mercoledì 13 maggio 2015

Le lotte di classe in India e la lotta di classe dell'India


Arundhati Roy> I fantasmi del capitale, Guanda

Risvolto
Una veemente denuncia degli abusi e degli orrori perpetrati dalla ristretta élite politica ed economica che governa l’India capitalista e che detiene il monopolio della ricchezza. Un pamphlet di denuncia dal tono polemico e brillante, pungente, ironico, talvolta sarcastico, arricchito da casi di cronaca e da aneddoti esemplificativi. Non si può restare indifferenti quando Roy parla di una vera guerra in atto per il possesso della terra nella giungla dell’India centrale sotto assedio, con 350.000 persone obbligate ad abbandonare i loro villaggi e migliaia di suicidi, o di decine di migliaia di torturati e 70.000 morti in Kashmir. Un libro interessante per chi ama sentire voci alternative, una denuncia polemica del lato oscuro della democrazia più grande del mondo, supportata da un pensiero brillante e originale, limpido e critico.      


Intoccabili in un paese emergente
Pamphlet. «I fantasmi del capitale» di Arundhati Roy. Dai conflitti nel Kashmir alla guerriglia maoista, un appassionato affresco sulla più grande democrazia del mondo 

Benedetto Vecchi, il Manifesto 12.5.2015 

Un enorme, altis­simo e sfa­vil­lante grat­ta­cielo a Mum­bai con una parte tra­sfor­mata in un giar­dino innaf­fiato con zam­pilli che dal basso sono indi­riz­zati verso l’alto, quasi a scon­fig­gere la forza di gra­vità. È l’immagine di una ric­chezza oscena ali­men­tata dalle risorse natu­rali espro­priate da un gruppo ristretto di imprese e dal lavoro di un miliardo di uomini e donne. Ini­zia così il nuovo libro della scrit­trice Arun­d­hati Roy, da poco nelle libre­rie per Guanda. Il titolo — I fan­ta­smi del capi­tale (pp. 180, euro 14) -, è la stessa autrice a spie­garlo: fa rife­ri­mento espli­cito, cam­biando il com­ple­mento di spe­ci­fi­ca­zione, a una frase di Karl Marx. Ma in que­sto caso non c’è lo spet­tro del comu­ni­smo che si aggira per l’India, bensì quello di un capi­tale indif­fe­rente alle sorti delle società dove opera. Per accu­mu­lare pro­fitti è dispo­sto a cac­ciare gli abi­tanti di cen­ti­naia di vil­laggi, di mili­ta­riz­zare intere regioni del paese, di limi­tare la libertà di espres­sione, di ali­men­tare il raz­zi­smo e di finan­ziare i par­titi fon­da­men­ta­li­sti hindi ora al potere, spe­cia­liz­zati in pogrom di musul­mani. Senza dimen­ti­care che in nome della demo­cra­zia, il Kash­mir è ridotto a una pri­gione a cielo aperto dove agi­scono squa­droni della morte, men­tre la fron­tiera con il Paki­stan è una delle più mili­ta­riz­zate del mondo con il rischio di una guerra che può sfug­gire al con­trollo degli appren­di­sti stre­goni di Dehli e Isla­ma­bad, visto che i due paesi hanno entrambi un arse­nale militare. 

Gocce di ricchezza 
Non è la prima volta che Arun­d­hati Roy ana­lizza da vicino la società indiana. Scrit­trice di suc­cesso per un for­tu­nato romanzo — Il dio delle pic­cole cose che, ad anni di distanza, man­tiene la sua potenza nar­ra­tiva — ha usato la sua mae­stria nella scrit­tura per nar­rare i con­flitti sociali, le pra­ti­che di resi­stenza degli abi­tanti nella più grande demo­cra­zia del mondo. È diven­tata quella figura di intel­let­tuale dis­si­dente a suo tempo magi­stral­mente descritta da Edward Said per sot­to­li­nearne la vici­nanza, ma non l’organicità, ai movi­menti sociali. 
Il libro si apre dun­que con l’immagine di un enorme grat­ta­cielo, sim­bolo del capi­ta­li­smo hindi. Iro­ni­ca­mente, Arun­d­hati Roy annota che la sua visione al tra­monto è certo un bello spet­ta­colo, ma non rap­pre­senta quella ideo­lo­gia neo­li­be­ri­sta del tric­kle down, in base al quale la ric­chezza sgoc­ciola dall’alto in basso e tutta la società bene­fi­cia del capi­ta­li­smo fon­dato sul libero mer­cato. Per un decen­nio, la quota di ric­chezza «goc­cio­lata» verso il basso ha favo­rito solo la cre­scita di una classe media, ma nulla di più. La scrit­trice ne è con­sa­pe­vole, anzi con iro­nia e sar­ca­smo parla del ruolo poli­tico che eser­cita nella società indiana, oscil­lando tra ade­sione entu­sia­sta al capi­ta­li­smo hindi e una cri­tica bon ton alle ingiu­sti­zie sociali in nome dei diritti umani vio­lati dalle mul­ti­na­zio­nali e dalle forze di poli­zia. Ma è una cri­tica, que­sta, che si limita solo a una sup­plica verso i potenti, affin­ché non abu­sino del loro potere. 
Arun­d­hati Roy non è però un’ingenua. Sa che l’India è diven­tata il waste land dove mul­ti­na­zio­nali high-tech hanno spo­stato alcune pro­du­zioni o ser­vizi, favo­rendo lo svi­luppo di par­chi tec­no­lo­gici e distretti indu­striali che hanno reso il sub­con­ti­nente asia­tico la nuova fron­tiera della pro­du­zione di soft­ware, micro­pro­ces­sori, bio­tec­no­lo­gie. Ma que­sto è solo un fram­mento di una tota­lità costi­tuita da indu­stri mine­ra­rie, dell’acciaio, auto­mo­bi­li­sti­che e finan­zia­rie che spesso fanno capo a una fami­glia. Così Ban­ga­lore può cre­scere men­tre intere regioni sono pri­va­tiz­zate da chi estrae bau­xite; oppure quote di ter­ri­to­rio sono «deser­ti­fi­cate» dalla pre­senza umana per deviare il corso di fiumi, costruire dighe, men­tre i con­ta­dini sono cac­ciati bru­tal­mente via dall’esercito per rega­lare le terre ai giganti dell’agro-alimentare. I fan­ta­smi del capi­tale sono uomini e donne che, chiusi nelle torri d’avorio, si dilet­tano anche nel grande casinò della finanza, aggiun­gendo così pro­fitti a profitti. 
I poveri, cate­go­ria che nel libro della scrit­trice perde ogni aura roman­tica di vita in armo­nia con la natura, come qual­che teo­rico della decre­scita sostiene, non hanno che due pos­si­bi­lità: rag­giun­gere altri poveri nelle mega­lo­poli per con­di­vi­dere una vita di stenti e di fame; oppure rifu­giarsi nelle fore­ste e ingros­sare le fila della guer­ri­glia maoi­sta, una realtà politica-militare che con­trolla ormai ter­ri­tori più estesi dell’Italia, rite­nuta una peri­colo per la sicu­rezza nazio­nale — cioè l’insindacabile rule law della pro­prietà pri­vata — che merita l’uso dell’esercito e la vio­la­zione siste­ma­tica dei diritti umani. Arun­d­hati Roy regi­stra noti­zie di eccidi, di tor­ture, ma anche dell’occupazione dello stato da parte di impren­di­tori e capi­ta­li­sti ram­panti. Par­lare di con­flitto di inte­ressi come una ano­ma­lia del sistema poli­tico signi­fica chiu­dere gli occhi sulla com­pe­ne­tra­zione tra imprese e poli­tica dive­nuta sistema. 

La gio­stra dei festi­val culturali 
Ele­menti poco noti in Occi­dente, ma che invece rap­pre­sen­tano fat­tori costi­tu­tivi della più grande demo­cra­zia del mondo, dove l’inossidabile divi­sione in caste della società indiana con­ti­nua ad essere un ben oliato dispo­si­tivo per la ripro­du­zione degli assetti di potere esi­stenti. Forse più che guar­dare all’America biso­gne­rebbe guar­dare all’India per capire come fun­ziona la demo­cra­zia nel ven­tu­ne­simo secolo. 
La scrit­trice si dilunga inol­tre sulla mol­ti­pli­ca­zione di festi­val let­te­rari e arti­stici in India. Sono invi­tati scrit­tori, poeti, musi­ci­sti di fama mon­diale, senza dimen­ti­care la pre­senza di qual­che intel­let­tuale cri­tico. La libertà di espres­sione non è certo messa in discus­sione, ma a patto che siano intel­let­tuali gra­diti alle imprese che spon­so­riz­zano le ker­messe cul­tu­rali. I festi­val arti­stici fun­zio­nano come le orga­niz­za­zioni non gover­na­tive: puoi par­lare con­tro la povertà, puoi denun­ciare l’esistenza di slums come un colpo alla sto­maco, ma guai a pro­porre solu­zioni che met­tano in discus­sione lo sta­tus quo. Fino alla con­sta­ta­zione che lo ong come i festi­val cul­tu­rali sono un sofi­sti­cato stru­mento di nor­ma­liz­za­zione del dis­senso e per attin­gere a inno­va­tive idee per fare affari e gestire il potere. 
Arun­d­hati Roy non fa sconti a nes­suno. È si un’intellettuale par­ti­giana, ma usa spesso parole poco lusin­ghiere verso i diversi par­titi comu­ni­sti o la guer­ri­glia maoi­sta. I primi per la loro subal­ter­nità al potere delle imprese; la seconda per l’incapacità a par­lare e l’indifferenza alla cre­scita dei pur nume­rosi e par­te­ci­pati movi­menti sociali. La scrit­trice con­fida sulla loro dif­fu­sione, ma sa che pos­sono essere can­cel­lati se anche nel Nord del mondo non si svi­lup­perà una ribel­lione con­tro quei fan­ta­smi del capi­tale che girano indi­stur­bati per il pianeta.

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