martedì 24 marzo 2015

Tradotto il romanzo mitologico di Robert Graves

Sette giorni fra mille anni
Robert Graves: Sette giorni fra mille anni, Nottetempo, pagg. 411, euro 20

Risvolto
In una lettera a James Reeves del maggio 1949 Graves è chiaro sul senso di Sette giorni fra mille anni: “Riguarda il problema del male: quanto male è necessario per una buona vita”. Nel mondo di Nuova Creta, che capitolo dopo capitolo diventa per Graves sempre meno accettabile, “il problema è che c’è sempre una nostalgia del male”, come scrive, in un’altra lettera, quand’è a un terzo della stesura. Se l’utopia scientifica è il bersaglio di Huxley nelMondo nuovo e quella comunista è l’obiettivo di Orwell in 1984, forse non c’è un bersaglio di questa distopia che non sia proprio l’utopia. Il vero male sta nell’immaginare che i problemi si risolvano. Solo il passato elargisce futuro. Solo il dolore crea amore e solo la sventura regala saggezza. Senza il male non c’è poesia. Lo scrittore è un seme di dolore, che dona al lettore un raccolto di dolore, facendogli coltivare cosí saggezza e amore.

Guerra a Zeus la fantascienza secondo GravesEsce il romanzo del 1949 del grande studioso dei miti dell’antica Grecia Un mondo senza progresso governato da una Dea madre

di Francesco Pacifico Repubblica 23.3.15
QUANDO usiamo il termine fantascienza per i romanzi ambientati nel futuro stabiliamo implicitamente che il solo criterio che fa cambiare le civiltà è il progresso scientifico e tecnologico. Cosa succede, invece, se immaginando il futuro ci inventiamo che l’umanità a un certo punto ha cambiato paradigma e ha smesso di dare per scontato il primato della scienza, praticamente levandola di mezzo? Per un romanzo che parli della fine delle macchine e del potere di una casta di maghi si può usare il più ampio termine ombrello speculative fiction.

Il romanzo di Robert Graves, romanziere, poeta e autore dei saggi ormai classici I miti greci e La dea bianca, specula su una civiltà del Tremila che si definisce “neocretese”, e regala la prima persona del racconto a un poeta novecentesco che viaggia nel tempo e annota le sue impressioni con eleganza, ironia e passione.
Il poeta, Edward Venn-Thomas, non è arrivato nel futuro in una macchina del tempo, ma è stato evocato dalla casta dei maghi neocretesi: la società che si trova davanti non è una proiezione iperbolica della nostra, come succede tanto spesso nella fantascienza, ma si basa su un paradigma completamente diverso. Nel mondo neocretese il calendario ha tredici mesi perché è lunare; «ore e minuti non si misurano, il tempo è stato abolito insieme al denaro»; è «sconveniente dire l’età delle persone»; «gli archivi non forniscono alcuna informazione su filosofia, matematica avanzata, fisica o chimica, né sulla spiegazione di macchine più complesse della ruota idraulica, della carrucola o del tornio»; «di Shakespeare conservano solo tre libri sui 274000 [un tempo] in circolazione su di lui». È insomma agli antipodi della nostra età dell’informazione.
Ma non è solo l’informazione a essere ridimensionata: il mondo neocretese raccontato in Sette giorni fra mille anni ( Nottetempo, ottima la traduzione di Silvia Bre, non a caso poetessa e traduttrice di Emily Dickinson) è tutto fondato sulla decrescita. I più grandi nemici dell’umanità sono «il gabinetto, l’inceneritore di rifiuti, che derubava la terra delle sue ricchezze, e il trattore che consentiva ai contadini di arare e desertificare vaste aree di terreno meno fertile…».
Come in una corte medievale, per tutto il tempo in cui il poeta novecentesco visita il futuro per raccontarlo, si parla d’amore. Del suo amore per una ninfa del re; del suo amore per la moglie lasciata nel passato; dell’amore per lui della maga Sally; e dell’amore del poeta per quel che oggi è il fantasma di un’antica amante: da questi intrecci, si svela lentamente per quale ragione proprio lui, poeta e grande amante delle donne, è stato portato indietro nel futuro. La Dea madre che governa il mondo neocretese, dopo aver lasciato alla nostra epoca un po’ di tempo per sbizzarrirsi con l’idea di un Dio maschio, tutto guerra e astrazione, sta solo cercando di portare un po’ di igienico rivolgimento in un cosmo governato perfettamente dalle fasi lunari e dalle intuizioni dei maghi, in una società divisa in caste. Un poeta dotato di passione basta a sconvolgere un luogo alato in cui si confonde realtà e allegoria, tanto che per descrivere l’atto sessuale c’è chi dice: «Ci astraiamo e i nostri corpi rimangono laggiù, lontani…». E il poeta novecentesco commenta: «I neocretesi raccontavano molte storie le quali, pur non essendo propriamente false, erano vere solo per modo di dire».
È affascinante pensare che un libro così allegro e ispirato sia uscito nel 1949, nel secondo dopoguerra e un anno dopo 1-984 di Orwell. Orwell ragionava pragmaticamente su ogni risvolto psicologico del totalitarismo. Graves pensa alla poesia. Nel suo saggio pubblicato proprio nel 1948, La Dea bianca, Graves propone la tesi «che il linguaggio del mito poetico anticamente usato nel Mediterraneo e nell’Europa settentrionale fosse una lingua magica in stretta relazione con cerimonie religiose in onore della dea-Luna, ovvero della Musa… e che resta a tutt’oggi la lingua della vera poesia…».
Per Graves, la cultura puramente patriarcale, «senza più alcuna traccia di dee», in Inghilterra si era pienamente raggiunta «all’epoca di Cromwell, perché nel cattolicesimo medioevale la Vergine e il Figlio (che avevano sussunto i riti e gli onori della Luna e del Figlio-stella) avevano maggiore importanza religiosa del Dio-padre». A distruggere la vera lingua poetica furono i primi filosofi greci, «fortemente ostili alla poesia magica, nella quale ravvisavano una minaccia per la nuova religione della logica».
In questo quadro, parlare della poesia vuol dire parlare della guerra. Come spiega un neocretese: «Quando i vostri antenati si ribellarono contro di lei [la Dea], inventarono un Dio-padre il cui solo interesse era la guerra». Il cristianesimo è considerato una deviazione, un tentativo di «regolare e purificare il culto del Dio-padre mediante la definitiva soppressione del culto della Dea».
Come si è tornati al culto della Dea, nel futuro inventato da Graves? Di guerra in guerra, passando per una pioggia radioattiva artificiale, lo spopola- mento e la fine del predominio della scienza. La civiltà neocretese nasce come esperimento: formare alcune colonie (di galeotti) in cui riavviare antiche forme di vita, come per esempio l’età del ferro, lasciando che si sviluppi «fino alla vigilia dell’invenzione della polvere da sparo e della stampa». Questo mondo senza macchine e senza informazione riscopre il potere della magia. È una forma radicale di decrescita: il sistema è vincente e si impone praticamente in tutto il mondo.
E qui arriviamo al paradosso di questo romanzo: se prende in giro l’ingenuità dei neocretesi quasi per necessità drammaturgiche, allo stesso tempo è impegnato in tre grandi profezie che sembra considerare positive. Le sintetizza Silvia Ronchey nella postfazione, giudicandole esatte seppure in maniera complessa: «La fine del cristianesimo, il sostituirsi al predominio del maschio di un nuovo dominio femminile e il ritorno di un nuovo paganesimo legato al culto magico della natura».

Graves, nostalgia del male nella Nuova Creta «Sette giorni fra mille anni». Utopico e distopico, il romanzo di Robert Graves ha per protagonista un eccitabile poeta, alter ego dell’autore che si concesse questa pausa narrativa alla fine degli anni quaranta Viola Papetti, il Manifesto 5.4.2015
A felice con­clu­sione del lungo, avven­tu­roso viag­gio entro il labi­rin­tico mito della Dea Bianca, Robert Gra­ves aveva scritto: «Un pro­feta come Mosè, o come Gio­vanni Bat­ti­sta, o Mao­metto, parla in nome di una divi­nità maschile e afferma: “Così dice il Signore!” Io non sono il pro­feta della Dea Bianca e mai ose­rei affer­mare: “Così dice la Dea!”. Ma la sem­plice dichia­ra­zione piena di amore: “Nes­suno più grande, della Tri­plice Dea!” è stata sem­pre fatta, impli­ci­ta­mente o espli­ci­ta­mente, da tutti i poeti della Musa da quando ebbe ini­zio la poe­sia.» Per com­porre nel 1948 la Dea Bianca, il tanto osan­nato sag­gio sul mito della Dea Madre nella cul­tura pre-ellenica, Gra­ves aveva impie­gato sei set­ti­mane; ma gli ci vol­lero dieci anni per revi­sio­narlo, tal­lo­nato anche da non poche cri­ti­che.
I sim­boli che lo ave­vano gui­dato in quella for­tu­nata impresa erano pre­senti nella coper­tina ame­ri­cana dise­gnata da Ken­neth Gay: la Tri­plice Dea porge una palma al navi­gante in pre­ghiera, ritto sulle onde, in cielo le tre grù a lei sacre, il divino ser­pente distri­bu­tore dei venti, la stella guida. «Basta con­sul­tare le fonti prin­ci­pali, e se cono­sci il periodo, il libro si scrive da sé». Quanto alle fonti prin­ci­pali, le aveva pro­ba­bil­mente tro­vate in casa sua: il nonno irlan­dese, Edward Gra­ves, aveva scritto sull’ogham, l’alfabeto irlan­dese degli alberi, men­tre il pro­zio tede­sco Leo­pold von Ranke, un famoso sto­rico, quasi di certo pos­se­deva Il matriar­cato del 1861 di J. J. Bacho­fen e forse anche i due volumi di Lewis H. Mor­gan, The Lea­gue of the Ho-dé-no-sau-nee or Iro­quois (del 1851), uno stu­dio sul «diritto della madre» dif­fuso non solo in Europa, ma in tutto il mondo. Quel tema pro­vo­ca­to­rio era desti­nato a rie­cheg­giare ogni volta che si par­lava di comu­ni­smo pri­mi­tivo, di cri­tica della vio­lenza, di un’utopica società senza classi. E ovvia­mente dei diritti delle donne.
Finito il mito­po­ie­tico tour de force, Gra­ves non aveva esau­rito del tutto la sua spinta affa­bu­la­to­ria. E l’anno dopo, da quell’esperto sto­ry­tel­ler che era, in una pausa vuota, lon­tano dai libri, scrisse e pub­blicò in un bat­ter d’occhio, l’elegante, umo­rale utopia-distopia Sette giorni fra mille anni (otti­ma­mente tra­dotto da Sil­via Bre e con un impor­tante sag­gio di Sil­via Ron­chey, Not­te­tempo, pp. 413, euro 20,00). Il pro­ta­go­ni­sta è un ecci­ta­bile poeta, Edward Venn-Thomas, alter ego dell’autore.
A Nuova Creta, nell’amoroso paese della Dea Madre, il diritto matrilineare-dionisiaco è legge, e vi sono accolti quei poeti che Pla­tone aveva cac­ciato dalla sua Repub­blica. Venn-Thomas è stato cor­te­se­mente invi­tato per ser­vire dop­pia­mente come testi­mone dell’epoca tar­do­cri­stiana da cui pro­viene, di cui i nuovi cre­tesi avver­tono ancora il fascino, e come con­tro­prova della bontà dei loro valori morali e del nuovo ordi­na­mento sociale che impone loro biz­zarre (per noi) con­sue­tu­dini. Ad esem­pio, per fare sesso sarà suf­fi­ciente che i due corpi flut­tuino in aria, e per con­ce­pire ci si dovrà disten­dere sulla tomba del defunto amato, che rina­scerà e pre­sto tor­nerà in forma.
Gli uomini, belli, sereni, felici, privi di rughe, sven­to­lano nomi iro­chesi come Vedo Un Uccello, Apri Per Favore, Pane E Fichi, Stella Di Mare. Non sono in con­flitto con le donne, né tra di loro per­ché le classi sociali sono abo­lite e al loro posto vi sono cin­que caste, che si con­tano sulle dita: il pol­lice, ossia i capi­tani, la casta nobile, l’indice, che sta per gli archi­vi­sti dediti alla edu­ca­zione e alla cul­tura, il medio, il dito degli scioc­chi, che rap­pre­senta il popolo, più nume­roso, il quarto che è il dito dei servi, poco auto­nomi, infine il mignolo, il ditino dei maghi, pochi ma atti­vis­simi.
I sacer­doti appar­ten­gono alla casta dei servi, e il Re, che sarebbe il servo supremo, appar­tiene invece alla casta del popolo, così che il potere poli­tico e quello spi­ri­tuale siano sepa­rati. Le guerre si fanno ma senza com­bat­tere, e il vin­ci­tore è gra­zio­sa­mente dichia­rato di comune accordo. Non ci sono con­tratti, ma scam­bio di doni. Né ci sono forze dell’ordine, per­ché il col­pe­vole del più lieve reato si auto­de­nun­cia, si auto­pu­ni­sce, muore e rina­sce in altra casta entro breve tempo.
Ma il lavoro più ori­gi­nale è quello degli archi­vi­sti dai quali ci sarebbe molto da impa­rare. Ritratti e pae­saggi sono con­si­de­rati inu­tili di fronte alla fra­granza del vero; così il gabi­netto, l’inceneritore, il trat­tore alte­rano il nostro intimo rap­porto con la natura. La sto­ria neces­sa­ria, il rac­conto del fal­li­mento della cul­tura tar­do­cri­stiana, è rac­chiuso in un Com­pen­dio di sto­ria dove si pre­fi­gura la fine del papato che sarà tra­sfe­rito da Roma a San Fran­ci­sco, il Gesù israe­lita sarà distinto dal Cri­sto divino che alla fine si chia­merà Pace, tout court – un iro­nico omag­gio alla moda fan­ta­scien­ti­fica, da Tom­maso Moro a Orwell. Un alle­gro ridi­men­sio­nato è impo­sto ai poeti, primo fra tutti Sha­ke­speare. L’abnorme quan­tità di libri scritti su di lui sono stati ridotti dai neo­cre­tesi a tre pagine, la sua opera a trenta. «Abbiamo tenuto solo ciò che Sha­ke­speare aveva scritto quando era auten­ti­ca­mente ispi­rato».
Il Canone Inglese è con­den­sato e sem­pli­fi­cato. «Robin Hood è l’Omero inglese». Una poe­sia di Venn-Thomas, ossia di Gra­ves stesso, è stata attri­buita al poeta Tse­liot, figura com­po­sta anche da altri poeti con­tem­po­ra­nei – som­mersi dalla grande piena del miti­cheg­giante Waste Land di Eliot. A Nuova Creta si pri­vi­le­gia invece la diretta cono­scenza dei miti e della let­te­ra­tura mitica, un patri­mo­nio degno d’essere inciso su lastre d’oro – altro sber­leffo a James Fra­zer, a Joseph Cam­p­bell e a se stesso. Quanto alla musica, una gen­tile don­zella accom­pa­gna sul liuto una can­zone di John Dow­land, ma epu­rata del testo ori­gi­nale.
Man­cano il Male e il Comico nel mondo della Grande Madre, ma Gra­ves stesso, che tra­spare sem­pre di più da sotto la maschera di Venn-Thomas, agita le acque. Va in giro scon­tento in cerca di Gau­loi­ses, un buon pasto final­mente ed ecci­tanti vari; osserva con occhio scet­tico le prime crepe di quella società infan­tile, non resi­ste alla ten­ta­zione della sua ter­ri­bile sfi­dante, quella Laura Riding che, sotto men­tite iden­tità neo­cre­tesi, lo seduce di nuovo. Con lei, ex-amante e col­la­bo­ra­trice, nel 1927 Gra­ves aveva scritto A Sur­vey of Modern Poe­try e l’anno suc­ces­sivo e A Pam­phlet Against Antho­lo­gies, due libri di suc­cesso che ave­vano intro­dotto noi angli­sti alle raf­fi­na­tezze del New Cri­ti­cism ame­ri­cano.
Sil­via Ron­chey ricorda che Laura Riding era stata anche autrice di The World and Our­sel­ves, «mani­fe­sto di un fem­mi­ni­smo mes­sia­nico che lei, la Dea Bianca, aveva pub­bli­cato subito dopo averlo tra­dito, abban­do­nato e rin­ne­gato». Gra­ves, quasi in rispo­sta, mette sotto accusa le debo­lezze e le con­trad­di­zioni della legge della Grande Madre che ci avrebbe donato un «rac­colto di dolore, poi­ché il vero amore e la vera sag­gezza nascono dalla sven­tura.» Si toglie­rebbe la sua per­pe­tua maschera di cru­deltà, «in segreto, e di rado, solo per i pazzi, i poeti e gli amanti» (cita­zione occulta dal Sogno di una notte di mezza estate.)
Qui Gra­ves, sul punto di lan­ciarsi in una pre­dica qua­re­si­male, chiede aiuto a Sha­ke­speare. Gli risponde Ippo­lita, regina delle Amaz­zoni, vinta e vio­len­tata da Teseo, che lo segue rilut­tante e ras­se­gnata alle fastose nozze ripa­ra­trici. All’improvviso è assa­lita dalla nostal­gia: «Un tempo ero a Creta con Ercole e Cadmo a inse­guire l’orso in un bosco con brac­chi di Sparta. Mai avevo udito un abba­iare così gagliardo. Oltre i boschi, il cielo, le fonti, ogni terra vicina sem­brava un solo comune latrato. Mai avevo udito una discor­dia così musi­cale, uno stre­pito così elo­quente.» Que­sta, secondo il poeta, era la libera vita nel tempo felice della Dea Madre.

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