lunedì 11 maggio 2015

Amalia Signorelli racconta Ernesto de Martino.

/files/libri/154/large_154.pngAmalia Signorelli: Ernesto de Martino. Teoria antropologica e metodologia della ricerca, L’Asino d’oro

Risvolto
Ernesto de Martino è stato il maggior antropologo italiano del XX secolo. A cinquant’anni dalla sua morte, il suo lascito intellettuale e scientifico attende di essere ulteriormente esplorato in tutta la sua ricchezza. È questa l’ipotesi fondante del presente lavoro. Partendo da quell’umanesimo etnologico che De Martino indica come possibile meta di una rinnovata antropologia, l’autrice evidenzia i problemi specificamente antropologici del demartiniano ethos del trascendimento (naturalismo e storicismo; la presenza di coloro che, come i contadini lucani, stanno nella storia ‘senza sapere di starci’; l’etnocentrismo critico); discute alcuni postulati fondamentali della teoria antropologica demartiniana (l’origine e destinazione integralmente umana dei beni culturali e il significato umano degli accadimenti); riflette sulla crisi della presenza, forse il più complesso e il più significativo dei costrutti concettuali demartiniani; esamina, infine, la metodologia della ricerca sul campo di De Martino, costruita sulle due coppie concettuali di problema e documento e di équipe e spedizione.
In questi tempi rinunciatari di cinismo, di paura, di ripiegamento narcisistico su un io cui si chiede di sostituire il mondo, l’‘eroica’ impresa di De Martino di coniugare impegno scientifico, scelta morale e militanza politica ha tutto il potenziale dell’attualità alternativa.

v. anche:
- Giovanni Pizza, Il tarantismo oggi, Roma, Carocci, pagg. 270, € 26,00.
- Concetta Pennuto (a cura di),Della tarantola , Roma, Carocci, € 19,00.
- Riccardo Di Donato e Mario Gandini (a cura di), Le intrecciate vie. Carteggi di Ernesto de Martino con Vittorio Macchioro e Raffaele Pettazzoni, Pisa, ETS, pagg. 208, € 20,00.
- Roberto Beneduce e Simona Taliani (a cura di)Ernesto de Martino: un’etnopsichiatria della crisi e del riscatto , aut aut, 366

Amalia Signorelli per L’Asino d’oro edizioni Il tarantismo ai margini della magia

Antropologia Esplorazione del Sud, riti e miti: la lezione di Ernesto de Martino a cinquant’anni dalla morte Autore «indisciplinato», ha fornito contributi decisivi sulla metodologia della ricerca: dai contadini lucani alla morte, al pianto rituale
di Adriano Favole Corriere La Lettura 10.5.15
Nel settembre del 1959 Amalia Signorelli consegnò a Ernesto de Martino la sua Appendice a La terra del rimorso . La giovanissima antropologa aveva partecipato a una delle più note missioni etnografiche italiane, quella che avrebbe documentato, attraverso interviste, immagini e registrazioni sonore, il fenomeno del tarantismo . Vittime di crisi esistenziali dovute alla precarietà delle condizioni di vita, i contadini pugliesi cercavano un riscatto attraverso un lungo e complesso rito: «posseduti» dalla taranta (un ragno velenoso il cui morso era ritenuto causa della crisi psicosomatica), essi danzavano accompagnati da gruppi di suonatori. La musica e la danza svolgevano un ruolo catartico, «liberandoli» progressivamente dalle «bestie» che erano in loro. Alla taranta rituale si è poi richiamato negli anni Novanta Eugenio Bennato per fondare il movimento Taranta Power, che ha recuperato in chiave creativa, con grande successo, i ritmi della tradizione.

Dopo aver consegnato il suo contributo a de Martino, Signorelli lo informò che presto si sarebbe sposata andando a vivere a Cosenza. Il severo professore si limitò a dirle freddamente: «Lei è matta!». «Rimasi senza parole, furibonda; e feci ricorso a tutto il mio ideologico moralismo, per convincermi che anche lui era uno di quegli intellettuali che volevano riscattare il Sud d’Italia, però se ne stavano comodamente a Roma».
L’episodio apre il libro di Amalia Signorelli Ernesto de Martino (L’Asino d’oro) che esce a cinquant’anni dalla sua morte. L’incipit in realtà è un trompe-l’oeil : il libro non è né una collezione di aneddoti né una presa di distanza dall’autore de Il mondo magico . Dopo aver partecipato alla spedizione nel Salento (1958-59), Signorelli prenderà altre strade di vita e accademiche e tuttavia le lezioni di de Martino segneranno profondamente l’ ethos della sua ricerca.
L’obiettivo del volume è fornire una presentazione a tutto tondo del pensiero demartiniano. Non attraverso una rassegna sintetica dei suoi contributi allo studio dei contadini lucani, della morte e del pianto rituale, ma illustrandone il metodo e un’architettura teorica troppo spesso utilizzata in maniera frammentaria e settoriale.
Autore originale e «indisciplinato», incline a percorrere territori di confine, de Martino è stato oggetto di un rinnovato interesse a partire dagli anni Ottanta. È del 1995 il convegno Ernesto de Martino nella cultura europea e sono ancora più recenti le traduzioni dei suoi lavori in francese, inglese e spagnolo.
Il paradosso di de Martino, scrive Signorelli, è che è uno dei pochi antropologi ad aver raggiunto una fama internazionale e un buon grado di popolarità, eppure non è molto studiato, letto e apprezzato da una parte consistente dell’antropologia italiana. Se è vero che non sono mancate al pensiero di de Martino accuse di essere rimasto imbrigliato nelle categorie della «ragione occidentale», limitandosi a mostrare per contrasto la marginalità forzata del mondo magico e atavico dei contadini che «sono nella storia senza sapere di starci», l’affermazione di Signorelli appare eccessiva. Nei lavori degli antropologi italiani la presenza di de Martino è diffusa, anche se — qui concordo con l’autrice — rari sono i libri che tentano una sintesi ampia del suo pensiero.


Secondo Signorelli, l’etnocentrismo critico di de Martino e lo «scandalo dell’incontro etnografico» risultano in assonanza con la sensibilità antropologica contemporanea. Caduta l’idea naturalistica di un’antropologia «scientifica» e classificatoria, l’idea demartiniana secondo cui il «campo» consiste nel mettere in gioco le proprie categorie culturali, cogliendone la parzialità, rimane una lezione fondamentale. Sul piano teorico, nozioni come «angoscia territoriale», «appaesamento», «crisi della presenza» appaiono utili ad affrontare le migrazioni del nostro tempo. In un clima post postmoderno, caratterizzato da un rinnovato bisogno se non di certezze, almeno di conforti teorici, l’antropologia demartiniana, orientata da valori e «impegnata» sul fronte politico, sembrerebbe una eredità ancora in gran parte da valorizzare. 



Antropologo del rimorso
A 50 anni dalla morte si ricorda il maestro dell’«etnocentrismo critico», famoso per i suoi studi sul «tarantismo»

Alessandro Pagnini domenicale 13 9 2015

Per le celebrazioni del cinquantenario della morte di Ernesto de Martino, si prevedono in tutta Italia eventi e convegni, dal prossimo novembre al maggio del 2016. Andrea Carlino, storico della medicina a Ginevra, coordina un comitato scientifico d’eccellenza che coinvolge importanti associazioni, istituzioni, università e anche amministrazioni locali (dall’Associazione Internazionale Ernesto de Martino, alla Fondazione Istituto Gramsci, all’Istituto dell’Enciclopedia Treccani), che saranno garanti della qualità e della rilevanza internazionale delle iniziative dedicate al grande antropologo italiano. La Fondazione Premio Napoli, il Comune di Galatina, le Università di Perugia e della Basilicata ospiteranno manifestazioni e seminari che verranno conclusi da un convegno internazionale di studi presso l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana a Roma. Intanto, si registra la pubblicazione di alcuni lavori di rilievo: uno monografico, dell’allieva più vicina a de Martino, Amalia Signorelli, sulla teoria e il metodo di ricerca del maestro; altri due (che vanno ad aggiungersi al Focus Storia e memoria del tarantismo, curato da Alessandro Arcangeli e Andrea Carlino per «Medicina & storia», XIII, 3 n.s., 2013) sulla storia, l’antropologia e la “politica” del fenomeno del tarantismo; un altro ancora che raccoglie con rigore filologico e dovizia di informazioni storiche due epistolari di de Martino con Macchioro e Pettazzoni, epistolario di grande interesse per la storia delle religioni e la storia della cultura del Novecento. Si segnala, infine, il recente numero unico della rivista «aut aut» che raccoglie autorevoli voci su vari aspetti della vita e dell’opera di de Martino. 
Di grande interesse storico è il testo Della tarantola, del medico romano della seconda metà del ’600 Giorgio Baglivi, allievo di Marcello Malpighi, qui edito con il testo latino a fronte a cura della storica della medicina Concetta Pennuto; testo che, come lo stesso de Martino ebbe a riconoscere, segnò la consegna del fenomeno del tarantismo da una curiosità quasi esclusivamente etnografica, tipica della cultura rinascimentale, ad un approccio più marcatamente medico-scientifico, ispirato al metodo empirico baconiano, ma non senza una problematizzazione dei confini tra descrizione naturalistica, teoria medica e “osservazione partecipante”. Sorprende come i termini dell’approccio metodologico di Baglivi siano i termini che ritroviamo pressoché intatti nelle discussioni epistemologiche sulle “scienze umane” quando de Martino scrive, nel ’41, Naturalismo e storicismo nell’etnologia. Il suo La terra del rimorso, poi, pubblicato nel ’61, costituirà un punto di non ritorno nell’ermeneutica e nell’analisi del fenomeno del tarantismo, non più mero effetto causale del morso di un ragno, ma una vera e propria “religione del rimorso”, e infine un campo di azioni, di rappresentazioni e di pratiche veicolato da “retoriche” di ogni genere, psichiatriche, poetiche, politiche; e sarà anche, come gli stessi Signorelli e Pizza rilevano, il testo che più di ogni altro del genere diventerà esemplare di un modo di concepire l’antropologia, senza costrizioni disciplinari, in una spregiudicata apertura verso il sapere scientifico, filosofico e storico in generale, nel disincanto di un mondo di “oggetti” la cui stessa esistenza e rilevanza dipende dallo sguardo e dall’interesse specifico, senza alcuna pretesa di esaurirne il significato. Amalia Signorelli, che scrive anche pagine toccanti di autobiografia intellettuale, ci parla della lezione di de Martino come di una lezione metodologica e morale insieme. De Martino fu maestro di “etnocentrismo critico”, contro il relativismo e il nichilismo imperante in tanta antropologia e filosofia del Novecento, e comunicò una sorta di “ethos del trascendimento” che, nel prescrivere un oltrepassamento dei dati grezzi e una rigorosa consapevolezza delle premesse categoriali nella ricerca, diventa un tentativo esemplare di fondare l’epistemologia sui valori. E mentre la ricostruzione di Signorelli è prevalentemente “interna” all’opera e all’insegnamento di de Martino, quella di Pizza è più interessata a rivedere i rapporti intellettuali del grande antropologo (con Croce, Gramsci, fino a Jervis) e a sviscerare il peso che le “politiche della cultura” hanno avuto tanto nella ricezione dell’opera di de Martino quanto nelle vicende stesse del suo lavoro sul campo (pienamente condivisibili le pagine che Pizza dedica alle “tradizioni” e alle “identità” come “invenzioni”; pagine che fanno riflettere anche ben oltre l’orizzonte dell’”antropologia pubblica” che Pizza prospetta). 
Nonostante de Martino sia riconosciuto come il padre putativo dell’etnomusicologia e dell’antropologia visuale italiana, le sue fortune sono venute più dalla considerazione di storici e filosofi che non di antropologi. Paolo Rossi che, nei suoi anni di straordinariato a Cagliari, era stato suo collega, seppe cogliere un aspetto fondamentale dell’insegnamento di de Martino, il quale mai concesse alla voga antioccidentalistica e antimoderna di tanta filosofia e di tanta politica. Rossi ne apprezzò profondamente l’incrollabile razionalismo, “scandaloso” negli anni sessanta e settanta, come continua a esserlo oggi: «Il mondo magico che de Martino aveva studiato e nel quale era vissuto non era quello degli abitanti delle isole del Pacifico, era quello dei contadini e dei braccianti dell’Italia meridionale, quello legato al tarantismo. A differenza dei rivoluzionari da salotto che vivono facendo finta di soffrire e incitavano (tuttora incitano) a uscire dal turpe Occidente, sapeva che il problema era di portare finalmente quelle donne e quegli uomini davvero dentro l’Occidente e sapeva con chiarezza, a differenza di molti suoi compagni di strada, che anche questa scelta, l’unica che poteva considerarsi giusta, avrebbe avuto un suo prezzo” (Paolo Rossi, Il tempo dei maghi, Raffaello Cortina). © RIPRODUZIONE RISERVATA

L’antropologa che studiava le forme della politica Ritratti. Addio a Amalia Signorelli. L'allieva di De Martino che analizzò la cultura di massa e le migrazioni è morta a Roma all'età di 83 anni Fabio Dei Manifesto 26.10.2017, 0:03
Negli ultimi anni, molti hanno conosciuto Amalia Signorelli soprattutto per le sue frequenti apparizioni televisive, come commentatrice in popolari talk show politici (Ballarò, Otto e mezzo e altri).
Si era costruita un’immagine efficace di opinionista colta e al di sopra delle parti, ma sempre pronta ad esercitare una critica razionale e inflessibile verso l’arroganza del potere. Aveva difeso la dignità delle donne contro Berlusconi, quella dei lavoratori contro Renzi, ma senza conceder nulla a quel tono di superiorità morale che rende spesso così indigeribili al grande pubblico gli intellettuali di sinistra. Lei si divertiva molto in queste esperienze di rapporto con il mondo dei media, tanto diverso da quello della ricerca e dell’insegnamento universitario.
RIUSCIVA, del resto, a portare in televisione senza banalizzarlo lo spirito critico che contraddistingue la sua disciplina di studi, l’antropologia culturale: la capacità di guardare cose che ci sono fin troppo familiari e scontate da lontano, e sotto una nuova luce. Proprio ciò che serve, spesso, per dare significato a un dibattito politico angusto e soffocante.
Nata nel 1934, Amalia Signorelli si era formata a Roma negli anni ’50 con Ernesto De Martino, le cui lezioni descrive come «una sorta di epifania che svelava possibilità allora ignote della vita della mente», e dalle quali deriva un’inclinazione, quasi una vocazione, che non è mai venuta meno nell’arco di un’esistenza. È la vocazione per l’antropologia e per la ricerca etnografica, che inizia con la tesi di laurea dedicata al paese lucano di San Cataldo, e si perfeziona con la partecipazione nel 1959 a una mitica spedizione etnografica: quella guidata dallo stesso De Martino nel Salento per documentare il complesso mitico-rituale del tarantismo, da cui scaturirà il classico per eccellenza dell’antropologia italiana, La terra del rimorso.
PER QUANTO FOLGORATA da De Martino, Signorelli non farà però parte negli anni successivi del suo entourage più stretto: un rapporto forte con questo autore riemerge semmai nell’ultima parte della sua carriera, quando cura la pubblicazione dei materiali della spedizione salentina (Etnografia del tarantismo pugliese, edizioni Argo, 2011) e dedica un intero volume alla ricostruzione del pensiero demartiniano (Ernesto De Martino: Teoria critica e metodologia della ricerca, L’Asino d’oro, 2015).
MA NEGLI ANNI ’60 le strade intraprese da Amalia Signorelli vanno in direzioni diverse: sia biograficamente (si sposa, va a vivere a Cosenza e ha tre figli, abbandonando quindi momentaneamente la frequentazione degli ambienti accademici), sia scientificamente. Si accosta, infatti, a interessi e tematiche per certi versi opposte a quelle di De Martino: non le culture popolari tradizionali e magiche del Sud, ma i processi di trasformazione sociale e le forme della politica e della cultura di massa nell’Italia contemporanea. Già nel 1958 era stata – giovanissima – tra i firmatari di un Memorandum (con Tentori e Seppilli, fra gli altri) che rivendicava il ruolo centrale dell’antropologia culturale per la comprensione del presente nella sua dimensione globale: invitando a occuparsi un po’ meno del folklore contadino e un po’ di più della decolonizzazione e dei conflitti sociali. Negli anni ’60 insegna fra l’altro a Roma, alla scuola per la formazione degli assistenti sociali (Cepas). Torna poi nell’università dall’inizio degli anni ’70: insegna prima ad Urbino, a Roma La Sapienza ma soprattutto – fino al pensionamento – alla Federico II di Napoli.
È IN QUESTO PERIODO che si colloca la sua produzione scientifica più matura. I temi di ricerca che segue più sistematicamente sono l’antropologia della città (pubblica fra l’altro Antropologia urbana, Guerini, 1996), quella delle migrazioni (Migrazioni e incontri etnografici, Sellerio, 2006), e l’analisi delle forme del potere e del clientelismo nel Mezzogiorno (Chi può e chi aspetta, Liguori, 1983).
VA ANCHE RICORDATO che Amalia Signorelli è stata la prima antropologa in Italia a occuparsi del tema della cultura di massa e dei modi in cui essa modifica la classica visione gramsciana del folklore come cultura delle classi subalterne. In fondo, la sua seconda carriera televisiva non è stata poi così casuale come lei stessa amava far credere.
Le metamorfosi mediali del potere e le trasformazioni antropologiche da esso indotte sono il filo rosso che per lei univa ricerca scientifica e divulgazione. Con la rara capacità, su entrambi i terreni, di parlare in modo chiaro e a tutti.

Nessun commento: