martedì 28 aprile 2015

Raphael Lemkin e il concetto di genocidio ieri e oggi


Lemkin, il cacciatore di genocidi 
Il giurista lituano che inventò il reato di sterm inio era ritenuto un fanatico Ma, grazie alla sua tenacia, il «dolore del m ondo» ebbe una cornice legale 
26 apr 2015  Libero Di IGNACIO MARTÍNEZ DE PISÓN

Dal genocidio armeno è passato un secolo esatto. Gli armeni che allora vivevano nell’Impero ottomano erano un milione e ottocentomila, si calcola che ne morirono un milione e duecentomila. Le fotografie e i racconti che ci sono arrivati sono raccapriccianti.
Seguendo un piano prestabilito, nell’aprile del 1915 la comunità armena fu decapitata con l’arresto a Istanbul dei 650 politici e intellettuali che ne costituivano l'élite. Un mese dopo fu emesso il decreto generale di deportazione. Gli uomini venivano giustiziati nei dintorni dei loro villaggi e città. Le donne, i bambini e gli anziani erano obbligati a marciare verso lontani campi di concentramento in convogli che durante il tragitto venivano brutalmente e sistematicamente attaccati dai banditi. Quasi senza viveri, quelli che sopravvissero agli assalti e all’inazione furono più tardi trasferiti nei deserti della Mesopotamia, dove proseguì l’implacabile lavoro di sterminio. Talat Pascià, ministro dell’Interno e tra i principali responsabili della mattanza, espresse con una chiarezza da brividi i motivi per cui bisognava eseguire i piani fino alla fine: «Se non lo facciamo, dovremo temere la loro vendetta». Non li uccisero tutti, ma quasi: in pochissimi mesi, e in nome di un presunto ideale di omogeneizzazione della società turca, si liquidarono niente meno che i due terzi della popolazione armena. 
Oggi il concetto di genocidio ci è familiare, ma è bene ricordare che nel momento in cui si produsse questa barbarie il vocabolo nemmeno esisteva. Di fatto, non fu coniato fino a quasi trent’anni dopo, precisamente fino al 1943, quando nel cuore dell’Europa stava già prendendo corpo un altro genocidio, questo sì molto conosciuto. L’inventore del termine fu Raphael Lemkin, un giurista ebreo di origine lituano-polacca che dal suo esilio nordamericano lottava per liberare l'umanità da quella maledizione secolare. Raphael Lemkin era riuscito a fuggire da Varsavia dopo l'invasione tedesca, ma non aveva potuto portare con sé i genitori, che si rifiutarono di accompagnarlo. E non li avrebbe mai più rivisti: sarebbero morti ad Auschwitz. A partire da allora il dolore del mondo sarebbe stato per sempre il suo stesso dolore, e da lì Lemkin avrebbe preso la forza per perseverare nella missione di creare una cornice legale che permettesse di punire i responsabili di qualsiasi forma di sterminio. Fu Lemkin che propose l’idea di una giurisdizione universale valida per i crimini contro l'umanità. Bisognava impedire che i colpevoli di quello che chiamò genocidio si appellassero alla territorialità della giustizia, e che venissero giudicati solamente nei Paesi in cui avevano commesso i delitti, il che in pratica equivaleva a esimerli da qualsiasi responsabilità. Ogni attacco a una nazione, etnia o religione attraverso i suoi individui doveva essere considerato un attentato contro l’umanità, e per tanto nessuno poteva negare all'umanità il diritto di giudicarlo. Dopo il suo arrivo negli Stati Uniti nel 1941, Lemkin dovette affrontare reticenze di ogni tipo. Le sue denunce delle atrocità naziste erano accolte con scetticismo. Alcuni le consideravano semplici bufale, altri lo accusavano di gonfiare le cifre: lo facevano passare per un illuminato o un fanatico. La fine della Seconda guerra mondiale dimostrò che non solo non aveva esagerato, ma s’era tenuto stretto. Poste le basi teoriche, rimaneva da convincere le principali potenze a trovare un accordo, e dal 1946 dedicò il suo tempo e le sue energie a cercare che l'Onu approvasse un patto sul genocidio. Alcuni Paesi, come gli Stati Uniti, non lo avrebbero ratificato fino alla fine degli anni Ottanta.  
Lo sguardo di Lemkin era rivolto tanto al passato quanto al futuro. Se la giurisdizione universale non poteva aiutare a condannare gli assassini del passato, doveva almeno servire da avvertimento per quelli del futuro, nessuno dei quali avrebbe goduto di immunità. Valeva la pena di sognare un mondo migliore, dal quale i crimini contro l’umanità sarebbero stati esclusi definitivamente. Che il sogno di Lemkin sia lontano dal realizzarsi è sotto gli occhi di tutti. Basti ricordare alcuni genocidi recenti. Cifre che parlano da sole: nel genocidio del Ruanda sono sopravvissuti solo 250mila del milione e 250mila tutsi totali. Un quinto. Sembra che ciò che indusse Lemkin a intraprendere la sua battaglia fu una frase pronunciata da Hitler nell’agosto del 1939, quando si accingeva a invadere la Polonia: «Chi si ricorda, oggi, l’annichilimento degli armeni?». L’oblio, per Hitler, era garanzia di impunità. Proprio contro impunità e oblio Lemkin lottò fino al termine della sua vita. Fosse anche solo come omaggio per la gente come lui, dobbiamo ricordare, un secolo dopo, quel genocidio armeno che Hitler dette così rapidamente per dimenticato.

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