorno alla metà del Settecento e si diffonde con le
rivoluzioni americana e francese, quando si perfeziona una concezione
del tradimento politico come rottura del patto che unisce tutti i
cittadini alla propria patria. Ma chi è davvero un traditore quando si
combatte per l'indipendenza del proprio paese o quando si vuole
rovesciare un governo e cambiare radicalmente lo stato? Dalla
rivoluzione americana alla Grande Guerra, un'affollata galleria di casi,
tratti sia dalla storia europea sia da quella di Stati Uniti, Giappone,
Argentina, Messico, sia dalla storia della colonizzazione in Cina,
Sudafrica, India.
Solo chi perde è un traditore
Non si considera mai sleale il vincitore se cambia posizione al momento giusto Un saggio di Marcello Flores I casi di Milziade e di Temistoicle ad Atene Il concetto medievale di lesa maestà, la svolta delle rivoluzioni settecentesche
di Paolo Mieli Corriere 3.3.15
Infinite sono le leggi che regolano lo studio del tradimento nella
storia. Ma due sono superiori alle altre. La prima: chi vince non verrà
mai considerato un traditore. La seconda: il tradimento è questione di
date, ciò che oggi è considerato un tradimento, domani potrà essere
tenuto nel conto di un atto coraggioso. In principio a tradire sono
stati Palamede (nel mito riconducibile a Omero) e Tarpea (in quello
romano riferito da Tito Livio). Palamede, re dell’isola di Eubea,
costringe Ulisse a partire per la guerra di Troia smascherandone la
finta pazzia. Per vendicarsi, tempo dopo, Ulisse lo farà apparire come
un traditore al cospetto di Agamennone, portando come prova una falsa
lettera di Priamo, re di Troia. Il sovrano di Eubea verrà condannato e
messo a morte sulla base delle prove artefatte prodotte da Odisseo.
Interessante la circostanza che il primo, all’inizio del mito e della
storia, a cui è stato imputato un tradimento, sia un uomo accusato
ingiustamente. Talché Socrate, al momento di morire, vorrà ricordare
proprio Palamede come esempio di ingiustizia travestita da giustizia.
Tarpea è la figlia del guardiano del Campidoglio che si rende
disponibile, in cambio di gioielli, ad aprire le porte della cittadella
ai sabini ansiosi di riprendere le loro donne rapite con il celebre
ratto. Ma il re dei sabini Tito Tazio, una volta ottenuto quel che
voleva, la fa uccidere. Strana storia. Nel libro I supplizi capitali.
Origine e funzioni delle pene di morte in Grecia e a Roma (Feltrinelli),
Eva Cantarella riferisce di una seconda versione della leggenda,
secondo la quale Tarpea avrebbe attirato i sabini in una trappola e per
questo Tazio l’avrebbe fatta uccidere. Sarebbe stato dunque per
gratitudine che i romani avrebbero dato il nome della ragazza alla rupe
da cui venivano fatti precipitare i traditori. Anche qui, un curioso
capovolgimento di senso alle origini del mito.
È a questa categoria di uomini e donne che Marcello Flores ha dedicato
lo straordinario libro Traditori. Una storia politica e culturale , di
imminente uscita per i tipi del Mulino. È una storia del tradimento
dalle origini della storia fino al primo grande conflitto mondiale. A
partire dalla guerra del Peloponneso, che si concluse con la sconfitta
di Atene dopo che nel corso di ventisette anni furono consumati
«ventisette tradimenti pubblici». Il più celebre dei quali fu quello di
Alcibiade in un interminabile andirivieni tra Atene e Sparta provocato
da false accuse che gli erano state mosse alla vigilia della partenza di
una spedizione, da lui guidata, alla volta della Sicilia. Prima di
allora c’erano stati però due casi clamorosi dell’ambiguità che avvolge
le accuse di tradimento. Milziade, vincitore di Maratona (490 a.C.), che
muore in carcere dopo essere stato ingiustamente accusato di aver
ordito trame assieme ai nemici. E Temistocle, il costruttore della
grandezza navale ateniese, l’artefice della vittoria di Salamina (480
a.C.), indotto al suicidio per aver cercato, assieme a Pausania, un
accordo «politico» con la Persia.
Il fatto è che in Grecia, come ha messo in risalto Anton-Hermann
Chroust, i politici avrebbero preferito vedere «la perdita
dell’indipendenza nazionale a vantaggio di una potenza straniera»
piuttosto che assistere al trionfo della fazione avversa: la nozione di
patriottismo «sembra essere animata da una cieca lealtà partigiana,
piuttosto che da una fedeltà patriottica alla città o da un attaccamento
alla costituzione esistente e alle leggi approvate». Non va poi
dimenticato, scrive Flores, che, «senza entrare nel dibattito
storiografico sull’eredità di Pericle, sull’efficacia del suo progetto
democratico, sulla deriva populista con cui caratterizzò il proprio
dominio», ad aprire la strada all’uomo simbolo della democrazia greca fu
proprio l’accusa di tradimento rivolta al suo avversario Cimone. Quel
Cimone condannato all’ostracismo per aver cospirato con Sparta ai danni
della città e, in conseguenza di ciò, esiliato per ben dieci anni.
Il tradimento, come hanno mostrato oltre agli studi sociologici anche
quelli filosofici e giuridici, è spesso «una percezione soggettiva, un
evento relativo e non assoluto, perché dipende da una relazione
congiunturale in un contesto particolare e perché appare tale quando le
dinamiche di potere si sono concluse e manifestate». Ragion per cui,
scrive Flores, «chi vince non è mai un traditore» (come si era detto
all’inizio). Una prova? Quello che ad ogni evidenza appare come «il
primo esempio di un colossale tradimento collettivo — la guerra
d’indipendenza delle colonie americane dalla Gran Bretagna — in nessun
libro di storia potrà essere giudicato come tale». Nel corso dei tempi,
l’attributo di traditore è stato dato, elenca Flores, «agli apostati,
agli eretici, ai convertiti, ai rinnegati, ai transfughi, agli
ammutinati, ai disertori, alle spie, agli informatori, alle quinte
colonne, ai collaborazionisti, ai ribelli, ai rivoluzionari, ai
terroristi, ai voltagabbana, ai pentiti, ai crumiri; per non parlare
degli infedeli e degli adulteri all’interno della sfera privata».
Si tradisce, ha scritto Gabriella Turnaturi in Tradimenti.
L’imprevedibilità nelle relazioni umane (Feltrinelli), «se stessi, i
parenti, gli amici, gli amanti. La patria. Si tradisce per ambizione,
vendetta, leggerezza, per affermare la propria autonomia, per cento
passioni e cento ragioni». Il traditore, ha specificato Giulio Giorello
in Il tradimento. In politica, in amore e non solo (Longanesi), è «chi
illude gli altri e magari se stesso grazie alla capacità di varcare ogni
limite sfidando natura e fortuna, o addirittura la volontà divina»,
investendo «la cosmologia, perché mira a squassare l’intero universo; la
politica che è la sua nicchia d’elezione; la teologia perché non esita a
coinvolgere Dio; la metafisica, ove il tradimento svela le strutture
profonde, sottostanti alla superficie delle apparenze; l’etica, che dal
tradimento viene plasmata, ora resistendovi, ora inglobandolo in un
processo incessante di chiarificazione della mente; l’arte, poiché
tradire è insieme un evento del mondo e uno stato dell’anima». In
realtà, precisa Flores, «l’idea di tradimento, la percezione e il
giudizio che ne danno i contemporanei e i posteri, cambia più
profondamente di quanto non ci dicano le definizioni filosofiche, le
formalizzazioni giuridiche, le tipologie costruite dai modelli
sociologici».
Il Medioevo è un momento di grande rielaborazione del tema del
tradimento. Dal dibattito sulla figura di Giuda che ha consegnato Cristo
ai romani e che inizia ad essere discussa in una luce nuova (la sua
missione sarebbe stata quella di rendere possibile il disegno di Gesù) a
quella di Ganelon (Gano di Maganza), l’uomo che tradisce Rolando
mettendosi d’accordo con il re saraceno Marsilio alla vigilia della
battaglia di Roncisvalle (778) e che sostiene di essere stato tradito a
sua volta nel momento stesso in cui era stato inviato in missione presso
il sovrano dei mori.
Anche la storia della nascita delle nazioni, in particolare Inghilterra e
Francia, è costellata di tradimenti. La lesa maestà — nelle forme
codificate dalla legge di Edoardo III del 1351 — resta l’essenza del
tradimento, ma con gli anni — dalla seconda metà del Cinquecento —
sempre più la maiestas si viene a identificare «con l’astratto corpo
sociale rappresentato dal sovrano, e cioè lo Stato o la patria,
piuttosto che con la persona del re». Un nuovo grande cambiamento
avviene verso la metà del Settecento, «quando il tradimento della
fedeltà al sovrano e della lealtà dinastica è sostituito un po’ alla
volta dal richiamo alla fedeltà alla nazione e alla lealtà verso la
Costituzione». Il tradimento, abbiamo visto, è la rottura del patto di
lealtà che ci unisce alla nostra comunità e alle sue istituzioni
simboliche e rappresentative. Questa «infedeltà», scrive Flores, ha una
valenza universale che si ritrova, «pur con molte varianti», nei secoli.
La grande «diversità con cui il tradimento è stato percepito, vissuto,
condannato e utilizzato, dipende da contesti storici diversi, da
istituzioni profondamente diseguali, da legislazioni differenti». Quello
che cambia di più, in ogni situazione, «è il senso di appartenenza e di
identità che prevale nelle comunità in cui ha luogo il tradimento, è la
valutazione del reato che ne danno le istituzioni e le leggi, è il
senso di partecipazione e di coinvolgimento dei cittadini, del popolo e
della pubblica opinione». Gli ultimi trent’anni del Settecento
rappresentano, per lo meno nella storia dell’Occidente, «un momento di
rottura profonda e permanente, tanto da costituire tradizionalmente
l’inizio della storia contemporanea». È il periodo in cui si affaccia la
cultura dei diritti che l’Illuminismo sta diffondendo, in cui comincia a
precisarsi l’idea di nazione, in cui il capitalismo e la borghesia
muovono i primi passi, «in una convergenza che porta a ribaltare quello
che verrà chiamato l’antico regime e a creare nuovi legami, nuove
comunità e, di conseguenza, nuove lealtà e nuove fedeltà». Ma anche
«nuovi tradimenti» o «tradimenti di tipo nuovo». È negli ultimi
vent’anni del Settecento che l’idea di tradimento conosce «una
trasformazione profonda, si rinnova e si articola secondo modelli,
percorsi politici e giuridici che si svilupperanno ulteriormente
dell’Ottocento».
A segnare questa svolta sono «le grandi rivoluzioni che accompagnano la
nascita degli Stati Uniti e la vittoria della Repubblica in Francia,
perché è da questo momento che la fedeltà non è più indirizzata al
sovrano, a un’entità individuale, ma riguarda la collettività, serve a
costruire e a rafforzare il “noi”, il gruppo e la comunità cui si sente
di appartenere e che l’emergere dello Stato-nazione moderno rende sempre
più forte ed esigente». Alla fine del Settecento si assiste ad una
drastica trasformazione del tradimento e a una vera rottura nella sua
definizione giuridica e politica. È in questo periodo, a cavallo delle
due grandi rivoluzioni che aprono l’epoca contemporanea — quella
americana e quella francese —, «che il concetto di lealtà e di fedeltà
muta significato perché cambia l’oggetto cui fa riferimento». E qui
giova ricordare la definizione (di cui all’inizio) data nel 1815 da
Charles-Maurice de Talleyrand: «Il tradimento è una questione di date».
Niente come queste sette parole può spiegare come da questo momento,
all’indomani della definitiva sconfitta di Napoleone, «sia il potere che
vince o si rafforza a dettare la norma, cogente e inappellabile».
Nella prima metà dell’Ottocento, prosegue Flores, « le accuse e i
processi di tradimento sono quasi sempre strettamente collegati a
tentativi, reali o presunti, di cospirazione contro il potere
esistente». Ed è così fino al 1848. La nuova definizione legislativa del
reato di tradimento, avvenuta nel Regno Unito proprio nel 1848,
«sancisce definitivamente l’identificazione tra la volontà di rovesciare
il governo e il muovere guerra alla regina, tra sedizione politica e
progettazione della morte del sovrano». Ma questo «avviene di fatto
depotenziando la sacralità della figura monarchica e riducendola a
simbolo di ogni attacco contro le istituzioni, la costituzione, il
governo». Poi, «pur nell’ovvia e profonda diversità tra un regime
liberale (quello britannico o statunitense), un regime rivoluzionario
autoritario (quello francese) e un regime autocratico e assolutista
(quello russo, austriaco, prussiano), il reato di tradimento si
configura sempre più come lo strumento principale di una lotta politica
senza esclusione di colpi contro le opposizioni: che hanno in un caso
carattere politico, sociale o ideologico, nell’altro i tratti della
protesta liberale e nazionale».
Con l’avvento del XX secolo la patria «assume l’immagine totalizzante
della lealtà che si deve alla propria comunità e della fedeltà che si
deve al proprio Stato e alle proprie istituzioni». Da allora, ha scritto
Raymond Aron, «i traditori assumono la figura classica con cui li
raffigura l’immaginazione popolare: l’ufficiale di marina che trasmette
dei segreti ai servizi di spionaggio di una potenza straniera non può
agire che per motivi disprezzabili; il traditore oggettivo è, al tempo
stesso, un traditore soggettivo, non sembra più concepibile una
situazione in cui un uomo possa mettersi contro la propria patria per
motivi nobili». Almeno fino al Novecento, quando — come ha ben
documentato il libro di Phillip Deery e Mario Del Pero Spiare e tradire
(Feltrinelli) — saranno in molti a contraddire la parte finale
dell’enunciato di Aron, in ragione della loro militanza comunista.
Quando poi inizia la Prima guerra mondiale, si è costretti a prendere
atto del fatto che la lealtà a una dinastia non avrebbe più senso. Re e
imperatori sono strettamente imparentati tra loro: Nicola II di Russia e
Giorgio V d’Inghilterra sono cugini, così come lo stesso Giorgio V e il
kaiser Guglielmo II, nipote della regina Vittoria e cugino della moglie
dello zar, Alexandra, anche lei nipote della regina inglese. Sono gli
stessi sovrani a cercare un’identità nella propria nazione piuttosto che
nella famiglia di provenienza. I tradimenti che hanno costellato il
Sette e l’Ottocento, «da quello contro le autocrazie e la dittatura a
quelli per ottenere libertà e democrazia, da quelli per conquistare il
potere a quelli per cambiare il governo e la costituzione, da quelli per
raggiungere l’indipendenza a quelli per difendersi dall’arbitrio
coloniale, sono rientrati un po’ alla volta nel cono d’ombra della
sovversione, della ribellione, della rivoluzione, per poterli meglio
combattere e punire». Con la Prima guerra mondiale, infine, «inizia un
altro percorso, anch’esso accidentato e complesso, in cui il termine
stesso amplierà e restringerà il suo significato a seconda della
temperie storica e culturale e della contingenza politica, ideologica,
militare». Di lì prenderà inizio un tradimento di tipo nuovo, quello
novecentesco, condizionato in maniera determinante dalle ideologie. E,
in quanto tale, del tutto diverso da quello dei due o tremila anni
precedenti.
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