mercoledì 11 marzo 2015

Le lettere di Cioran al fratello

Ineffabile nostalgiaEmil Cioran: Ineffabile nostalgia. 
Lettere al fratello 1931-1985, Archinto, pagg.176, euro 18

Risvolto
I destini dei fratelli Cioran, uniti in gioventù dalla passione intellettuale e dal fervore politico, si separano sul finire degli anni Trenta. La guerra mondiale e la cortina di ferro che taglia l’Europa in due blocchi contrapposti, li costringeranno a quarant’anni d’esilio forzato. L’uno, Emil, meteco a Parigi, nel cuore di quel «paradiso desolante» che è diventato ai suoi occhi l’Occidente; l’altro, Aurel, prigioniero in patria, in una Romania ormai simile a un grigio inferno «che non è più di nessuno». I due fratelli affidano alla sorte incerta e vulnerabile della missiva il desiderio di sentirsi uniti, nonostante la Storia stessa cospiri contro di loro. Dalle lettere ad Aurel emerge un altro Cioran, per certi versi inedito. Benché animato da un orrore gnostico per la procreazione, di fronte alle sofferenze dei congiunti il «persuasor di morte» cambia registro, rivelandosi di volta in volta provvidenziale medico dell’anima, consulente familiare e scrupoloso… farmacista. Sot­to il segno della malinconia – eredità a un tempo familiare e culturale – Cio­ran si riconcilia col fondo romeno della sua anima ed è colto da un’«inef­fabile nostalgia» per i luoghi incontaminati dell’infanzia, metafora del suo sradicamento metafisico.      

"Eccetto la musica e la poesia tutto è menzogna"Pubblichiamo in questa pagina per gentile concessione dell'editore Archinto alcune delle lettere, inedite in Italia, indirizzate dal filosofo Emil Cioran a suo fratello 
Emil Cioran - il Giornale Mer, 11/03/2015


Nelle centinaia di lettere che scrisse tra il 1931 e il 1985 al fratello Aurel l'intellettuale romeno appare molto diverso dall'immagine comune
Gian Paolo Serino - il Giornale Mer, 11/03/2015 



Fratelli Cioran, Karamazov del nichilismo 

Il fascism o rum eno, il m isticism o, la passione per le inezie, «io non credo in nulla...» Nell’epistolario tra lo scrittore Em il e il consanguineo em ergono fede e disperazione 
28 mar 2015  Libero MARIO BERNARDI GUARDI

«Sono diventato immune a tutto, alle vecchie fedi come ad ogni fede futura», scrive Emil Cioran al fratello Aurel, detto Relu, l'8 settembre 1946. 
Emil è a Parigi dal 1937, Aurel è rimasto in Romania. Di «vecchie fedi» l'uno e l'altro ne sanno qualcosa. Entrambi sono attratti dal misticismo, ma quello di Emil, «cavaliere del malumore cosmico», è un misticismo gnostico e nichilista, con un Dio che sbeffeggia gli uomini e con gli uomini che vanno all'assalto di Dio a colpi di irriverenza; Ariel, invece, nei primi anni Trenta, avrebbe voluto entrare in un ordine monastico ed Emil lo ha brutalemente dissuaso, «sfoderando tutto il suo vitalismo nietzschiano». Lo ricorda Massimo Carloni, curatore, insieme a H oria Cicorta, dell’epistolario che raccoglie 237 lettere inviate da Emil a Relu tra il 1931 e il 1985 ( Ineffabile nostalgia Archinto, pp. 173, euro 18). Ma a proposito di «vecchie fedi« c'è altro da dire. Infatti i due fratelli hanno condiviso una fiammeggiante passione per il fascismo rumeno di Corneliu Zelea Codreanu, un capo carismatico che avrebbe potuto realizzare la «trasfigurazione della Romania». Ma mentre per Emil l'infatuazione per la Guardia di Ferro è durata poco, per Relu ha significato «fede, culto, militanza in prima persona» e, nel 1948, dopo un processo farsa, ha comportato la condanna a sette anni di carcere e ad otto di lavori forzati. E la stessa sorte è toccata alla sorella maggiore Virginia. 
Ormai «immune» ad ogni fede, Emil sente profondamente gli affetti familiari. E lo dimostra nelle sue lettere con una tenerezza quasi materna nei confronti dei congiunti. Il padre, Emilian Cioran, era un sacerdote ortodosso, dapprima attivo a Rasinari ed in seguito, in veste di curato, presso la vicina Sibiu; la madre, Elvira Comaniciu, era originaria di Venetia de Jos (Venezia del Sud), un comune situato nei pressi della città di Fagaras. Il padre di Elvira, Gheorghe Comaniciu, era un notaio, asceso allo status di barone grazie al favore di cui godeva presso le autorità asburgiche. Sebbene fossero rumeni, non era infrequente che i genitori, nel privato, parlassero anche in ungherese. Aveva con loro una diuturna corrispondenza. Da Parigi invia vestiario, cibi, libri. E medicinali, di vario genere, accompagnati da consigli medico-farmaceutici. Spedisce liquirizia «che fa bene alla gola e allo stomaco», vitamina C, compresse di «Servitine», «buona per prevenire l'influenza«. E siccome Reliu è, come lui, un malinconico incline alla depressione - entrambi sono stati «partoriti dell'umor nero» della madre Elvira - lo sprona a non laSopra lo scrittore, poeta, aforista rum eno Em il Cioran. A lato la copertina del libro - epistolario che raccoglie 237 lettere inviate da Em il al fratello m inore Relu tra il 1931 e il 1985 («Ineffabile nostalgia») sciarsi andare, a fare lunghe camminate («almeno dieci chilometri al giorno»), ad affidarsi alla cura del sonno («il riposo pomeridiano è essenziale»). E, in una lettera datata 17 luglio 1980, lo ammonisce: «Il cervello va preservato…e, te lo ripeto ancora una volta, tenuto al riparo dal sole». Ma nell'epistolario non c'è solo il Cioran «brava mammina». Ci sono, ad esempio, gli echi dei successi parigini dei suoi libri, perché il sulfureo scrittore, che ha abbandonato la lingua rumena e si esprime in un elegantissimo, scintillante, francese, comincia ad essere conosciuto e apprezzato. Comunque, alla crescente notorietà Emil reagisce con una sorta di sovrana indifferenza. E snobba i salotti, rifiuta i premi letterari, ha orrore della gente, accoglie malvolentieri chi bussa alla sua porta per conoscerlo e omaggiarlo, proclama: «ogni visitatore è un nemico». Compresi quelli - dolenti e assillanti - che vengono dalla Romania. Del resto, non crede più che il suo paese possa avere un «destino». Eppure… Eppure il legame con la terra d'origine non si spezza, tutt'altro. Grazie a Relu che evoca immagini dei paesaggi dell'infanzia - Rinari, Sibiuanta - e lo informa sulla sorte di familiari, amici e conoscenti. Suscitando in Emil la commozione del «tempo ritrovato» e dunque «un’ineffabile nostalgia» per il proprio Paese. Dopo quarant’anni di separazione, i due fratelli si rivedranno nell’aprile del 1981 a Parigi. Aurel, che si porta dentro un vasto «immaginario», è affascinato dalla città e dalla sua atmosfere. Sono anni, invece, che Emil detesta la capitale francese: «c'è troppa gente, troppe macchine, troppo fumo, molta puzza». Così spesso si rifugia a Dieppe. Ed è proprio da Dieppe che nel 1982 scrive al fratello: «(…) Ho fatto un salto fino ad Amsterdam: una città che mi piace alla follia, soprattutto per il quartiere con i bordelli (…). Mi occupo di inezie, poiché non credo in nulla. Se per miracolo dovessi ricominciare la mia vita, mi occuperei solo ed esclusivamente di “muri” (donne), oppure studierei il sanscrito, essendo la filosofia indù quanto di più profondo e audace sia stato creato dall'uomo». 
Un’altra vita? Un'altra illusione. Nei primi anni Novanta, Emil precipita nel baratro dell'Alzheimer. Impossibilitato a camminare e costretto su una sedia a rotelle, è assistito da Relu. 
Una «botta di vita», in un certo senso, perché i due fratelli passeggiano per i viali dell'ospedale, rievocano insieme gli anni dell'infanzia e sghignazzano allegri, alla faccia delle «vecchie fedi», dei disincanti e della morte.

Cioran salvato dalle regole grammaticali Citati Lunedì 11 Maggio, 2015 CORRIERE DELLA SERA © RIPRODUZIONE RISERVATA
C ome Leopardi e Baudelaire, Emile M. Cioran appartenne alla grande razza dei malinconici. Era disperato, tragico, depresso, sconvolto; e poi la tragedia si capovolgeva in estro puro, gioco, parodia. Nelle lettere al fratello ( Ineffabile nostalgia , Archinto editore, pagine 174, e 18), sottolinea l’origine di questa malinconia: la madre. «Tutto quello che ho di buono e di cattivo, tutto quello che sono, l’ho preso da mia madre. Ho ereditato i suoi malanni, la sua malinconia, le sue contraddizioni. Ma in me ogni suo carattere si è aggravato ed esasperato. Sono il suo successo e la sua sconfitta».
Negli anni della giovinezza, questa malinconia aveva il tono di una furiosa disperazione lirica. «Come avrò fatto a non suicidarmi? Come avrò resistito sul piano nervoso?», commentava nelle lettere della maturità. Poi quel lirismo sfrenato gli diventò estraneo: troppo giovanile, entusiastico, poetico. Emigrò a Parigi, e venne salvato da una lingua. Penso che sia l’unico caso, nella storia della letteratura, in cui una lingua abbia salvato un uomo dalla distruzione.
Nell’estate del 1947, abbandonò il rumeno per il francese. Con il suo rigido codice formale, il francese gli insegnò a rifiutare, a escludere, a dire di no, a rinunciare. «Sapersi limitare», disse, «tale è il segreto del vero scrittore». La grammatica lo guarì dalla malinconia. Cioran cominciò una battaglia terribile con il francese, un’agonia nel vero senso della parola. Per anni, e forse sino alla morte, si sentì in una camicia di forza — costretto, contratto, impacciato da regole che lo torturavano. «Sono», aggiunse ironicamente, «un profeta folgorato dalla grammatica». Fu una grandiosa vittoria. Invece di impazzire ed esplodere, Cioran diventò un saggio, che collochiamo accanto ai suoi Marc’Aurelio, Montaigne, Pascal.
La Romania restò un sogno. «Talvolta, quando penso al mio Paese, ho l’impressione di aver disertato un paradiso... Ho nostalgia di Sibiu, del Parco, della Dumbrav. Tutto ciò è stupido, ma non si possono combattere le aggressioni della memoria, le illusioni del passato». Era il suo fondale romantico. «È incredibile fino a che punto l’immagine di Sibiu sia rimasta in me». Il fratello, Aurel, viveva in patria, prigioniero del carcere comunista. Non ascoltiamo la sua voce. Ascoltiamo soltanto la voce di Cioran, che ama il fratello, lo sostiene, gli invia vestiti. Soprattutto cura da lontano, come uno psichiatra, la sua profonda depressione.
Cioran abitava a Parigi e diceva di sentirsi chiuso in un «garage apocalittico»: diceva di detestarlo, di essere soffocato, abolito. Era costretto a conversare: parlare lo stancava, diceva; anche se parlare era per lui il trionfo dell’estro, del brio, di una febbrile felicità. Dopo cena usciva di casa, e camminava, camminava per chilometri, felice di possedere con i passi quella città meravigliosa. Una pigrizia atavica si impadronì di lui. L’avvenire stava dietro alle sue spalle: un’appendice senza importanza. Non era un più un vivente, ma un sopravvissuto. Amava il proprio fallimento: quello che definiva il fallimento dei suoi bellissimi libri. Si sentiva sradicato; e questa assenza di radici era insieme una tragedia e una felicità, una mancanza e una gioia.
Via via che gli anni passavano, diventava più frivolo. «Soffro del suo stesso male, diceva del fratello, ma lui, taciturno per natura, non ha accesso alla parola, mentre io, chiacchiero impenitente, esibisco le mie miserie e le converto in capricci». Sosteneva che questa chiacchiera era funebre: forse lo era, ma non smetteva per questo di essere profondamente ilare.
I due fratelli si incontrarono finalmente nell’aprile 1981, dopo quarant’anni di separazione forzata. «Mio fratello — diceva Cioran — è diventato un altro, uno straniero. Non ha più lo stesso volto. Alla stazione stentai a riconoscerlo». Parlarono della loro infanzia, ma la conversazione era irreale, come un incontro tra due fantasmi. Presto Cioran diventò, alla lettera, un fantasma. Fu assalito dall’Alzheimer, e costretto sulla sedia a rotelle. Aurel lo raggiunse e rideva con lui — anzi, come diceva Simone Boué — «sghignazzava alla rumena», come possono ridere due fantasmi.  

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