giovedì 9 aprile 2015

Design come decorazione: continua la battaglia di Vittorio Gregotti contro li postmodernismo in architettura e nelle arti figurative

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Se il design diventa solo seduzione 

Ormai ha perso la sua originaria forza progettuale per migliorare la moderna società di massa 

Vittorio Gregotti Mercoledì 8 Aprile, 2015 CORRIERE DELLA SERA ©

Anche quest’anno il tradizionale Salone del mobile si aprirà il 14 aprile e ad esso auguriamo tutti ancora una volta il miglior successo economico e turistico. Tuttavia un esame, anche in questa parziale occasione, dei limiti e dell’estensione forse abusiva della nozione di design sarebbe opportuna. 
Lo stato di quello che centocinquant’anni or sono si definiva «disegno del prodotto industriale» - con le proposte del moderno definite nel primo ventennio del Ventesimo secolo e poi con la stilistica della mostra dell’«art deco» nel 1985 a Parigi -, e che negli anni Cinquanta diviene «design», è giunto ormai (insieme alla sua imitazione mercantile di tutte le attività del cosiddetto «fare creativo») a uno stato di disorientamento assai più vasto di quello dell’architettura e delle arti visive. 
La vastità della letteratura intorno alla storia della cultura materiale, ma anche decorativa, o in forma funzionalmente obbligatoria è così ampia e, insieme, sono così incerti i suoi confini verso le arti visive, verso le esigenze diverse di modi di produzione e obbiettivi di uso, verso le arti grafiche, la pubblicità, i costumi, le culture, le mode ma anche nei confronti dell’architettura, dell’allestimento, dell’arredamento, supportati dai mezzi di comunicazione immateriali dei nostri anni (che ne sono coinvolti a causa nello stesso tempo della loro popolarità e della loro incerta definizione), che una riflessione bibliografica sull’argomento richiederebbe un’intera enciclopedia. Tale cultura ha, come è ben noto, un’origine antichissima e la sua «tekne» è stata principio e fondamento di una parte rilevante delle arti e della capacità di praticare in modo creativo le loro regole del fare, poiché ogni oggetto è sempre connesso con una volontà di forma come segno significante. 
Ovviamente ciò che è diffusamente definito oggi come design è un atteggiamento che vorrebbe investire ogni oggetto e azione della cultura della globalità come neocolonialista dei nostri ambienti, oggetti, informazioni, eventi, costumi..., ma anche relazioni sociali, comportamenti, spettacoli, espressioni soggettive (falsamente) libere attraverso ad una visibilità super evidente, dimostrativi di un’attualità. Non si tratta quindi solo di una disciplina del prodotto, ma del trionfo di una stilistica della seduzione, della varietà senza regole, di una carrozzeria della seduzione. 
Ciò che distingue strutturalmente questa posizione da quella della tradizione del moderno non è quindi né l’assenza di razionalismo funzionalista né della volontà di rappresentare nell’interesse collettivo la condizione politicamente e linguisticamente offerta dalla «civilisation macchiniste», ma piuttosto il risveglio di una apparente libertà singolare di protesta senza proposta offerta dalla mitizzazione dei mezzi di comunicazione immateriali e da un’ideologia del rispecchiamento positivo delle condizioni offerte dal capitalismo finanziario globale anziché da un esame critico delle contraddizioni della realtà del presente e dalla ricerca di frammenti di verità come fondamento di un futuro possibile e necessario. 
È invece anzitutto necessaria la riduzione delle ambizioni ed insieme dell’abitudine di definire con il nome di «design» qualsiasi azione che comporta esiti di immagine che sembra oggi essere la priorità e ritrovare gli elementi disciplinari in grado di definire un’azione progettuale dotata di limiti e di regole rispetto alle quali misurare le eccezioni e le ragioni necessarie alla costituzione di regole altre. Ma come e su quali obiettivi convergenti è possibile pensare alla ricostruzione di una disciplina, di un progetto strutturalmente innovativo di fronte alla sterminata quantità e diversità misteriosa per l’utente di prodotti che circondano la nostra vita quotidiana, con il progressivo mistero dell’involucro che copre circuiti e meccanismi interni all’oggetto e che sembra smentire ogni relazione espressiva tra forma e funzione? Oppure è proprio questo che impedisce ragionevolmente la pretesa di stringere in un’unità intenzionale e metodologica convincente tale produzione che pretende invece di estendersi alla globalità, all’ecommerce, all’immagine dei servizi, dello sviluppo sostenibile e dell’ecologia, alla partecipazione dell’utente al completamento, all’invenzione di un nuovo bisogno e persino alla pura presenza dell’oggetto? 
Nello scorso aprile Manolo De Giorgi ha scritto su «Domus» un saggio in cui analizza le conseguenze positive o negative ma certo sconvolgenti della diffusione delle possibilità offerte dalla stampante 3D sulla costituzione di microaziende, soprattutto nelle aree dotate di una vasta cultura artigianale e della crisi proprio delle aziende che hanno positivamente costruito la cultura del disegno degli oggetti in Italia nel ventennio 60/80 (come testimonia anche il recente libro sui Castiglioni di Marco Sironi). Si tratta, ancora una volta, dello straordinario potere dei mezzi a confronto però con l’assenza totale di obbiettivi interni di ideali e della pratica culturale delle azioni che ne propongono gli esiti. 
Tutto ciò senza ritorni nostalgici o folcloristici, ma anche senza rinuncia alla profondità delle ragioni e delle differenze positive accumulate dalla storia per mezzo della dialettica tra futuro e sostanza specifica delle diverse culture, che deve essere un compito fondante delle ragioni delle forme e delle loro specificità in una progettazione di una nuova cultura materiale che sappia utilizzare (senza mitizzarlo quale contenuto) ogni mezzo offerto dal progredire delle tecnologie quale elemento degli ideali di futuro .

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