martedì 31 marzo 2015

Sul genocidio armeno

Risultati immagini per La strage dei cristiani. Mardin, gli armeni e la fine di un mondoAndrea Riccardi: La strage dei cristiani. Mardin, gli armeni e la fine di un mondo, Laterza, pp.240, e 18

Risvolto
«Alla fine del mese di ottobre 1915, lo sterminio dei cristiani di Mardin sembrava essere concluso. Tuttavia un centinaio di persone vivevano ancora: erano vecchi, donne anziane, infermi. Il turco Bedreddin fu preso da zelo: “Spazzateli via, e che non ne rimanga nemmeno uno”. Con questi cento sopravvissuti fece un convoglio che, deportato nel deserto, sparì per sempre». Mardin è una delle tante città dell’impero ottomano dove, durante la prima guerra mondiale, si è consumata la strage degli armeni e dei cristiani. Una violenza che ha segnato in profondità quelle regioni e che non è cessata: sono passati cento anni e la persecuzione in Medio Oriente continua.
Anche oggi, a pochi chilometri da Mardin, oltre la frontiera turca, in Siria e in Iraq, si combatte con una crudeltà senza misura. Di nuovo, come allora, si assiste a deportazioni, massacri, sgozzamenti, rapimenti, vendita di donne e di bambini. Molti si chiedono: da dove viene tanta ferocia? Dal profondo di una religione, l’islam, o da una storia di convivenza difficile? Oggi, come ieri, si consuma una pagina della ‘morte’ dei cristiani d’Oriente.

ARMENI Papa Benedetto XV contro il genocidioVito Punzi Avvenire 4 aprile 2015

Cristiani e armeni a Mardin Un secolo fa la strage rimossa 

Il cinico calcolo dei Giovani turchi, laici: aizzare l’odio delle popolazioni islamiche 
Martedì 31 Marzo, 2015 CORRIERE DELLA SERA © RIPRODUZIONE RISERVATA
Nella Turchia sudorientale, in una zona abitata prevalentemente da curdi, vi è una delle più belle città del Medio Oriente. È Mardin, una meta turistica premiata dall’Unesco per la straordinaria varietà della sua architettura religiosa: chiese, monasteri, moschee, sinagoghe, castelli medioevali. Oggi la sua popolazione è in grande maggioranza musulmana, ma nel 1915, quando fu teatro degli avvenimenti evocati in un libro di Andrea Riccardi pubblicato ora da Laterza, i cristiani avevano nove chiese, tre conventi e formavano una sorta di catalogo vivente del Cristianesimo romano e greco: armeni in buona parte, ma anche cattolici di rito latino, ortodossi, assiri, siriaci, caldei, tutti assistiti dai loro vescovi e patriarchi. I campanili e i minareti svettano ancora sulla città, costruita sul pendio di una grande montagna, ma le comunità cattoliche e ortodosse sono oggi soltanto il pallido ricordo di un mondo in buona parte scomparso. 

Questo libro ( La strage dei cristiani. Mardin, gli armeni e la fine di un mondo , pp.240, e 18) è anzitutto un’opera di pietà storica, scritta per ricordare la sorte dei cristiani d’Oriente, travolti anche in anni più recenti dalle guerre combattute in Libano, in Iraq, e in Siria. Riccardi dice implicitamente al lettore che la tragica cronaca delle persecuzioni subite dagli armeni agli inizi della Grande guerra non sarebbe completa se non ricordasse che il loro destino, in particolare a Mardin, fu condiviso dai cristiani. 
Ma l’autore non è soltanto il fondatore della Comunità di Sant’Egidio e, quindi, un cattolico militante. È anche uno studioso a cui preme ricostruire il contesto storico di quelle persecuzioni. Nel luglio del 1914, quando il governo austro-ungarico inviò alla Serbia l’ultimatum che avrebbe scatenato la Grande guerra, la Turchia era appena uscita da una umiliante sconfitta nella Seconda guerra balcanica e dal colpo di Stato che aveva dato il potere ai «Giovani turchi» di Unione e Progresso. I suoi tre Pascià — Djemal, Enver, Talaat — erano ferocemente nazionalisti e profondamente convinti che la sovranità dello Stato ottomano fosse minacciata dalle continue ingerenze delle potenze straniere nella politica dell’Impero. Le sue finanze erano soggette alla vigilanza di banchieri europei, organizzati in una specie di Fondo monetario internazionale. Le comunità religiose non musulmane avevano potenti protettori stranieri: la Russia per gli ortodossi e gli armeni, la Francia e altri Paesi cattolici per i cristiani latini, la Gran Bretagna per i protestanti e gli ebrei. I trattati sulle capitolazioni avevano garantito alle comunità nazionali straniere una sorta di indipendenza giudiziaria, che intaccava profondamente la sovranità dello Stato. 
Al nuovo governo di Costantinopoli la guerra europea parve una provvidenziale via d’uscita. Il 9 settembre 1914 fu annunciato al mondo che le capitolazioni sarebbero state abolite, con un documento in cui si affermava tra l’altro che l’abolizione avrebbe permesso di realizzare le riforme ripetutamente sollecitate dalle grandi potenze. Due mesi dopo, mentre la Turchia era da qualche giorno in guerra a fianco della Germania, fu proclamata la Grande Jihad. La guerra santa presentava in quel momento un doppio vantaggio. Forniva alle masse anatoliche, ancora devotamente musulmane, una motivazione spirituale sul campo di battaglia; e dava alle persecuzioni contro i cristiani una giustificazione patriottico-religiosa. Per quanto concerneva gli armeni, in particolare, la guerra contro la Russia avrebbe permesso al governo turco di trattare la loro comunità come una pericolosa quinta colonna. Armate di questi argomenti le autorità turche dettero il via alle deportazioni e ai massacri. Quando gli ambasciatori dei Paesi neutrali, fra cui Henry Morgenthau, rappresentante degli Stati Uniti, deplorarono i metodi utilizzati, Enver replicò con sfacciata franchezza: «L’odio tra turchi e armeni è così grande che dobbiamo farla finita con loro, altrimenti si vendicheranno su di noi». 
I metodi usati per i massacri, come scrive Riccardi, furono una disordinata combinazione di violenza pubblica e organizzata, casuale e venale. Vi furono molti casi in cui gli armeni credettero di avere salvato la loro vita con il pagamento di esosi riscatti, ma caddero egualmente nella trappola della deportazione e dell’eccidio. Ve ne furono altri in cui pietosi musulmani cercarono di nasconderli e salvarli. E ve ne furono altri ancora in cui le vittime divennero merce da vendere e comprare. A differenza di ciò che sarebbe accaduto nella Germania di Hitler, l’odio fu molto più religioso e identitario che razziale, e colpì contemporaneamente, come nel caso di Mardin, altri cristiani. 
Vi è in questa tragica vicenda un paradosso. Come ricorda Riccardi, gli strateghi dei massacri erano solo formalmente musulmani. I Giovani turchi conoscevano l’Europa, avevano avuto frequentazioni massoniche nelle capitali europee, invidiavano e ammiravano le società laiche, erano soprattutto nazionalisti e spesso atei. Usarono l’Islam per meglio motivare le truppe, i gendarmi, i funzionari dell’amministrazione imperiale a cui sarebbe spettato il compito di eseguire gli ordini del governo. Non fu il primo e non sarebbe stato purtroppo l’ultimo caso. Gli avvenimenti degli ultimi trent’anni, dalla guerra afgana a quella di Bosnia, dai massacri di Boko Haram in Nigeria a quelli dell’Isis in Iraq e in Siria, dimostrano quale uso perverso possa essere fatto della fede per accendere gli animi, alimentare l’odio e scatenare conflitti . 
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Quando Istanbul condannò a morte i cristiani d’Oriente
Il libro di Andrea Riccardi ricostruisce una delle stragi dell’estate 1915 che annientò il pluralismo delle fedi
di Lucio Caracciolo Repubblica 27.4.15
SI può scrivere un bel libro di storia, rigoroso e robusto nelle fonti, chiaro e sobrio nella scrittura, che sia anche di strettissima attualità. È il caso dell’ultimo lavoro di Andrea Riccardi, storico dell’età contemporanea e fondatore della Comunità di Sant’Egidio, dedicato a La strage dei cristiani.
Mardin, gli armeni e la fine di un mondo (Laterza, pagg. 230, euro 18). Dove l’universo in estinzione è quello dei cristiani d’Oriente, che fino a cent’anni fa marcavano una presenza radicata nelle terre amministrate dalla Sublime Porta, già scossa dal giovane nazionalismo turco. Nel 1914, ad esempio, nella metropoli imperiale Istanbul i cristiani erano ancora il 38,4 per cento della popolazione, in Anatolia il 16,6 per cento. E nel centro agricolo e commerciale di Mardin, situato nell’Anatolia sud-orientale, fulcro dell’indagine di Riccardi, probabilmente di più.
È attraverso il prisma di Mardin che l’autore legge la parabola finale di quei cristiani orientali, colpiti dai musulmani di Turchia anche per vendicare la disfatta nelle guerre balcaniche ad opera delle potenze “crociate”. Qui, nell’estate del 1915, in piena guerra mondiale, il moribondo impero ottomano fece deportare e in parte massacrare le antiche comunità cristiane, soprattutto (ma non solo) l’armena. Quelle stragi possono essere lette in filigrana come l’altra faccia del collasso di un secolare quanto precario compromesso fra la maggioranza musulmana e i cristiani, come anche altre fedi minoritarie, nel contesto ottomano. Equilibrio infine distrutto dai Giovani Turchi e dalle loro organizzazioni paramilitari, parallele allo Stato, nelle cui pieghe si infiltravano banditi d’ogni risma ed etnia, dagli immigrati caucasici ai curdi.
Il pretesto per liquidare i cristiani era l’accusa di tradimento. Quei martiri della fede non furono in genere liquidati — con metodi particolarmente efferati, quasi fossero “montoni al macello” — in quanto cristiani ma quali quinte colonne del nemico. Fra le cause dei massacri, come Riccardi mette in luce grazie a documenti e testimonianze di prima mano, c’era poi la tentazione di mettere mano sulle ricchezze dei deportati e dei trucidati o di liberarsi dei debiti nei loro confronti. Alcune pagine sembrano tratte dalle tristi cronache attuali, che dalle vicine terre mesopotamiche narrano delle imprese dello Stato Islamico e affiliati.
Dopo un primo viaggio nel 1986, l’autore è tornato varie volte e ancora di recente nella regione e nella stessa Mardin, dove resiste una manciata di cristiani. Il governo turco, che ha sempre tabuizzato le stragi dei cristiani d’Oriente, cerca oggi di trasmetterci l’immagine di un pluralismo di fedi, in un contesto quasi totalmente islamizzato, anche per la conversione forzata di quei cristiani che scelsero questa via per sottrarsi alla morte. Ne scaturisce una “musealizzazione del cristianesimo” che non può ingannare sullo stato del tessuto culturale e religioso della Turchia di Erdoðan.

L’Armeno errante Un secolo fa il genocidio
In duecentomila furono salvati durante le marce della morte: vite che sono rimaste un segreto Li chiamavano “i resti della spada”: i loro discendenti oggi sono un milione
di Bernardo Valli Repubblica 24.4.15
ISTANBUL NON era più tanto giovane da ignorare la tragedia lontana nel tempo ma ancora sentita, benché occultata dal potere. E non era nemmeno tanto vecchio da avere un ricordo, sia pure indiretto, di quei fatti remoti che non riguardavano né lui né la sua famiglia. Era insomma indifferente a quel passato in bilico tra memoria e storia. E invece un giorno, quando era già un uomo maturo, l’avvocato coi capelli bianchi ha scoperto di essere figlio di uno scampato a quello che gli armeni, e tanti altri nel mondo, chiamano genocidio, e che i governanti turchi negano, ancora un secolo dopo. È commosso e non cerca di nasconderlo nel raccontarmi la sera in cui il padre gli confessò di essere stato salvato nel deserto siriano da un kurdo che lo tolse dalla colonna di deportati armeni in marcia verso la morte. Era un ragazzo e non vide più i genitori. Fu adottato dal suo salvatore, che lo convertì all’Islam e gli fece da padre per tutta la vita.
Soltanto a un’età avanzata, spiega l’avvocato coi capelli bianchi adesso davanti a me in un ristorante di piazza Taksim, ha saputo di essere figlio di un armeno cristiano e quindi di essere lui stesso armeno. Gli era stato nascosto per non complicargli l’esistenza in una società in cui i convertiti per forza o per convenienza suscitavano diffidenza. Tanto più se all’origine erano armeni e dunque cristiani. Padre a sua volta di tre figli turbati dalla recente scoperta delle radici familiari, il mio interlocutore riflette se recuperare l’identità scomparsa nel deserto siriano. La tentazione è forte.
Gli squarci democratici apertisi in Turchia rendono sempre più difficile applicare l’ideologia dell’amnesia per occultare i crimini di Stato. Del genocidio si scrive e si discute con maggior libertà. La società conosce di più i fatti, ma soltanto un’esigua frazione è disposta ad assumerne le responsabilità. Per certi aspetti la semantica diventa politica: non si considera appropriato ma offensivo, insultante, antipatriottico, il termine “genocidio”, per il suo significato anche storico e scientifico. Ed invece si accettano o si tollerano altre espressioni, come deportazione o massacro, per indicare gli stessi accadimenti. Bisogna evitare che figurino accanto all’olocausto degli ebrei o alle stragi di Stalin.
In occasione del centenario (24 aprile 1915-2015) il primo ministro Ahmet Davutoglu, come prima di lui il presidente Recep Tayyip Erdogan, ha riconosciuto la sofferenza del popolo armeno, e si è detto partecipe al suo dolore, ma ha rifiutato la responsabilità attribuita ai governanti di allora. Vale a dire allo Stato ottomano dei “Giovani Turchi”. Ha respinto l’idea di un crimine di Stato, con il suo milione e mezzo di morti (ottocento — novecentomila mila dicono altre fonti), da inserire nella storia nazionale. Si deve avere pietà per le vittime, ma non si deve imputare agli assassini la premeditazione. La strage è stata una conseguenza della Grande guerra allora in corso. Gli armeni erano accusati di appoggiare i russi nemici dei turchi. In realtà le dimensioni della strage, anche se non la si definisce genocidio, dà valore alla tesi secondo la quale la spinta nazionalista verso la “turchizzazione“ ha condotto al progetto di eliminare i gruppi etnici estranei a un’ideale identità nazionale. L’islamizzazione è stata usata contro gli armeni cristiani più per ragioni identitarie, nazionaliste, che religiose. È vero che c’erano gruppi di armeni armati favorevoli ai russi. Ma erano una trascurabile minoranza che è servita e serve come pretesto ai negazionisti.
Nelle stesse ore in cui gli armeni dispersi nel mondo, o raccolti nella Repubblica armena, ricorderanno il genocidio, il governo di Ankara celebrerà un altro avvenimento quasi simultaneo: il centenario della battaglia di Gallipoli, vittoria turca del 1915. Un successo militare che non evitò la sconfitta ottomana di tre anni dopo. La cerimonia di oggi, benché prevista dal calendario nazionale, assume l’inevitabile significato di una contrapposizione alle manifestazioni armene. Nelle stesse ore, mentre a Gallipoli suoneranno le fanfare, le associazioni armene si riuniranno infatti qui a Istanbul, in piazza Taksim. L’ideologia dell’amnesia stenta a sopravvivere in una società che vuole essere democratica, come l’Europa cui aspira.
In occasione del centenario il passato con le sue verità contestate si è abbattuto su questa città, meravigliosa vetrina di un paese che nel nuovo secolo si è modernizzato come pochi altri, ma che è ancora arroccato in una storia nazionale in cui vede la propria identità secondo schemi di un altro secolo. Come un forte temporale strappa le foglie dagli alberi e le disperde sul Bosforo, cosi la memoria ha strap- pato dall’oblio e fatto rispuntare un po’ ovunque nel paese quelle che un coraggioso giornalista di origine armena, Hrant Dink, prima di essere assassinato da un fanatico nazionalista, chiamava “anime erranti”. Il mio interlocutore, l’avvocato coi capelli bianchi, è una di quelle anime. È un cittadino turco, con un’impronta ufficiale kurda, e un’anima armena. Mi indica piazza Taksim, ai piedi dell’alto edificio in cui ci troviamo, e mi dice: «Vede? Lì c’era un nostro cimitero ». Al posto dei grattacieli, dei grandi alberghi, dei ristoranti, dell’asfalto che ammanta uno degli spazi più frequentati della metropoli, c’era un camposanto cristiano. Lo afferma con forza. Con certezza. Aggiunge che forse vi erano sepolti i suoi bisnonni armeni. Antenati ora nascosti sotto la sua famiglia adottiva musulmana, come le tombe del vecchio cimitero lo sono sotto le costruzioni di piazza Taksim.
Mi elenca poi gli edifici, e tra questi un palazzo diventato presidenziale, le numerose chiese, e i quartieri un tempo appartenenti alla sua gente, di cui si sono appropriati coloro che decisero il genocidio o ne approfittarono. «Fu anche una rapina», aggiunge. «È anche per questa ragione che si nega il genocidio. Riconoscendolo si solleverebbe il problema del risarcimento». I beni degli armeni contribuirono a irrobustire la nuova borghesia turca. Nel discorso prevale ormai la passione. Una passione senza rancore. «Questa è la mia società e non voglio riparazioni, desidero soltanto che condivida la mia memoria». La magica Istanbul mi appare una metropoli di fantasmi. Gli armeni escono lentamente dall’ombra. E in qualche modo sono la Storia che presenta il conto.
L’esistenza delle “anime erranti” è rimasta a lungo un segreto, sussurrato tra famiglie amiche o unite dalla stessa situazione, ma di rado rivelato in pubblico. Molti armeni sono sopravvissuti allo sterminio grazie a un amico musulmano, oppure a un miliziano curdo attivo nel partecipare al massacro ma con il desiderio di avere una moglie o un figlio, oppure a un funzionario impietosito. Circa duecentomila donne, uomini, bambini sono stati salvati durante la marcia della morte nel deserto siriano o nei villaggi dell’Anatolia in cui era in corso il massacro. I discendenti sarebbero adesso più di un milione. Secondo alcune valutazioni due milioni e mezzo, dispersi in famiglie curde o turche, convertiti all’Islam, a volte ignari delle proprie vere origini. È stato scritto che era un’orfana armena anche Sabiah Gokcen, figlia adottiva di Atatürk, il fondatore della Repubblica, e prima donna pilota dell’aviazione militare, di vero nome Hatun Seblyician.
I turchi li chiamavano “i resti della spada”. Gli scampati. Le donne erano più numerose. Si sono fatte musulmane, non avevano scelta, si sono sposate, hanno fatto figli, si sono immerse nelle famiglie turche o kurde, rassegnate o conquistate dai nuovi affetti. La loro storia è rimasta confidenziale, o addirittura segreta, ma adesso i nipoti vogliono sapere. L’avvento della democrazia e i nuovi incontrollabili mezzi di informazione hanno aperto e alimentano un dibattito un tempo impensabile. Un avvocato molto noto e militante dei diritti dell’uomo, Fethiye Cetin, è l’autrice di un libro in cui racconta la storia di sua nonna Seher. Era una donna forte, amata da tutta la famiglia, e un giorno, quando Fethiye aveva venticinque anni, le confessò che in realtà si chiamava Heranus ed era armena. Un gendarme, durante il massacro, l’aveva strappata a sua madre e a una morte certa, e l’aveva adottata. E si era rivelato un ottimo padre.

La rivelazione ha sconvolto la giovane avvocatessa che ha aspettato un quarto di secolo prima di scrivere la storia. Pubblicato nel 2004 Il libro di mia nonna è diventato un best seller che ha spinto molti turchi a sospettare di vivere in famiglie con identici segreti. La scoperta degli armeni nascosti, delle “anime erranti”, imbarazza lo Stato turco ma anche i membri delle associazioni armene, all’estero o in Turchia, i quali non sanno se hanno parenti musulmani in qualche angolo del paese o del mondo. Più di 60mila “anime erranti” sono state individuate nella sola Istanbul, ma sono molto di più quelle ancora “nascoste” perché non osano rivelarsi o sono inconsapevoli, non avendo scoperto le loro origini.

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