lunedì 4 maggio 2015

Il concetto di crisi di sovrapproduzione si reimpone anche nelle analisi mainstream


Daniel Alpert: The Age of Oversupply. Overcoming the Greatest Challenge to the Global Economy, Portfolio, 2013

Risvolto

The invisible hand of capitalism is broken. Economic and political forces are preventing markets from correcting themselves, and we're now living in an unprecedented age of oversupply.

Governments and central banks across the developed world have tried every policy tool imaginable, yet our economies remain sluggish or worse. How did we get here, and how can advanced nations compete and prosper once more?
In this bold call to arms, economic policy expert Daniel Alpert argues that a global labor glut, excess productive capacity, and a rising ocean of cheap capital have kept the economies of the first world, and notably the United States, mired in underemployment and anemic growth.
Distracted by a technology boom and a massive debt bubble in the 1990s and early 2000s, advanced nations failed to assess the ultimate impact of the torrent of labor and capital unleashed by formerly socialist economies. After the financial crisis of 2008, the United States and Europe joined an already sclerotic Japan in dire economic straits. Today, as the BRICs (Brazil, Russia, India, and China) and others poach jobs from Western Europe, the United States, and Japan, household incomes in the developed world continue to decline. 
Many policymakers believe in outdated supplyside economic remedies. They miss the connection between global oversupply and the lack of domestic investment and growth. But Alpert shows how they are intertwined: We cannot understand the housing bubble and the financial crisis without appreciating how the rise of the emerging nations distorted the economies of rich countries. And we can’t chart a path for growth in the developed world without recognizing that many of these distorting forces are still at work.
The Age of Oversupply offers a bold, fresh approach to fixing the West’s economic woes through large-scale fiscal stimulus measures, investments in infrastructure, and an aggressive private debt reduction plan. It also delivers a vigorous challenge to proponents of austerity economics.

The world today is flooded with cheap credit. It's great if you're a factory worker in Shenzhen, or buying a 40-inch TV for $268.WSJ


L’età dell’abbondanza
Oggi il mondo nuota in un mare di petrolio e materie prime ma auto e altri beni restano nei depositi in attesa di nuova domanda I capitali sono sempre in banca e scendono i salari Ecco l’ultimo dilemma dell’economia

di Maurizio Ricci Repubblica 4.5.15
POTETE chiamarla indifferentemente “L’Età dell’Abbondanza” o “Il Grande Freddo”. Sembra una contraddizione, ma, in realtà, l’uno spiega l’altra. Sulla scia della Grande Crisi del 2008, nuotiamo in un mare di petrolio, cotone, acciaio, automobili. Risparmi e capitale si ammucchiano, i lavoratori abili e disponibli sono decine di milioni. Insomma, tutti gli ingredienti di un’economia rombante sono sul tavolo, ma l’economia mondiale, invece, tossicchia e inciampa: dalla Cina agli Usa. E anche la ripresa europea appare assai pallida. Il risultato è che magazzini, depositi, casseforti scoppiano, in attesa di una domanda che non arriva. A Cushing, in Oklahoma, dove confluisce il grosso del petrolio estratto negli Stati Uniti, le cisterne, sono piene fino all’orlo: settimana dopo settimana, l’inventario delle scorte batte il record precedente e, ormai, sfiora i 500 milioni di barili. Sui mercati mondiali, del resto, ogni giorno arrivano 2 milioni di barili di greggio che faticano a trovare un compratore. Il surplus lo scontano i prezzi: dalla scorsa estate si sono dimezzati. Ma tutto il mondo delle materie prime si muove nella stessa direzione: 110 milioni di balle di cotone, nel mondo, restano nei depositi in attesa di essere venduti. Di conseguenza, il prezzo del cotone, rispetto ad un anno fa, è sceso di quasi il 30 per cento. E così per le altre derrate. Il Baltic Dry Index, che misura il traffico delle merci non liquide come il petrolio, è crollato, da ottobre, circa del 60 per cento. Per i prodotti agricoli, fermi nei silos e nei frigoriferi, il calo dei prezzi va dall’11 al 20 per cento. I metalli, dal ferro al rame, sono crollati di oltre il 18 per cento.

Eppure, di lavoratori per trasformare tutte quelle materie prime ce ne sono fin troppi. Eurolandia, con il suo tasso di disoccupazione che sfiora il 12 per cento, è la pecora nera, ma, nel mondo, una disoccupazione al 6 per cento significa che ci sono oltre 200 milioni di persone in cerca di un lavoro che non trovano. Nessuno si aspetta che diminuiscano presto: l’Onu prevede anzi che, nel 2019, saranno 212 milioni. Il problema è che anche del terzo elemento del triangolo dell’economia, quello cruciale perché mette in movimento gli altri due, materiali e lavoro, ce n’è troppo: c’è un surplus anche di capitale, fermo nei portafogli e nelle casseforti. Crédit Suisse censisce la ricchezza globale a circa 263 mila miliardi di dollari, più del doppio, rispetto ai 117 mila miliardi di appena 15 anni fa. Niente male, considerando che, nel frattempo, c’è stata la più grave crisi finanziaria da quasi un secolo. Ma il problema è che questi soldi sono incagliati, lamenta Ben Bernanke, l’ex presidente della Fed. Il mondo affoga in risparmi che ristagnano, invece di tradursi in investimenti. Nel 2000, i paesi ricchi dell’Occidente investivano nei loro confini 270 miliardi di dollari più di quanto avessero in cassa con i risparmi. Nel 2013, osserva Bernanke, i termini sono rovesciati: i paesi ricchi hanno risparmiato 157 miliardi in più di quanto abbiano investito. L’Europa è passata da un saldo negativo (più investimenti che risparmi) di 36 miliardi ad uno positivo (più risparmi che investimenti) di 356 miliardi. E anche la Cina, tradizionalmente risparmiatrice, si è fatta ancora più avara: fatti gli investimenti, le restavano in cassa solo 20 miliardi di dollari nel 2000. Adesso, il divario fra risparmi e investimenti interni è arrivato a 182 miliardi di dollari.
«Abbiamo di fronte uno scenario di bassa crescita, bassa inflazione, bassi tassi d’interesse » ha detto al Wall Street Journal Megan Greene, capo economista di John Hancock, un colosso della gestione finanziaria, e instancabile twittatrice. «E, dunque, dovremo forse impiegare tutti i prossimi dieci anni per smaltire questo ingorgo». Gli economisti avevano avvertito che, quando una crisi scoppia per un crack finanziario, che azzoppa i meccanismi del credito, la ripresa è lenta e stentata. L’ingorgo di risorse inutilizzate, fra capitale, lavoro, materie prime che preoccupa la Greene ne è la conferma ed è lo specchio del ritmo asfittico dell’economia mondiale, Il Fondo monetario internazionale prevede che il prodotto interno lordo globale continui a crescere, da qui al 2016, fra il 3,4 e il 3,8 per cento, un ritmo da lumaca, rispetto al decennio passato. Quello che preoccupa è la paralisi dei paesi emergenti, il motore dello sviluppo mondiale degli ultimi anni. Il Fmi prevede che il pil dei paesi emergenti, cresciuto del 4,6 per cento nel 2014, mantenga lo stesso ritmo di crescita — e niente più — nei prossimi due anni. Stentano il Brasile, la Russia, i paesi arabi. Il dato cruciale è il brusco rallentamento cinese. Già nel 2014, la surriscaldata macchina economica di Pechino era passata ad un tasso di sviluppo del 7,4 per cento, ma la frenata è solo cominciata: 6,8 per cento in più nel 2015, 6,3 per cento nel 2016, ben lontano dal 10 per cento degli anni scorsi. La tanto sospirata e, oggi, celebrata ripresa europea rischia di sbocciare nel vuoto e di dover trovare dentro la stessa Europa, anziché nelle esportazioni, il combustibile che la alimenti.
Finirà presto? Dobbiamo solo aspettare di smaltire l’ingorgo? O c’è qualcosa che non va con i tubi? Così la pensa Daniel Alpert, che, all’attuale sovrabbondanza ha dedicato un libro, “The Age of Oversupply”: il mondo — dice — ha attraversato, negli ultimi 30 anni, una rivoluzione epocale: la globalizzazione ha inserito nel mercato mondiale due miliardi di nuovi lavoratori, mentre il boom dell’informatica faceva esplodere la produttività. Il risultato è una caduta verticale della forza contrattuale dei lavoratori, tradotta in una diminuzione dei salari e del potere d’acquisto. Meno salari, meno consumi. E’ questa la benzina che manca all’economia mondiale. Negli Stati Uniti, a febbraio, le scorte di beni durevoli (frigoriferi, tv ecc.) sono arrivate al livello più alto degli ultimi trent’anni. E, in Cina, la mecca del mercato automobilistico, da due anni e mezzo i concessionari non avevano i piazzali così pieni di macchine da vendere: sul totale dell’economia, l’incidenza dei consumi delle famiglie cinesi, in questi anni, è diminuita.
In realtà, in questi anni il reddito globale è aumentato. Ma è un aumento zoppo. Il 10 per cento più ricco della popolazione mondiale sequestra il 30-40 per cento del reddito totale, mentre il 10 per cento più povero deve accontentarsi del 2 per cento. I ricchi, però, consumano, rispetto ai poveri, poco e i loro soldi finiscono nei risparmi incagliati di Bernanke. L’ineguaglianza, hanno scoperto recentemente sia il Fmi che l’Ocse, non paga: una società diseguale ha una economia poco efficiente. Ma è qui che, alle tendenze di fondo, si sovrappone la situazione post-crisi finanziaria. Mentre reddito e risparmi si concentrano in poche mani, la massa dei consumatori è schiacciata dai debiti. La somma dei debiti dello Stato, delle aziende e dei privati è arrivata al 181 per cento del Pil negli Usa, al 204 per cento in Europa, al 241 per cento in Cina. I venti della deflazione trovano qui il loro alimento. Gli economisti la chiamano “deflazione da debito”: tutti si preoccupano di ridurre i debiti e non consumano.
Inutile chiedere ai governi di mettersi loro a pedalare per tutti, con programmi di stimolo economico: l’ideologia dell’austerità lo impedisce. A spingere sono rimaste solo le banche centrali, come il programma appena lanciato dalla Bce. Ma, da sole, le iniezioni di denaro facile di Francoforte — Draghi lo ha detto più volte — rischiano di girare a vuoto.


“Risorse nelle mani di pochi più giustizia per battere la crisi”
di Eugenio Occorsio Repubblica 4.5.15
«L’HO letto il servizio del Wall Street Journal sull’ oversupply, l’eccesso di riserve di materie prime e perfino di denaro che ci sarebbe in giro per il mondo. Non sono d’accordo: andatelo a dire alle popolazioni del Togo o del Congo dove si muore di fame e di malattie che ci sono troppe risorse in giro». Non è la prima volta che William Easterly, economista formatosi al Mit, docente alla New York University, è in disaccordo con il mainstream del pensiero economico. Proverbiali i suoi scontri verbali con Jeffrey Sachs, guru degli aiuti ai Paesi in via di sviluppo, che lui accusa di favorire la dissipazione delle ricchezze. «I soldi vanno a dittatori spregiudicati o a eserciti aggressivi e non alla gente». Di Easterly, Laterza ha appena pubblicato “La tirannia degli esperti” sull’approccio tecnocratico che non si cura del riscatto dalla povertà. E l’ha invitato al Festival dell’Economia di Trento, che Laterza organizza e di cui è coordinatore Tito Boeri, dove Easterly terrà una conferenza il 1° giugno.
Per difendere i colleghi del Wsj, una lettura non potrebbe essere: è irritante che queste risorse non vengano valorizzate per lo sviluppo quando è così scarsa la crescita?
«Intanto molti prezzi delle commodities sono bassi per un gioco di speculazioni che non ha nulla a che vedere con la domanda ma solo con le ipervalutazioni del passato. E poi c’è un problema sottostante: le diseguaglianze nei Paesi industrializzati e non, crescono in modo vergognoso. In America un capo azienda guadagna 300 volte più del dipendente. Quarant’anni fa erano 30 volte. Inoltre crescenti fasce di popolazione vengono escluse dai processi decisionali. Il Wsj scrive della bassa crescita: ma la ripresa per partire deve puntare alle re-inclusione delle moltitudini e al ripristino dell’ascensore sociale. Altrimenti avremo sempre più casi Baltimora e Ferguson».
Insomma è vero che in teoria i beni da investire, denaro compreso, ci sarebbero ma non si riesce a mobilitarli?
«Quando si parla di flussi finanziari, è sempre una questione di organizzazione. Noi al Development research institute della Nyu studiamo gli aiuti allo sviluppo. Sono spesi malissimo. Il governo etiope, per dirne una, incassò gli aiuti e con essi finanziò nuovi villaggi dove trapiantò certe popolazioni sostenendo che così erano vicine alle strade per andare a scuola e lavorare. Poi però i terreni pregiati lasciati liberi li vendette agli speculatori. I Paesi ricchi è vero che come dice Bernanke trattengono il denaro: però lo elargiscono per opportunità politica. Il problema parte da lontano: nel 1949 il presidente Truman annunciò la politica degli aiuti. Negli anni di Yalta e di spartizione del pianeta, gli americani disegnarono la mappa dei destinatari. Ci inserirono la Colombia: perché, se non per una logica di potere e di sfere d’influenza, definire “terzo mondo” un Paese che ha un reddito pro capite simile a Portogallo o Grecia?» A proposito di Grecia, la “tirannia degli esperti” di cui parla sembra uno slogan di Varoufakis che conduce una battaglia contro l’Fmi e la Bce. Per ora ne ha ricavato solo una political character assassination personale. E’ solo una coincidenza?
«È un’applicazione del concetto che lo sviluppo economico è correlato alla libertà politica. Comporta qualcosa di più della semplice efficienza tecnica: l’ascolto delle istanze dal basso. È il tentativo di Syriza per il quale provo un’istintiva solidarietà. Per fortuna l’atteggiamento della cancelliera Merkel, il riferimento politico di tutti gli “esperti”, sta cambiando». 

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