Perché abbiamo bisogno dell’arte di scomparire
Il
nuovo saggio del filosofo Pierre Zaoui, ma anche il film di Panahi
trionfatore a Berlino, rilanciano il valore del “non esserci”. Contro
gli eccessi dell’era social
di Andrea Bajani Repubblica 26.2.15
Il pensatore francese: “Solo così abbandoneremo i fantasmi di onnipotenza e indispensabilità”
È l’esatto contrario di quanto accade al bulimico Norman Bombardini di David Foster Wallace
QUANDO
i bambini non vogliono sentire risposta, fanno per gioco un gesto che
gli hanno insegnato gli adulti. Si coprono con le mani le orecchie, a
volte chiudono anche gli occhi, e poi dicono “bla bla bla” a getto
continuo. Ovvero, innalzano un muro di parole tra sé e il mondo che li
circonda, una fortezza inespugnabile collaudata da generazioni prima di
loro. Finché continueranno a blaterare niente li potrà raggiungere,
nulla li potrà scalfire. Ingenuamente, si proteggono gli occhi e le
orecchie, pensando che il mondo potrebbe entrare anche da lì. Crescendo
poi si rendono conto che se ne può fare anche a meno, e che quella
specie di gioco è una strategia che più o meno usano tutti. Basta non
smettere mai di parlare, per non ascoltare. Non è necessario tapparsi le
orecchie. Si può saltare fuori dalla trincea e incamminarsi nel mondo
senza troppe paure: il caricatore di parole che svuoteremo sarà il
miglior fuoco di copertura.
L’importante è non lasciare mai il
grilletto: dire, dichiarare, chiacchierare, twittare, chattare,
affermare, scherzare, sminuire, ingigantire, commentare. Ogni
indecisione può essere fatale: appostato dietro un mirino, da qualche
parte, c’è sempre pronto qualcuno che potrebbe cominciare a parlare.
Eppure
poi quando capita di fare cilecca, di restare lì impalati senza
munizioni verbali, ci si accorge che succede una cosa soltanto: il mondo
comincia la controffensiva, e così facendo ci si spalanca davanti. E se
i primi attimi di silenzio possono portare smarrimento — il terrore di
sparire — quello che poi ne consegue è una specie di sollievo, e
un’insperata e rifocillante pienezza. Questo è uno dei pensieri a cui
induce, tra l’altro, la lettura di L’arte di scomparire. Vivere con
discrezione , del filosofo francese Pierre Zaoui (in uscita da il
Saggiatore, nella traduzione di Alice Guareschi). Sottrarsi al ronzio
della propria logorrea assicura un angolo dove trovare ristoro e mette
in una condizione privilegiata per iniziare a osservare. Scomparire —
sottrarsi alla compulsività delle parole — rende in qualche modo
disponibili: «La prospettiva si allarga e il mondo appare
meravigliosamente molteplice, decentrato, percorso da mille linee di
fuga. [..] La vostra posizione discreta, inosservata, trasparente vi
apre a un’esperienza nuova: l’abbandono dei fantasmi di onnipotenza,
dell’essere indispensabili, dell’essere responsabili di tutti e di
ciascuno. Farsi improvvisamente discreti significa rinunciare per un
momento a qualsiasi volontà di potenza».
È solo grazie alla concavità
scavata dalla propria scomparsa che il mondo trova il suo spazio per
mostrarsi. Il contrario è il tempo che viviamo: il mondo crivellato di
discorsi, milioni di persone stroncate da un’indigestione di parole. È
un tempo in cui non a caso si cercano radure, in cui le zone franche in
cui sparire già si offrono a pacchetti convenienti, nuovo business e
cura dello spirito, con nuovi guru che somministrano la terapia del
silenzio e lo yoga metropolitano, la settimana di meditazione in mezzo
ai boschi, il trekking con gli sherpa in alta quota, l’orto da coltivare
nei fine settimana. Perché questo è il tempo di Norman Bombardini, il
bulimico e indimenticabile personaggio di La scopa del sistema di David
Foster Wallace, che sogna di ridurre, con la propria crescente obesità,
il rapporto tra l’Io e il Mondo. Fino a quando non avrà eliminato il
mondo occupandone tutto lo spazio con il proprio corpo non troverà pace.
Quando e se mai ce la farà, non potrà che soccombere.
Ed è proprio
nel tempo grottesco e disperato di Norman Bombardini, nell’epoca della
logorrea d’assalto, che la scomparsa — o la discrezione — si offre come scialuppa di salvataggio. Che cosa dice il freschissimo Orso d’oro a Berlino, il meraviglioso Taxi di Jafar Panahi, se non che soltanto sottraendosi si può lasciar venire a sé il mondo, e dunque finalmente entrarci? Finiti gli umilianti e vergognosi arresti domiciliari impostigli dal regime, il regista iraniano avrebbe potuto uscire e chiedere attenzione, prendere un megafono e dire “Io”. Avrebbe potuto tentare di rioccupare lo spazio che gli era stato scippato, applicare il metodo Bombardini. La sua strategia è invece diametralmente opposta: si fa tassista per le strade di Teheran. L’autore di Off Side e di quel capolavoro che è Questo non è un film si mette la cintura e, reso invisibile dal suo ruolo vicario, lascia che il mondo salga a bordo e si dispieghi dentro l’abitacolo registrato da piccole telecamere piazzate dentro l’auto. Il risultato è irresistibile e prima di tutto, però, politico. Il suo è un gesto semplice: scomparire tacendo, opporre la discrezione alla violenza di un potere coercitivo, dare valore a quella posizione marginale. Significa rivendicare la funzione politica, e in qualche modo di resistenza, dell’ascolto. Il tempo in cui tutti vogliono parlare e nessuno vuole più ascoltare è un tempo sfiatato che annulla ogni dialettica, che soffoca l’idea stessa di scuola, che piccona la democrazia nel momento stesso in cui pretende di esserne l’espressione più diretta.
Scomparire sotto il cappello di chauffeur, come fa Jafar Panahi, opporre discrezione, è la risposta al metodo Bombardini, a una logorrea alla lunga soltanto autodistruttiva. Essere discreti è politico, dunque, ed è anche una virtù morale, come ricorda Pierre Zaoui. Ma prima di tutto, dice il filosofo francese, procura un piacere e una qualche forma di conforto. «Imparare a rendersi impercettibili e godere dello scomparire» procura il conforto di ascoltare qualcuno, il piacere di imparare invece che di voler sempre insegnare tutto a tutti. È fonte persino di una specie di sollievo estetico, è il recupero di uno stile, è una radura di silenzio dentro l’affollato parolaio. È il conforto di una domanda invece di mille risposte dette tutte insieme. Perché imparare ad articolare una domanda significa imparare a fare spazio, predisporsi una concavità, accettare che lo spazio vuoto sia una disponibilità e non un buco da otturare. Scomparire per un attimo, offrire agli altri il piacere che si prova ad abitare lo spazio offerto da qualcuno che dopo aver parlato tanto, con o senza le mani sulle orecchie, finalmente tace.
“Non mi faccio notare e sono orgoglioso” Dalla politica al Web: il filosofo Pierre Zaoui spiega perché nell’era social vince chi scompare Alberto Mattioli tuttolibri 28 3 2015
E se, dopo i quindici minuti di fama, avessimo tutti diritto a quindici minuti di oblio? Se ci sottraessimo, magari non una volta per tutte, ma almeno una volta ogni tanto, alla tirannia dell’esserci o almeno dell’apparire, alla reperibilità costante, alla vita a misura di Facebook e di selfie e perfino alla politica come comunicazione del nulla? Insomma, all’incessante, invadente chiacchiericcio che ci circonda? Ammettiamolo, aveva ragione Lacan: «Ecco il grande errore di sempre: credere che la gente pensi quello che dice».
La tesi può sembrare controcorrente, nell’evo del Grande Rumore. Anche per questo è così affascinante l’ultimo saggio di Pierre Zaoui, filosofo francese specialista di Spinoza e Deleuze, tradotto in Italia col titolo L’arte di scomparire - Vivere con discrezione. Zaoui pensa quello che dice e dice quello che pensa. E in più è pure simpaticissimo.
Professor Zaoui, può definire la discrezione?
«Per me una delle definizioni migliori resta quella che ne dà Proust nei Guermantes: “Il privilegio di poter assistere alla propria assenza”».
Un privilegio, si direbbe, ben poco contemporaneo.
«Sì, invece. È una delle ambiguità della nostra epoca: da un lato, la smania di essere visti; dall’altro, le infinite possibilità di non farsi vedere. Già Baudelaire diceva che solo nella folla di una grande metropoli era possibile perdersi. In un villaggio medievale, dove tutti si conoscevano, era molto più difficile essere discreti».
È un esempio un po’ remoto.
«Allora ne faccio un altro. Io vengo da una città di provincia abbastanza spaventosa come Grenoble. Quando vivevo lì, i miei genitori sapevano che mi ero innamorato prima di me».
Perché è così importante sparire?
«Attenzione, quel che è prezioso, nella discrezione contemporanea, è che può essere una virtù discontinua. Non amo la discrezione perpetua o sistematica. Non si tratta di sparire del tutto, ma di poter scegliere quando farlo. Salvo poi riapparire, magari quando si ha davvero qualcosa da dire. Prima però è necessario liberarsi da una delle grandi paure contemporanee: non è vero che quando non si appare non si esiste. Anzi, spesso si esiste più intensamente quando non si appare. Come quando assaporiamo il piacere di guardare l’amata che dorme o i figli che giocano. O la soddisfazione che provavamo, da ragazzi, a stare in fondo alla classe a sonnecchiare accanto al termosifone mentre veniva interrogato qualcun altro».
Ma perché scomparire è un’arte?
«Perché si tratta, in definitiva, di scegliere il buon momento per farlo. E l’arte è appunto la scelta del momento giusto. Non è un gesto morale, non è la vecchia discrezione aristocratica, intesa come buona educazione, savoir vivre, cortesia. Si tratta di un gesto assolutamente volontario e direi anche politico».
Appunto: dal suo saggio si evince che nella società contemporanea la discrezione sia una forma di dissidenza o addirittura di resistenza.
«Imparare a rendersi impercettibili o a godere della propria sparizione non è un’alternativa alla politica tradizionale, ma è forse il solo mezzo per riuscire a sopportarla. Uno dei drammi della vita politica di oggi è che i comunicatori hanno preso il potere e hanno trasformato la politica in messinscena».
Ma se oggi la politica è storytelling, come teorizza il suo collega Christian Salmon, è un po’ difficile pensare a una politica discreta.
«Bisogna però vedere i risultati. Prenda la Francia di oggi. I socialisti hanno vinto le elezioni nel 2012, ma non avevano alcun programma e hanno cercato di nasconderlo con una serie di annunci. Mancava e manca del tutto una politica dal basso, quella che si vede poco, che si fa nel quotidiano, con le associazioni e con la gente. Le politiche efficaci sono quelle discrete. Come dimostra il gran successo del neofascismo francese».
Intende il Front national di madame Le Pen?
«Sì. Il suo è l’unico partito che lavora sul terreno, che ascolta le persone, che fa insomma quel che dovrebbe fare la gauche. E infatti vince. Il Fn non è solo comizi reboanti. Dietro la sua crescita c’è una politica capillare, diffusa e poco vistosa. Discreta, insomma».
Alla fine, pare di capire che lo show non debba necessariamente andare avanti.
«Lo farà ancora, credo. Ma il continuo spettacolo del mondo ha necessariamente bisogno di quelle che nel mio saggio chiamo “anime discrete”. Perché ci sia una parola, è indispensabile che ci sia qualcuno che l’ascolta. Se qualcuno parla, qualcun altro deve tacere. Questa asimmetria è indispensabile. “Nella tua battaglia con il mondo, asseconda il mondo”, diceva Kafka. Quando non lo farà più nessuno, allora davvero il mondo scomparirà».
Ultima domanda: perché i francesi si appassionano tanto alla filosofia e ai filosofi?
«Potrei dare una risposta istituzionale: perché la filosofia è una delle poche materie obbligatorie in tutte le scuole superiori, cioè non solo nei licei, ma anche negli istituti tecnici».
E la risposta non istituzionale?
«E’ tutta colpa di Voltaire. È lui ad aver inventato la figura di un “filosofo” che in realtà non parla affatto di filosofia, ma commenta l’attualità, tutta, politica, sociale, artistica, alimentando il perpetuo dibattito francese. Così vengono etichettati come “filosofi” persone che in effetti non lo sono affatto, tipo Jean-Paul Sartre ieri o Bernard-Henri Lévy oggi. In questo senso, in Francia i filosofi tutto sono meno che discreti».
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