domenica 22 marzo 2015

Karl Polanyi 1918-1963


La recensione "antitotalitaria" fa cagare [SGA].

Karl Polanyi: Una società umana, un'umanità sociale - Scritti (1918-1963), dell'editore Jaca Book

Risvolto
Demolendo i tre dogmi su cui si fondano le moderne teorie sociali - gli individui sono guidati da motivazioni utilitaristiche, l’economia determina ogni aspetto della vita sociale, la libertà personale è un prodotto della libertà economica - Polanyi prospetta un futuro in cui l’economia possa essere reintegrata e subordinata agli altri rapporti umani. Un’utopia -scandalosa- in un’epoca come la nostra che vorrebbe sottomettere ogni aspetto della vita agli imperativi del mercato. Questa antologia (curata da Michele Cangiani e Claus Thomasberger e con una prefazione della figlia Kari Polanyi Levitt) aiuta il lettore a ripercorrere le tappe della maturazione intellettuale dell’autore e a ricostruire le molteplici ricerche storiche, antropologiche e politiche che ne hanno ispirato l’opera.


Lucido disincanto tra crisi e totalitarismi 

22 mar 2015  Il Sole 24 Ore
Karl Polanyi (1886-1964) è un intellettuale paradossale. Alcune delle diagnosi da lui proposte sono f all i t e miseramente o hanno mostrato la loro fragilità ( per esempio: il fallimento dell’economia di mercato, oppure la fine del mercato autoregolato. Idee che, rispettivamente, aprono e chiudono la sua opera più nota, La grande trasformazione, Einaudi). 
Ciò non toglie che il suo sforzo costante di leggere la realtà immediata sia affascinante e dimostra che si può essere smentiti dai fatti, pur vedendo correttamente i problemi che la realtà sociale ed economica propone. 
La raccolta di questi scritti ( Una società umana, un’umanità sociale. Scritti 1918-1963), che copre l’intero arco della sua produzione lo conferma. 
Karl Polanyi visse con difficoltà e sofferenza i l restringimento degli orizzonti seguito alla Prima guerra mondiale, alla grande crisi, al trionfo dei totalitarismi, al clima della guerra fredda. Guardò con disincanto e scetticismo l’innamoramento della sua generazione per il marxismo, dottrina che vedeva inclinare verso il fideismo e convinzione politica che egli già nel 1919 (pag. 73) paragona alla Chiesa. 
Ebbe l a percezione che una delle sfide che stavano di fronte alla crisi europea negli anni 20, crisi che un decennio dopo i totalitarismi avrebbero accentuato, consisteva nel pensare e proporre una nuova i dea di l i bertà che tenesse conto del principio di responsabilità. Per Polanyi già allora l a vecchia questione tra l i bertà negativa e l i bertà positiva – questione canonica proposta da Stuart Mill nel suo saggio La l i bertà e poi i n anni più vicini a noi i l l ust r a t a magistral mente da Isaiah Berlin – andava riformulata e poteva risolversi solo avendo chiaro ( scri ve nel 1 927) che essere l i bero « non significa esserlo dal dovere ma tramite i l dovere e l a responsabilità » ( pag. 136). Una convinzione che ripete dieci anni dopo, quando ribadisce che l a l i bertà autentica si misura nella condizione di accettare « l a nostra parte nel male comune » e consapevol i che l a società perfetta non esiste ( pagg. 190- 191). 
È da questa condizione di disincanto e di delusione che egli colloca la marea montante del fascismo nell’Europa degli anni 30 (non solo in Germania, ma anche in Austria, Paese in cui è vissuto esule per molti anni dopo esser fuggito dalla sua madrepatria, l’Ungheria). Un processo di delegittimazione della democrazia che irrompe in Europa all’indomani della Prima guerra mondiale e che a differenza di molti in quegli anni egli non vede solo come «malessere italiano». 
Ma anche intravede il processo che inevitabilmente conduce Stalin al patto con Hitler nel 1939. Scelta che risponde a un principio di realpolitik, ma che significa, anche, fine della presunta funzione di “guida” che l’Urss ha i ncarnato o voluto rappresentare. «Ciò che l’episodio Stalin-Hitler provò definitivamente fu che la rivoluzione russa aveva superato la fase dell’effervescenza ideologica», scrive riflettendo su quella decisione per molti scioccante (pag. 293). 
Allo stesso tempo è esemplare che egli colga nell’esperimento del governo laburista che tra il 1945 e il 1950 struttura lo Stato sociale e avvia la decolonizzazione, l ’ espressione di un Paese che vinta la guerra prova a trasformarsi per davvero, apparentemente ingrato rispetto a chi ( Churchill) dalla guerra l’ha fatto riemergere. In politica, osserva Polanyi, conta la voglia di provare e di rompere con le certezze. Un aspetto la cui eco è nelle note che nel 1945-1946 (pagg. 342-378) dedica al problema dell’istruzione per gli adulti, che non riduce solo a formazione professionale, ma come impegno verso l’acquisizione di una conoscenza generale. 
Una riflessione che in Italia, venti anni dopo, fu la battaglia, spesso in solitudine, di Vittorio Foa.

Vade retro mercato un’idea per Bergoglio 
Dall’antiliberismo all’utopia della “società umana” gli scritti dell’economista ungherese che piace al Papa
Massimiliano Panarari Tuttolibri 28 3 2015
«Grande trasformazione» è un’espressione saldamente entrata, da tempo, nei nostri conversari. E, anche se a una prima (e distratta) occhiata potrebbe apparire quasi come uno slogan, la larga diffusione di quello che era il titolo dell’opus magnum di Karl Polanyi (1886-1964) testimonia del recente ritorno di influenza di questo eterodosso pensatore del socialismo umanistico di radici ebraiche e origini ungheresi. Un influsso carsico che ultimamente si è fatto più palese, al punto da avere indotto la rivista 
Usa Atlantic 
a indicarlo come il vero riferimento della dottrina sull’economia di Papa Bergoglio; e oggi si può tornare a discorrerne anche in Italia, al di fuori dei circuiti specialistici, cogliendo l’occasione della pubblicazione presso Jaca Book di una nutrita antologia di scritti (alcuni dei quali inediti), che coprono un ampio arco dell’attività del sociologo, storico e antropologo (dal 1918 al ’63). Un’esistenza di riflessione e studio all’insegna dell’interdisciplinarietà (aspetto che ne ostacolò ulteriormente la ricezione) che, dopo gli anni turbolenti e difficili nell’Europa continentale, e la scelta di non intraprendere nel suo Paese una «regolare» carriera accademica, lo vedrà emigrare in Gran Bretagna nel ’33 e insegnare per diversi anni, dal ’47, alla Columbia University di New York.
E pure una vita assai intensa, che lo condusse a impegnarsi allo spasimo per mantenere la famiglia dopo la morte prematura del padre, a darsi alla politica, su posizioni liberal-riformiste, cofondando a Budapest il Partito radicale dei cittadini (di cui fu anche segretario), a combattere come ufficiale di cavalleria dell’esercito austro-ungarico e, quindi, al ritorno dalla Prima guerra mondiale, a trasferirsi a Vienna per lavorare come giornalista dell’Österreichische Volkswirt, il principale quotidiano finanziario della Mitteleuropa dell’epoca. 
I testi qui antologizzati rappresentano, in alcuni casi, il cantiere preparatorio de La grande trasformazione (uscita nel ’44), ed evidenziano la varietà di interessi e gli approdi di una meditazione che non riconosceva steccati tra i campi, animata da una visione olistica dei meccanismi di funzionamento dell’economia all’interno delle comunità umane. Tutti scritti che ribadiscono inoltre, lungo un percorso culturale tanto vario – nel quale si va dai commentari sulla teoria marxiana dell’autoalienazione all’illustrazione delle radici culturali del fascismo, dalla politica «interna» (l’Austria corporativa) a quella internazionale (Trotsky, il Partito laburista britannico, l’America del New Deal), sino al tema dell’istruzione popolare degli adulti e delle classi lavoratrici – la presenza di un filo rosso unitario e di una sua (non precisamente) «magnifica ossessione». Vale a dire l’idea del carattere integralmente artificiale e «utopico» del mercato e quella della falsità-impossibilità della tesi della sua autoregolazione. Se ne era persuaso avvalendosi della strumentazione dell’antropologia e studiando quelle società primitive e arcaiche in cui l’economia risultava inserita e riassorbita in toto dalla trama delle (peraltro rigidissime se non immutabili) relazioni sociali; e, in tal modo, era arrivato a elaborare il modello delle tre forme di allocazione o dei tre principi di integrazione fra economia e società (reciprocità, redistribuzione e scambio di mercato). 
Nei saggi più teorici raccolti in questo volume lo studioso stigmatizzava senza sosta, in particolare, quella che reputava una triade fallace: il paradigma dell’homo oeconomicus (di cui voleva effettuare una decostruzione), il determinismo economico (che accomunava il capitalismo e il marxismo in versione tecnocratica) e la Weltanschauung che faceva discendere la libertà personale da quella economica. Attraverso quello che potremmo chiamare un mosaico di lavori di genealogia (orientati da una filosofia politica che miscelava in maniera peculiare marxismo non deterministico e personalismo comunitario), Polanyi intendeva dimostrare come la rivoluzione industriale inglese avesse «scorporato» per la prima volta nella storia l’economia dalla società, aprendo le porte all’orizzonte dell’accumulazione illimitata e generando una trasfigurazione dell’organizzazione della vita collettiva. E anche per questo Polanyi, diventato nel frattempo un nume tutelare della cultura antiutilitarista e antiliberista, attribuiva un ruolo essenziale per la tenuta della democrazia (come scrisse in più occasioni) alla presenza di una forte opinione pubblica indipendente.

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