sabato 4 aprile 2015

La storia del restauro del Cenacolo di Leonardo

LA MIA VITA CON LEONARDOPinin Brambilla Barcilon:  La mia vita con Leonardo, Electa

Risvolto
“Il rapporto che si stabilisce con l’opera che si restaura è un rapporto di empatia, non solo e semplicemente una partecipazione emotiva, ma una capacità (che si esercita con la mente e con il cuore) di immedesimarsi nell’opera d’arte, di percepirne l’intima struttura, di catturarne l’anima, la verità più autentica.”
(Pinin Brambilla Barcilon)
Electa pubblica La mia vita con Leonardo, il libro attraverso il quale Pinin Brambilla Barcilon racconta i vent’anni di lavoro appassionato per il restauro dell’Ultima Cena di Leonardo.
Nel 1977 venne chiesto a Pinin Brambilla Barcilon, che aveva alle spalle un’esperienza pluridecennale nel restauro delle pitture murali, di avvicinarsi alla parete dell’Ultima Cena, il capolavoro di Leonardo da Vinci nuovamente minacciato da problemi di conservazione. Da quell’incontro prese avvio uno dei più intriganti e controversi cantieri di restauro del Novecento, un’impresa durata oltre vent’anni e destinata a restituire, per la prima volta dopo secoli, la pittura di Leonardo.
Per circa vent’anni L’Ultima Cena di Leonardo è stata una sorta di compagno di vita per la restauratrice, un compagno che esigeva tutta la passione e la dedizione di cui era capace.
Sin dall’inizio l’avvio del restauro ebbe grande risonanza sui principali giornali del mondo e Pinin Brambilla Barcilon – schiva per natura e abituata a lavorare con discrezione – si trovò improvvisamente a essere un personaggio da copertina, anche perché all’epoca c’era molta curiosità intorno alla figura di una restauratrice donna. Dichiarò in un’intervista: “Che figlio è Leonardo? È un figlio fuori del tempo, di enorme inventiva, alla perenne ricerca della perfezione. È un figlio difficile che mi dà delle preoccupazioni, chissà se mi sarà grato… Non so se gli piaccia che si mettano le mani sulle sue opere”.
Nel libro l’autrice racconta i ricordi personali, le emozioni, le difficoltà incontrate, i momenti salienti – come l’intervento di Olivetti a sostegno del restauro –, ma anche i dettagli tecnici del lavoro.
Gravi eventi storici avevano compromesso nei secoli la sopravvivenza del Cenacolo: nel 1796 i soldati francesi trasformarono per tre anni il Refettorio in una stalla, nel 1848 l’esercito austriaco utilizzò l’ambiente per l’acquartieramento delle truppe, ma l’evento più drammatico si verificò nella notte tra il 15 e il 16 agosto 1943, quando un ordigno caduto nel mezzo del chiostro grande provocò il crollo del muro e della volta del Refettorio.
Con cura meticolosa, sui ponteggi, spesso sotto gli occhi dei visitatori, la restauratrice porta a termine il restauro del capolavoro che il 27 maggio 1999 con l’inaugurazione del dipinto restaurato, tornava a essere visibile nel massimo della sua leggibilità, lasciando emergere quella “verità” degli animi, degli oggetti, della natura che è ancora oggi all’origine dello stupore che la restauratrice conserva intatta.
Conclude il libro un capitolo nel quale l’autrice ripercorre la parete vinciana ricordando gli aspetti dell’iconografia riemersa che la colpirono di più.
“Avvicinarsi al genio universale di Leonardo costituisce nella carriera di un restauratore un’occasione unica, irripetibile… dovevo vincolare la mia emotività a una disciplina ferrea, dovevo raccogliere tutta la mia concentrazione e tenere a portata di mano, perfettamente schierati, tutti gli strumenti del mestiere.”

Per 22 anni ha restaurato il Cenacolo. E dietro all'artista ha scoperto l'uomo. Pieno di dubbi... 

Eleonora Barbieri - il Giornale Ven, 03/04/2015

Il ponteggio civile di Pinin Brambilla 
Un incontro in occasione del libro «La mia vita con Leonardo», Electa. Vinse, da sola, la sfida proibitiva del Cenacolo. Adesso ricorda, con pudore e consapevolezza, quell’avventura milanese durata vent’anni 
Giuseppe Frangi, il Manifesto 5.4.2015 
Il restauro del Cena­colo come lezione di sto­ria civile: potrebbe essere que­sto il sot­to­ti­tolo del bel libro che Pinin Bram­billa Bar­ci­lon a oltre tre lustri dal ter­mine dei lavori, si è decisa a scri­vere per rac­con­tare quell’esperienza asso­lu­ta­mente unica, vent’anni pas­sati a tu per tu con il capo­la­voro (La mia vita con Leo­nardo, Electa, pp. 120, euro 19,90). Un libro scritto senza nes­suna pre­sun­zione, con molta sin­ce­rità, e anche con umiltà: Pinin Bram­billa ha con­dotto sostan­zial­mente da sola la sfida proi­bi­tiva del restauro, e a buon diritto avrebbe potuto met­tere al cen­tro se stessa. Invece ha pre­fe­rito docu­men­tare quella straor­di­na­ria situa­zione di con­te­sto, quella con­ver­genza di buoni com­por­ta­menti, quella dimen­sione di respon­sa­bi­lità di cia­scuno dei sog­getti coin­volti nell’impresa, che sono stati il retro­terra neces­sa­rio per por­tare a ter­mine la deli­ca­tis­sima impresa. E in que­sta scelta «nar­ra­tiva» di Pinin Bram­billa, si può dire, sta una prima lezione di sto­ria civile: lezione dop­pia­mente signi­fi­ca­tiva per­ché frutto di un com­por­ta­mento di oggi, non di buone pra­ti­che del pas­sato, ormai appar­te­nenti alla sto­ria.
Una seconda lezione di sto­ria civile è la que­stione fem­mi­nile. A fine anni set­tanta è una donna a salire da sola sui pon­teggi della pit­tura murale più famosa del mondo e a pren­dersi le respon­sa­bi­lità di un inter­vento che avrebbe cam­biato pro­fon­da­mente l’immagine di quel capo­la­voro. Del resto forse solo una sen­si­bi­lità fem­mi­nile poteva rista­bi­lire un con­tatto con la pit­tura di Leo­nardo, che se ne stava schiac­ciata e quasi umi­liata da tanti inter­venti pre­va­ri­ca­tori. «Non saprei dire se un uomo avrebbe potuto fare altret­tanto», mi dice Pinin Bram­billa, incon­trata in una magni­fica gior­nata di sole, nel suo stu­dio mila­nese. «Il Padre eterno ha dato a tutti noi delle doti, chi bel­lezza, chi intel­li­genza, chi abi­lità manuale. A me ha dato una certa sen­si­bi­lità, per cui quando vedo un qua­dro, imme­dia­ta­mente rie­sco a valu­tare e a vedere come potrebbe venire fuori il restauro… È una sen­si­bi­lità che fa sen­tire l’opera. Un restau­ra­tore non può con­fi­dare solo su doti teo­ri­che o mec­ca­ni­che. Il fem­mi­nile pro­ba­bil­mente aiuta in que­sta dote».
Il Cena­colo andava sco­vato con pazienza, senza pre­tese, facendo i conti sino in fondo con quella sua fra­gi­lità costi­tu­tiva. «Era come una crea­tura che avesse spe­ri­men­tato tutte le malat­tie pos­si­bili. Una crea­tura che però alla fine non cade mai. Non cadde nean­che quando le bombe del 1943 fecero terra bru­ciata tutt’attorno e il suo muro, sgan­ciato dalle strut­ture, fu l’unico a restare in piedi. Il restau­ra­tore deve fare i conti con que­sto dop­pio volto del destino. La fra­gi­lità da una parte, e dall’altra un’irriducibile resi­stenza. Un’opera che si rifiuta di morire, la defi­niva Renzo Zorzi».
Pinin Bram­billa ha lavo­rato sola sul pon­teg­gio per quasi tutta la durata del restauro. Solo alla fine, avvi­ci­nan­dosi la sca­denza del cen­te­na­rio, si fece aiu­tare da due altre restau­ra­trici della sua squa­dra, per acce­le­rare un po’ i tempi. Lavorò sola, ma senza mai essere lasciata sola. E que­sta è un’altra lezione esem­plare che si ricava dal libro. «Fu una situa­zione esem­plare in cui per­sone di qual­che auto­re­vo­lezza mi accom­pa­gna­rono in que­sto per­corso, con­di­vi­dendo le scelte e in par­ti­co­lare evi­tando la per­dita di tempo di inu­tili pole­mi­che», rac­conta Pinin Bram­billa. Il rife­ri­mento è in par­ti­co­lare a Carlo Ber­telli, sovrin­ten­dente di Brera, e a Renzo Zorzi che rap­pre­sen­tava lo spon­sor, l’Olivetti, senza il quale il restauro non sarebbe stato pos­si­bile. In par­ti­co­lare Zorzi svolse un ruolo chiave. «Un uomo di grande senso civile – ricorda la restau­ra­trice –, che non pre­va­ri­cava mai, che non faceva mai pesare il pro­prio ruolo, pur essendo colui che met­teva i soldi. Pur rap­pre­sen­tando un pri­vato, aveva un grande senso della pro­pria fun­zione pub­blica e dei con­fini che doveva rispet­tare». Non solo, Zorzi accom­pa­gnò il restauro con tante deci­sioni col­la­te­rali di grande intel­li­genza che con­tri­bui­rono non tanto alla spet­ta­co­la­riz­za­zione, quanto a una mag­gior cono­scenza dif­fusa del capo­la­voro che in qual­che modo stava per «rina­scere». E Pinin Bram­billa cita l’idea della mostra dei dise­gni pre­pa­ra­tori custo­diti a Wind­sor, il restauro della copia più fedele del Cena­colo, quella del Giam­pie­trino, l’avvio dei «Qua­derni del restauro» che per­mi­sero una rifles­sione e un appro­fon­di­mento in diretta su ciò che del capo­la­voro si andava via via sve­lando. La pagina intro­dut­tiva di Zorzi sul primo numero del 1984 (giu­sta­mente ripresa lar­ga­mente nel libro), in cui si sin­te­tizza come possa con­fi­gu­rarsi il ruolo del pri­vato in un’impresa come que­sta, è dav­vero esem­plare: una pagina di sto­ria civile, che pur­troppo non ha fatto cul­tura. «Oggi siamo lon­tani anni luce da un approc­cio del genere – sot­to­li­nea Pinin Bram­billa –, oggi pre­vale la ragione dell’immagine e la pre­tesa di appa­rire. Si passa subito all’incasso, men­tre nel caso del Cena­colo lo spon­sor era stato sem­pre discreto, pur senza sot­trarsi a nes­suna delle sue respon­sa­bi­lità e senza rinun­ciare a un’intelligente e atti­vis­sima capa­cità di ini­zia­tiva. Non sen­tii mai una volta Zorzi met­tere l’accento sul dato eco­no­mico, anche quando a volte, per neces­sità, si usciva dai bud­get pre­vi­sti».
Il risul­tato di que­sta con­di­vi­sione di intenti e di que­sto rispetto reci­proco dei ruoli, è stato il «mira­colo» di un bas­sis­simo tasso di liti­gio­sità su un inter­vento che si sarebbe pre­stato invece facil­mente a pole­mi­che media­ti­che di sicuro effetto. Per­sino Fede­rico Zeri, par­tito asso­lu­ta­mente pre­ve­nuto rispetto alla filo­so­fia del restauro, fu indotto a rive­dere le sue posi­zioni. «Lo accom­pa­gnammo sui ponti, faci­li­tan­do­gli la salita con degli sci­voli», ricorda Pinin Bram­billa. «Vole­vamo che si ren­desse conto da vicino di cosa stesse emer­gendo dal lavoro di restauro. Ricordo il suo sguardo di mera­vi­glia, davanti ai tanti par­ti­co­lari in cui ritro­vava le ragioni di tanta pit­tura lom­barda suc­ces­siva». E in un’intervista ad Avve­nire ammise che il risul­tato «era sor­pren­dente, di molto supe­riore a ogni lecita aspet­ta­tiva.… Sol­tanto adesso è pos­si­bile leg­gere la luce, la strut­tura lumi­ni­stica dell’opera».
Poi ovvia­mente c’è Leo­nardo. Quando Pinin Bram­billa salì per la prima volta su un pon­teg­gio con l’allora soprin­ten­dente Franco Rus­soli, l’impressione fu com­ple­ta­mente nega­tiva: «Non riu­scivo a capire la mate­ria, era un ammasso di grumi, dis­se­mi­nata di pic­cole zone chiare là dove era caduta la super­fi­cie dipinta». Il primo vero incon­tro con Leo­nardo, un incon­tro in cui final­mente il genio si apriva all’occhio della sua restau­ra­trice, è di qual­che anno dopo. Alle prese con la lunetta cen­trale Pinin Bram­billa sco­pre una titu­banza del mae­stro nella resa di uno scudo con il trac­ciato di un biscione. È come l’inizio di una con­fi­denza, di una pro­gres­siva sin­to­nia desti­nata a riser­vare tante sor­prese. «Osser­van­dolo e stu­dian­dolo con atten­zione – ricorda – mi sen­tii piano piano inva­dere da un senso di calma: comin­ciavo a costruire una serie di ragio­na­menti, riu­scivo a rior­di­nare men­tal­mente i tanti dati: met­tere in fila le domande e capire come inter­ro­gare la parete mi sem­bra­rono un buon punto di par­tenza».
Prima di lasciarla le chiedo quale sia l’apostolo a cui si è più affe­zio­nata. La rispo­sta è senza esi­ta­zioni: «Mat­teo. L’abbiamo libe­rato dalla barba, l’abbiamo ritro­vato gio­vane, con i cap­pelli ricci e biondi, una postura clas­sica e con quella sua gestua­lità sor­pren­dente. Per di più Mat­teo ci con­cede un fram­mento di quel man­tello blu su cui Leo­nardo lavo­rava a dop­pia ste­sura con lapi­slaz­zuli e azzur­rite, e a volte rifi­ni­tura con la lacca. Bellissimo».

Nessun commento: