lunedì 13 aprile 2015

Lincoln


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La conversione di Lincoln Da giovane giudicava i neri inferiori In guerra affermò la libertà per tutti Domenica 12 Aprile, 2015 LA LETTURA


Abraham Lincoln è un’icona del mito americano di libertà, il Cristo martire rispetto a George Washington, Padre della patria. Un mito in cui gli americani hanno visto se stessi, esaltandolo e anche criticandolo. Una figura, però, molto difficile da penetrare in un periodo che, sottratto ai miti e alle ideologie, offre una lezione sulla complessità e drammaticità della storia. 
Uomo della frontiera, senza scolarizzazione, ma autodidatta di genio, il giovane Lincoln crebbe come un pioniere fra Kentucky e Illinois. I pionieri — però — non sono figure romantiche e la frontiera — si sa — non è la culla della libertà americana, bensì una sorta di colonia interna voluta e costruita dalle zone più avanzate dell’Est, con un’agricoltura inserita appena possibile nel mercato e centinaia di cittadine in cui ambiziosi giovani dell’Est o giovanotti locali desiderosi di sfuggire alla vita contadina creano una rete di servizi per la campagna circostante. Lincoln fu uno di questi quando in Illinois si mise a fare, senza alcuna preparazione, l’avvocato e l’uomo politico. Divenne presto un notabile locale. La sua parabola corrisponde alla crescita della nazione nella prima metà dell’Ottocento, vale a dire al progressivo interconnettersi, a causa delle rivoluzioni industriale, religiosa e democratica, delle tante regioni e comunità semiautonome che formavano il patchwork statunitense delle origini, culturalmente legato a un fiero nazionalismo il cui nemico ideologico era la vecchia Europa. 
Lincoln, della cui morte ricorre il 15 aprile il centocinquantesimo anniversario (vittima di un attentato la sera del 14, si spense l’indomani mattina), appartiene in pieno a questo quadro. Era un personaggio esuberante, allegro, socievolissimo, ma al tempo stesso depresso al limite del suicidio, vittima del tentativo di sottrarsi al rigido calvinismo dei suoi. Adoratore della Costituzione e della libertà americane, sostenitore di tutte le misure tese al progresso economico, è il prototipo della nascente borghesia e dell’individualismo americani, un individualismo il cui ideale era la capacità di autogoverno etico e di successo pratico. 
Al pari di quasi tutti gli americani Lincoln non faceva grande attenzione alla schiavitù, anche se non la amava per ragioni morali. Il dramma storico americano fu che, mentre in Europa l’ideologia della superiorità bianca venne proiettata all’esterno con il colonialismo, negli Stati Uniti si esercitava all’interno, con la schiavitù nera, elemento indispensabile del capitalismo americano nella sua attivissima versione agricola per l’esportazione del Sud, diversa ma parallela a quella industriale e commerciale del Nord. Lo schiavismo aveva la forza di una positiva normalità quotidiana, che lo rendeva invisibile nella sua natura alla maggioranza degli americani, così come quasi impossibile era per un numero ancor maggiore sottrarsi alla cultura che impediva di accettare i neri liberi come propri pari. Lincoln era fra questi ultimi; ma soprattutto, per quanto antischiavista, era un nazionalista e non voleva che la schiavitù diventasse un problema per l’unità americana. 
Uniti nel razzismo, gli americani si divisero perché la schiavitù diede vita a due sistemi sociali e culturali opposti. A Nord l’ideologia capitalista del contratto prese il sopravvento e fece apparire la schiavitù un barbarismo arretrato, mentre a Sud era difesa come il modo più corretto per gestire la convivenza fra una razza superiore e una inferiore. Le due sezioni presero a estraniarsi l’una dall’altra e a costruire due diverse forme di nazionalismo, che ciascuna riteneva essere espressione perfetta di quello americano. 
Lincoln, benché travagliato a livello personale, viveva senza grandi problemi in questa contraddittoria realtà, fin quando le cose cambiarono negli anni Cinquanta dell’Ottocento. Lo scontro sezionale sull’introduzione o meno della schiavitù nei territori dell’estremo Ovest, non ancora colonizzati, si trasformò in uno scontro sul significato dell’America e della libertà e le due sezioni divennero nemiche, bloccando la crescita della nazione. Il sempre intenso Lincoln, pur nel dolore delle sue lotte interiori, era portato a riflettere intensamente e sua caratteristica era la capacità di modificare il proprio pensiero in rapporto al mutare della realtà. Partito dall’idea che, per far avanzare la libertà americana, l’Ovest dovesse essere riservato ai pionieri bianchi, egli maturò quella che i neri, sebbene inferiori, avevano diritto di guadagnarsi liberamente il pane in quanto l’ideale di libertà contenuto nella Dichiarazione di indipendenza aveva valore universale e la schiavitù lo violava, violando la missione americana. 
Divenuto presidente nel 1860, perché i maggiori leader repubblicani si annullarono l’un l’altro, regalandogli la nomination , e perché il Partito democratico si spaccò fra tre candidati, Lincoln dovette subito fronteggiare la secessione e la guerra degli Stati sudisti, convinti del loro legittimo americanismo. 
Estremamente semplice, amante della gente comune, convinto di stare compiendo un servizio per il Paese, Lincoln era irremovibile nel portare avanti le proprie decisioni. Come presidente riuscì a dominare un gabinetto che aveva voluto composto da personalità molto forti e diverse. Dopo una serie di insuccessi, fu lui a definire la strategia delle armate nordiste, puntando a distruggere le forze nemiche, cosciente che i sudisti non erano in grado di rimpiazzarle, e a disarticolare la struttura sociale ed economica dei confederati. Le campagne nell’area del Mississippi ebbero questo significato, al pari del proclama di emancipazione degli schiavi del 1° gennaio 1863. 

Gli schiavi si «liberavano coi piedi», fuggendo numerosi verso le linee unioniste: il proclama rafforzò questa fuga e cambiò il senso della guerra, da un conflitto per salvaguardare l’unità nazionale a uno per la libertà universale come significato ultimo degli Stati Uniti. L’arruolamento di quasi 200 mila neri e il coraggio da essi dimostrato in battaglia portarono a un’ultima trasformazione di Lincoln, che prese ad apprezzarli e ad avvicinare le loro capacità a quelle dei bianchi, tanto da immaginare un dopoguerra in cui essi avrebbero cominciato a godere dei diritti civili. In questo fu aiutato dalla fede crescente in una Divinità misteriosa che indirizzava la storia (non però un Dio cristiano); fede maturata davanti all’orrore per la strage che la guerra, con i suoi oltre 600 mila morti, stava causando. 
Ucciso da un giovane fanatico sudista, Lincoln entrò subito nella leggenda. 
La leggenda è a sua volta un fatto storico, ma successivo. La biografia di Lincoln è quella di un politico che visse il fallimento della costruzione nazionale nella prima metà dell’Ottocento e contribuì a riavviarla, rielaborandola e cambiando il senso di una guerra distruttrice. Cosa che fece liberandosi in una durissima lotta con se stesso dal compiacente nazionalismo liberale e progressista in cui era cresciuto.


«O Capitano!» Il sogno di Whitman
di Giuseppe Conti Corriere La Lettura 12.4.15

Abraham Lincoln era alto quasi due metri, scarno, le braccia troppo lunghe, i lineamenti decisi, come intagliati nella pietra. Aveva una oratoria persuasiva, una grande energia magnetica. Walt Whitman, che era più giovane di lui di dieci anni e non lo incontrò mai di persona, lo definì «dolce, schietto, giusto, risoluto». Il sedicesimo presidente degli Stati Uniti aveva diversi aspetti in comune con il poeta di Foglie d’erba . Si era formato da autodidatta, con quello che significa creare la propria cultura fuori da cerchie accademiche, a contatto con i libri scelti personalmente come sacri; aveva probabilmente, anche se fioriscono in proposito inutili polemiche, una qualche inclinazione omosessuale; ma soprattutto, pur avendo dato eccellenti prove di sé come politico navigato e astuto, non era estraneo a un sentimento poetico della vita nazionale, a una idea poetica della democrazia. Una concezione con radici bibliche dove contano unità, fusione, inclusione, libertà, speranza, nuovi orizzonti, che balenò ancora nel discorso di Barack Obama al suo insediamento alla Casa Bianca, quando con un presidente afroamericano si coronò un «sogno comune nato da due continenti». Lincoln aveva lavorato, agito, combattuto, ed era morto per rendere possibile quel sogno. Whitman, gigantesco poeta, poté permettersi di andare oltre, di mostrare che una vera democrazia, da fondare e rifondare continuamente, implica la potenza dispiegata della natura, la fraternità di un abbraccio tra compagni, l’entusiasmo del lavoro, il continuo movimento, la passione erotica. Ma fu Lincoln a dare voce al principio di una «nuova nazione», concepita nella libertà, rinata nella libertà, e alla speranza profetica che «l’idea di un governo del popolo, dal popolo, per il popolo non abbia a perire dalla terra». Lincoln fu un eroe sacrificale. Aveva appena vinto una guerra fratricida come quella di Secessione, stava nel palco di un teatro a Washington ad assistere a una commedia, quando fu colpito alla nuca da un sudista, da uno sconfitto, che volle dare al suo gesto il senso del tirannicidio. Ma ormai Lincoln era per il mondo intero il Grande Emancipatore, colui che con il Proclama di Emancipazione e l’introduzione del XIII Emendamento aveva debellato lo schiavismo e messo fine, come scrisse Whitman, al «più sporco crimine che la storia abbia conosciuto in qualunque terra o età». Victor Hugo, in quel momento lo scrittore più influente d’Europa, i cui Miserabili uscirono subito anche al di là dell’Atlantico, inviò diversi messaggi di ammirazione a Lincoln, e ne ricevette in risposta un ritratto autografato. Whitman sentì sicuramente risuonare in sé i temi e i toni dei discorsi di Lincoln. Ma fu soprattutto la fine tragica del suo presidente che lo sconvolse e agì sulla sua vena poetica. A caldo, mentre il treno del lunghissimo corteo funebre portava la salma di Lincoln da Washington a Springfield, nell’Illinois, Whitman cominciò a maturare i versi di Quando i lillà fiorirono l’ultima volta davanti alla porta del cortile , in cui il tragico fatto di sangue è risolto in una malinconica elegia sul senso universale della morte e della rinascita, e i versi inneggianti e tambureggianti di O Capitano! Mio Capitano! destinati a diventare popolarissimi. Così Lincoln, ormai polvere che «fu una volta un uomo», trovò il poeta che lo consegnò all’eternità del mito, a un sogno sempre rinnovato di libertà, di uguaglianza e di amore della vita.


Lincoln in poche grandi parole
di Salvatore Carrubba Il Sole Domenica 12.4.15

A 150 anni dall’assassinio si celebra il presidente antischiavista. Una mostra mette in risalto le virtù dell’oratore: discorsi brevissimi che hanno cambiato l’America
«Una casa divisa contro se stessa non può reggersi in piedi»: su questa frase di Abramo Lincoln, ispirata al Vangelo (Marco 3,25) si reggono i nuovi Stati Uniti, quelli nati dalla terribile guerra di secessione e riunificati sotto un’identità condivisa dallo statista. Il quale adesso viene commemorato dagli Stati Uniti in occasione del centocinquantenario della morte, il 15 aprile 1865, pochi giorni dopo l’”inaugurazione” della seconda presidenza.
Tra le tante iniziative in corso (a Washington una mostra è stata organizzata al Ford’s Theater, il luogo del fatale attentato), particolarmente istruttiva è l’esposizione aperta fino al 7 giugno a New York, alla Morgan Library & Museum, intitolata «Lincoln Speaks – Words that Trasformed a Nation» e curata da Richard Carwardine, Declan Kiely e Sandra M. Trenholm. Le parole di Lincoln, quelle lette e quelle pronunciate, sono la migliore chiave per comprendere la sua personalità: le letture accurate della Bibbia di re Giacomo e di Shakespeare, e poi di altri autori (tra i quali il coetaneo Edgar Allan Poe), gli avevano dato il gusto di un’eloquenza mai retorica e magniloquente ma chiara, incisiva e non aliena da un tocco di spirito.
Lincoln amava il ritmo delle parole e la poesia, e aveva composto egli stesso dei versi, come quelli scritti nel 1846, quando già sedeva alla Camera dei Rappresentanti, nei quali prende in giro la sua stessa professione, quella d’avvocato. La mostra spiega come la carriera politica gli fosse stata aperta grazie anche alla sagacia con cui colse il nuovo corso bipartitico della politica americana, che motivava i candidati a cercare l’appoggio popolare con un rapporto diretto, cementato anche dalla forza della parola; e qui il futuro presidente si dimostrò imbattibile, grazie alla propria eloquenza, rivolta espressamente a conquistare la gente umile. Un osservatore diede atto che la «serietà delle convinzioni, la ricchezza di immagini, il potere di argomentazione» di Lincoln non avevano paragoni tra i suoi avversari. La testimonianza forse più toccante di questa prima fase dell’attività politica di Lincoln è un appunto manoscritto, risalente al 1858, nel quale si trova il primo accenno all’argomento della «casa divisa», che Lincoln elabora affermando di non credere che le istituzioni del tempo possano sopravvivere «indefinitamente, metà schiave e metà libere». Non sarà un accenno casuale, come dimostrano le note di un altro discorso elettorale, nel quale rimprovera all’avversario democratico di trascurare la dimensione etica del dibattito pubblico e, segnatamente, della questione della schiavitù.
Dopo essere stato eletto presidente (ed è emozionante leggere qui la proclamazione dell’emancipazione firmata da Lincoln il 1° gennaio 1863), ed essersi trovato nel vortice della guerra, il presidente parlerà in pubblico almeno un centinaio di volte, spesso improvvisando. Le uniche due eccezioni rappresenteranno i capolavori della sua eloquenza: il «Dedication Address» di Gettysburg e il secondo discorso inaugurale, brevi ed efficaci quanto pochi altri. Il primo (lungo un quarto dell’articolo che state leggendo) ha fatto la storia degli Stati Uniti: in occasione dell’inaugurazione del cimitero dedicato alle vittime della battaglia che aveva fatto 50mila vittime, Lincoln riuscì, in tre minuti e 275 parole, a sintetizzare il senso tragico e nobile della guerra civile, inserendola nel processo universale di emancipazione verso la libertà, l’autogoverno e l’eguaglianza. Nel secondo, di poco più lungo, il Presidente lascia in eredità un Paese riunificato contro le velleità provenienti dal proprio stesso partito di infierire contro gli sconfitti.
Ma la questione razziale avrebbe tormentato a lungo gli Stati Uniti; ce lo ha ricordato di recente il film Selma, di Ava DuVernay, sull’epica marcia fino alla capitale dell’Alabama, Montgomery, che si svolse tra il 21 e il 25 marzo 1965, si concluse con uno storico discorso di Martin Luther King e rappresentò una tappa decisiva nel processo di emancipazione degli americani di colore (poche settimane dopo il presidente Lyndon Johnson avrebbe promulgato il Voting Rights Act, per proteggere i loro diritti elettorali). Un’altra mostra newyorkese, «Freedom Journey», in corso fino al 25 ottobre alla New York Historical Society, presenta le foto scattate in quella giornata storica dal giovane reporter di un giornalino studentesco, Stephen Somerstein (che poi sarebbe diventato fisico), finora praticamente mai esposte. Somerstein era riuscito a intrufolarsi tra i vari protagonisti, a partire da King, accanto al quale troviamo una giovanissima Joan Baez e la leggendaria attivista Rose Parks. Un movimento assai meno speranzoso è quello dipinto negli anni 40 da Jacob Lawrence, forse il maggiore pittore afro-americano, che rappresentò in 60 pannelli la biblica migrazione (avviatasi cent’anni fa) delle popolazioni di colore dal Sud rurale al Nord industrializzato degli Usa: la presenta la mostra («One-Way Ticket-Jacob’s Lawrence Migration Series and Other Visions of the Great Movemente North», fino al 7 settembre) dell’intera raccolta, normalmente divisa tra Phillips Collection e Moma, e organizzata da quest’ultimo. Il ciclo è certamente una delle opere più alte e toccanti sulla condizione dei neri: non a caso, ne è stato ritoccato anche il titolo, che originariamente suonava brutalmente «The Migration of the Negro». Il cerchio si chiude ancora alla New York Historical Society dove ritroviamo Lincoln (che accoglie all’ingresso) osservare il percorso della mostra su Selma; lo fa da protagonista, nella stessa sede, di un altro appuntamento, «Lincoln and the Jews» (fino al 7 giugno), che esplora l’impegno per liberare il Paese dalla non meno drammatica forma di discriminazione verso gli ebrei: nei loro confronti, Lincoln mostrò sempre il massimo rispetto, rafforzato anche dalle profonde radici religiose e dalle letture bibliche che gli avevano fatto coltivare il sogno che non poté mai realizzare, quello di visitare Gerusalemme.

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