giovedì 14 maggio 2015

Triste risveglio, 30 anni dopo: internet più gendarme che Pinocchio, l'emancipazione non è necessaria ma la guerra digitale sì

Nello sciameByung-Chul Han: Nello sciame, nottetempo 

Risvolto

La trasparenza e i dispositivi digitali hanno cambiato gli uomini e il loro modo di pensare. Alla comunicazione in presenza, alla capacità di analisi e alla visione del futuro si sono sostituiti interlocutori fantasmatici immersi in un presente continuo e sempre visualizzabile attraverso uno schermo. Il soggetto capace di annullarsi in una folla che marcia per un’azione comune, ha ceduto il passo a uno sciame digitale di individui anonimi e isolati, che si muovono disordinati e imprevedibili come insetti. Han si interroga su ciò che accade quando una società – la nostra – rinuncia al racconto di sé per contare i “mi piace”, quando il privato si trasforma in un pubblico che cannibalizza l’intimità e la privacy. E su che cosa comporta abdicare al significato e al senso per un’informazione ovunque reperibile ma spesso non attendibile.



La povertà dell’homo digitalis 

Marco Dotti, il Manifesto 14.5.2015 

Forse dovremmo tor­nare a ser­virci di una vec­chia parola, da troppo tempo dismessa dalla cas­setta degli attrezzi: alie­na­zione. Marx parla per la prima volta di alie­na­zione (Ent­fre­m­dung) nella sua tesi di lau­rea. Una tesi dedi­cata – come si sa — alle Dif­fe­renze fra la filo­so­fia della natura di Demo­crito e quella di Epi­curo. Qui, discu­tendo di ato­mi­smo, Marx nota come per­sino nell’atomo, nell’apparentemente unico e indi­viso, vi sia con­trad­di­zione, ossia un movi­mento che scinde, divide.
A essere sepa­rati, in que­sta visione delle cose e del mondo, sono esi­stenza e essenza. La prima, alie­nata dalla seconda. Ecco per­ché nell’alienazione — come avrebbe detto Adorno — «la vita non vive». Spe­ri­menta, ma non vive. Non vive e non imprime quelle tracce d’esperienza che siamo soliti chia­mare «il vis­suto».
In tede­sco, due parole indi­cano le forme dell’ «espe­rienza»: Erleb­nis­sen e Erfah­run­gen. Con la prima, siamo nel campo dell’episodico, di ciò che non si con­ca­tena. Con la seconda forma di espe­rienza, Erfah­run­gen, siamo nel campo di ciò che lascia tracce, segni, porta a muta­menti, eppure marca un’unità. Il fatto che, come scri­veva Wal­ter Ben­ja­min, noi si sia entrati in un’epoca ricca di espe­rienze epi­so­di­che e povera di Erfah­run­gen, è un dato autoe­vi­dente. Per ogni epi­so­dio, per ogni fram­mento espe­rien­ziale del primo tipo, cer­chiamo mar­ca­tori esterni. Ma il «fuori» è pre­ci­sa­mente ciò che ci sfugge: il mondo, afferma Byung-Chul Han, è diven­tato addi­tivo, non nar­ra­tivo. Sovrap­po­niamo fram­mento a fram­mento, spe­rando di «fare spes­sore». Dalle vec­chie foto­gra­fie e dai vec­chi cimeli di viag­gio, che ancora ten­ta­vano di «rac­con­tare», siamo pas­sati al mar­ca­tore insta­gram, al «mi piace», al «sono qui», alle mappe che si ride­fi­ni­scono infi­ni­ta­mente per­ché infi­ni­ta­mente mobili e auto-organizzantisi attorno al «pun­tino» che ci rap­pre­senta su uno schermo. Alla messa in scena, con le fun­zioni «peri­scope» e le tele­ca­mere con­nesse ven­ti­quat­tro ore su ven­ti­quat­tro che ver­ranno, si uni­sce il retro scena. 

Povertà dell’esperienza 
Passo dopo passo, ma sem­pre col passo del gam­bero, l’alienazione dal mondo diventa, come Marx ci ha inse­gnato, alie­na­zione del mondo. Inu­tile negare che la potenza con cui que­sta dop­pia elica alie­nante si torce ha subito e subi­sce un’accelerazione sem­pre più radi­cale. Sull’assoluta povertà di espe­rienza (Erfah­run­gen), sulla sim­me­trica pro­li­fe­ra­zione di fram­menti espe­rien­ziali e sulla sovrae­spo­si­zione por­no­gra­fica del sé nella nostra post­mo­der­nità digi­tale ha molto insi­stito Byung-Chul Han, filo­sofo tede­sco di ori­gine coreana, che sulla coda lunga della Scuola di Fran­co­forte si è fatto cono­scere anche dai let­tori ita­liani, gra­zie ai tre volumi editi da Not­te­tempo, La società della stan­chezza, Eros in ago­nia e La società della tra­spa­renza oltre a un inte­res­sante ebook edito da goWare pochi mesi fa: Razio­na­lità digi­tale. La fine dell’agire comu­ni­ca­tivo.
A que­sti lavori, si affianca ora Nello sciame. Visioni del digi­tale (tra­du­zione di Fede­rica Buon­gionro, pp. 105, euro 12) che in qual­che modo li inte­gra e ne viene inte­grato. Al cuore della rifles­sione di Byung-Chul Han c’è una cri­tica, molto chiara e evi­dente, a una visione dell’uomo immerso e alie­nato in uno pseudo ambiente digi­tale. È quella che l’autore chiama «antro­po­lo­gia idea­liz­zata dello sciame crea­tivo». Un’antropologia che si è decli­nata in forme di spi­ri­tua­li­smo, più o meno mani­fe­ste, che hanno finito col con­ver­gere verso una sorta di pen­te­co­sta­li­smo digi­tale fon­dato sulla pro­messa di libe­rare l’uomo dal sé iso­lato, pro­du­cendo uno spi­rito capace di into­narsi con il simu­la­cro dell’altro (in realtà: solo una diversa decli­na­zione dell’ «uguale) in uno spa­zio comune di riso­nanza (il web). 
Ciò che si è pro­dotto, dopo i primi decenni di net-entusiasmo, è però nient’altro che uno sciame ace­falo, una folla di tipo oriz­zon­tale l’avrebbe chia­mata Gustave Le Bon, in balia di un mes­sia­ni­smo della con­nes­sione inte­grale sem­pre di là da venire eppure capace, già qui e ora, di dispie­gare i suoi effetti nefa­sti. Assi­stiamo così all’erosione dello spa­zio pub­blico, inteso come luogo del noi – un’erosione con­dotta però pro­prio in nome del «noi». L’Uguale risplende in una società inte­ra­mente depri­vata del suo «nega­tivo», dove non solo ogni forma di oppo­si­zione, ma anche ogni azione è pre­ven­ti­va­mente eli­mi­nata e sosti­tuita da un’informazione. Infor­marsi equi­vale a esserci. Comu­ni­care equi­vale a essere. Que­sto il teo­rema di una società dove ogni inter­sti­zio e ogni chiaro-scuro viene bru­ciato in nome del nuovo idolo: la trasparenza. 

In nome della prestazione 
Domina, in que­sta società, la forma del «sog­getto di pre­sta­zione». Un sog­getto avvinto in pra­ti­che di auto-ottimizzazione dello sfrut­ta­mento di sé anche quando non lavora, anche quando gioca, anche quando crea, anche quando si sente immerso in un flow che chiama «libertà». Ecco per­ché il sog­getto di cui parla Byung-Chul Han tutto è fuor­ché un homo ludens. Asso­mi­glia piut­to­sto a quel homo festi­vus di cui par­lava Phi­lippe Muray: vivendo il car­ne­vale ogni giorno, fini­sce per sov­ver­tire la sov­ver­sione, per lot­tare con­tro la lotta e per resi­stere con­tro ogni resi­stenza. Non sbatte i pugni sul tavolo, non agi­sce: gioca con le dita su una tastiera. Il rein­canto del mondo passa dal suo stordimento. 
La parola «digi­tale», ci ricorda non a caso Byung-Chul Han, rimanda al digi­tus, al dito che conta. L’homo digi­ta­lis conta, cal­cola, misura. Anche quando non lavora, anche quando «crea» il suo mondo è segnato dal cal­colo e dalla prestazione. 
L’homo digi­ta­lis non gioca, non crea, tanto meno agi­sce. L’atrofia della mano per eccesso di non lavoro porta a un’artrosi digi­tale delle dita, ren­dendo impos­si­bile al sog­getto ogni espe­rienza, anche l’esperienza della sot­tra­zione fon­da­men­tale che lo riguarda. 
Piac­cia o meno il tono quasi pro­fe­tico di Byung-Chul Han, la sua dia­gnosi è spie­tata ma impron­tata al rea­li­smo: dal digi­tale non è nata alcuna resi­stenza mate­riale che si possa supe­rare per mezzo del lavoro. Al con­tra­rio, il lavoro si è avvi­ci­nato – que­sto sì – al gioco, ma nella sua dimen­sione digi­tale non ha dato vita ad alcun tempo dell’ozio. L’antropologia idea­liz­zata della classe crea­tiva avrebbe pro­dotto quindi solo l’ennesima alie­na­zione. Anche la bio­po­li­tica, nella visione di Byung-Chul Han, ha fatto il suo corso. 
La società digi­tale è ora­mai post­mor­tale, post­na­tale, post-politica, ma anche post-panottica – avverte Byung-Chul Han. Solo se gli atomi si con­net­tono l’un l’altro, in una rete che li isola nel momento stesso in cui li avvince que­sto sistema può reg­gere. I big data, il data mining, la pos­si­bi­lità di con­trol­lare lo sciame par­tendo dalla pre­vi­sione affet­tiva, emo­tiva, impul­siva dei suoi movi­menti sem­bra aprire le porte a un tempo segnato da qual­cosa che potremmo chia­mare «psi­co­po­li­tica digi­tale». Uscirne è la que­stione cruciale.



Il click che fa movimento
Salone del libro. Dalle strategie militari all’intelligenza artificiale, all’analisi della realtà contemporanea. La fortuna accademica dello «sciame»

Benedetto Vecchi, il Manifesto 14.5.2015

Il Muro di Ber­lino è caduto da pochi mesi e oltre le mace­rie del socia­li­smo reale ha lasciato sul campo i manuali di stra­te­gia mili­tare usati tanto ad Est che ad ovest del vec­chio con­ti­nente. La pia­ni­fi­ca­zione su come orga­niz­zare gli eser­citi della Nato o del Patto di Var­sa­via sono ormai carta strac­cia. In Cina qual­che eccen­trico gene­rale comin­cia a defi­nire nuove stra­te­gie per un mondo uni­po­lare dove Pechino punta a diven­tare una nuova super­po­tenza eco­no­mica e mili­tare. Per que­sto, l’esercito popo­lare deve rior­ga­niz­zarsi, par­tendo da una situa­zione di svan­tag­gio tec­no­lo­gico, ma con una carta vin­cente che gli Stati Uniti non hanno: la cono­scenza del ter­ri­to­rio e un saldo legame con la realtà sociale. Pechino imma­gina sce­nari di resi­stenza a una pos­si­bile inva­sione nemica, ma la teo­ria della «guerra sim­me­trica» è, nel tempo, diven­tata una sorta di bib­bia per gli eser­citi rego­lari del ven­tu­ne­simo secolo.

I robot in azione
Dall’altra parte del Paci­fico, gli Stati Uniti hanno un pro­blema da risol­vere: gestire una poli­tica impe­riale che pre­vede la pos­si­bi­lità di spo­stare in tempi rapidi le truppe ai quat­tro angoli del pia­neta. L’esercito è visto come una forza di inter­vento poli­zie­sco anche per fron­teg­giare insur­re­zioni popo­lari. Ed è in que­sta cor­nice che i think tank legati al Pen­ta­gono comin­ciano a sfor­nare studi su come orga­niz­zare unità dell’esercito a stelle e stri­sce per assol­vere fun­zioni sia mili­tari che di poli­zia. Il testo, che farà scuola, della orga­niz­za­zione non gover­na­tiva e con­ser­va­trice Rand Cor­po­ra­tion ana­lizza a fondo non tanto come debba essere orga­niz­zato un eser­cito, ma come si muo­vono i «movi­menti insur­re­zio­nali».
Con straor­di­na­ria capa­cità ana­li­tica, la Rand Cor­po­ra­tion parla dei movi­menti sociali «insor­genti» come «sciami» che si for­mano, col­pi­scono per poi dis­sol­versi. Il testo, repe­ri­bile in rete (www​.rand​.org/​p​u​b​s​/​d​o​c​u​m​e​n​t​e​d​_​b​r​i​e​f​i​n​g​s​/​D​B ​3​1​1​.​h​tml) e fir­mato da John Arquilla e David Ron­feldt, anche se datato è ancora illu­mi­nante per la la chia­rezza nell’esporre il punto di vista dell’esercito sta­tu­ni­tense come forza di poli­zia inter­na­zio­nale, ma anche per la capa­cità di rap­pre­sen­tare il con­flitto sociale nelle società con­tem­po­ra­nee: i movi­menti sociali sono cao­tici, ete­ro­ge­nei, senza una orga­niz­za­zione cen­trale di coor­di­na­mento, ma quando agi­scono appa­iono come uno sciame, dove ogni par­te­ci­pante si muove come se tutto sia stato atten­ta­mente organizzato. 
Nello stesso arco di tempo, fisici, mate­ma­tici, filo­sofi e pro­gram­ma­tori di com­pu­ter sono alle prese con gli scon­for­tanti fal­li­menti dei pro­getti di intel­li­genza arti­fi­ciale. Le spe­ranze di costruire una mac­china «pen­sante» sono, allora, archi­viate come un sogno troppo bello per essere vero. Qual­cuno, però, tira fuori un espe­ri­mento di Alan Turing – ma alcuni sto­rici della scienza dicono che è da attri­buire ad altri – in base al quale se un umano «dia­loga» con una mac­china che for­ni­sce rispo­ste dotate di senso, sarebbe legit­timo par­lare di intel­li­genza. Se pren­diamo un numero più o meno esteso di mac­chine infor­ma­ti­che o di robot che «comu­ni­cano» pos­sono pro­durre com­por­ta­menti che a un osser­va­tore esterno appa­iono «intel­li­genti». I soliti infor­mati qua­li­fi­che­reb­bero i ricer­ca­tori che orga­niz­zano in que­sta maniera il soft­ware, la comu­ni­ca­zione e le moda­lità di rea­zioni di mac­chine infor­ma­ti­che o robot come «con­nes­sio­ni­sti»; Più pro­sai­ca­mente qual­cuno a comin­ciato a par­lare di «sciami intelligenti». 

Stuc­che­vole naturalismo 
La con­ver­genza tra stra­te­ghi mili­tare e ricer­ca­tori di com­pu­ter science nell’uso del ter­mine sciame non deve mera­vi­gliare. Il mondo ani­male è stato infatti spesso usato per par­lare del fun­zio­na­mento della società o della poli­tica – La favola delle api di Ber­nard de Man­de­ville o il Levia­tano di Tho­mas Hob­bes -, anche per rati­fi­care il fatto che anche gli umani sono una spe­cie ani­male, sep­pur par­ti­co­lare. Gli sciami costi­tui­scono, se osser­vati dall’esterno, una forma di sofi­sti­cata e pre­cisa orga­niz­za­zione, dove ogni com­po­nente svolge un’azione sin­cro­niz­zata a quelle dei suoi simili. Ciò che è amorfo, anno­ta­vano gli stu­diosi della Rand Cor­po­ra­tion, appare invece come una per­fetta orga­niz­za­zione. Lo sciame può dun­que essere pre­sen­tato come una forma di orga­niz­za­zione fina­liz­zata a uno scopo che può essere sciolta ogni volta che l’obiettivo è stato rag­giunto. Una pro­spet­tiva ana­li­tica che pecca di «natu­ra­li­smo» e che nulla spiega del come lo sciame si forma e di come viene defi­nito l’obiettivo. In altri ter­mini è una rap­pre­sen­ta­zione che fun­ziona come una foto­gra­fia, o un video che ha biso­gno di una distanza ed ester­nità da quanto accade. Eppure lo sciame è usato per spie­gare le moda­lità della comu­ni­ca­zione in Rete, per descri­vere le azioni dei movi­menti sociali den­tro uno spa­zio defi­nito – quasi sem­pre una metro­poli -, quasi riu­scisse a cogliere un nucleo di realtà altri­menti inafferrabile. 

Lo stile povero del web 
Il filo­sofo tede­sco di ori­gini coreane Han Byung-Chul uti­lizza lo sciame per descri­vere le moda­lità della comu­ni­ca­zione nella Rete, asse­gnando ai social media e ai social net­work la respon­sa­bi­lità di una comu­ni­ca­zione povera dovuta ai «for­mat» impo­sti agli utenti, sia a causa della limi­ta­zione fisi­che – con Twit­ter non si pos­sono usare più di 140 carat­teri – che allo spi­rito gre­ga­rio che favo­ri­scono (i Like di Face­book). Sugli esempi di alie­na­zione, impo­ve­ri­mento e con­for­mi­smo che l’autore pro­pone non c’è molto da obiet­tare. È espe­rienza dif­fusa che tanto più è veloce lo scam­bio di infor­ma­zione, più è facile deviare da quanto sta­bi­li­sce la maggioranza. 
Nella rifles­sione di Han Byung-Chul lo sciame perde dun­que i carat­teri per­tur­banti messi in evi­denza dalla Rand Cor­po­ra­tion e dai «con­nes­sio­ni­sti» per assu­mere il pro­filo di un forma di azione sociale e comu­ni­ca­tiva omo­lo­gata allo spi­rito domi­nante nella società. Lo sciame digi­tale divine folla e a farle da padrone sono quei sen­ti­menti, moda­lità di rela­zione gre­ga­ria che esclu­dono ogni pos­si­bi­lità di tra­sfor­mare l’esistente. 

La fusione oscurata 
La realtà è tut­ta­via più con­trad­dit­to­ria, ambi­va­lente di quella defi­nita dal filo­sofo coreano. Certo, l’azione di bull­shit (la deni­gra­zione attra­verso l’insulto gra­tuito e vio­lento, il bul­li­smo in Rete) assume pro­por­zioni dif­fi­cil­mente con­trol­la­bili da qual­siasi «mode­ra­tore» o cen­sore della comu­ni­ca­zione on line, ma il mail bom­bing è anche una forma di pro­te­sta con­tro il com­por­ta­mento di una impresa nei con­fronti dei lavo­ra­tori, o della poli­zia o di una isti­tu­zione sta­tale. Ciò che appare povero a Han Byung-Chul è, in que­sto caso, denso della ric­chezza delle rela­zioni sociale nella defi­ni­zione dell’obiettivo da rag­giun­gere.
La cate­go­ria dello sciame perde quindi la sua capa­cità ana­li­tica nel descri­vere com­por­ta­menti sociali. In altri ter­mini, fun­ziona solo come una foto­gra­fia scat­tata dall’esterno. Più che il movi­mento defi­ni­sce la sta­ti­cità di una situa­zione. E nulla dice delle dina­mi­che all’interno dello sciame-movimento e tra que­sto e il con­te­sto sociale «esterno». In altri ter­mini, nulla dice dei pro­cessi di for­ma­zione delle sog­get­ti­vità, delle pro­ce­dure attra­verso le quali ven­gono prese le deci­sioni sulla modi­fica dei com­por­ta­menti dello sciame in azione. 
Lo sciame, anche quello assunto dal filo­sofo coreano, riduce l’azione e i con­flitti sociali a feno­meni eto­lo­gici che can­cel­lano quella con­su­mata fusione tra natura e cul­tura che carat­te­rizza lo stare in società e nel mondo. Il sag­gio di Han Byung-Chul è tut­ta­via rile­vante per com­pren­dere il legame tra comu­ni­ca­zione e movi­menti sociali, anche se in forma diversa da quanto pro­spet­tato nel sag­gio Nello sciame. La con­di­vi­sione di un pro­getto e di un obiet­tivo segue logi­che che pos­sono essere rico­struire sem­pre a poste­riori. Per com­pren­dere il per­ché si forma uno sciame – che è imma­gine potente nella sua rap­pre­sen­ta­zione – occorre seguire altri sen­tieri, con­fron­tarsi con la costi­tu­zione mate­riale che pre­cede e tal­volta viene modi­fi­cata dallo sciame. 

Oltre i legami deboli 
Il nodo da scio­gliere è quella sem­pli­cità dif­fi­cile a farsi che è l’elaborazione di un Poli­tico ade­guato all’eclissi dei pro­cessi di for­ma­zione delle iden­tità col­let­tive del pas­sato. Ma per que­sto non ser­vono scor­cia­toie. Nep­pure quelle di mime­tiz­zarsi per ren­dersi visi­bili e tor­nare ano­nimi e dun­que invi­si­bili nel momento in cui sva­ni­scono i legami «deboli» dello sciame. Come inse­gna la gior­nata del primo mag­gio a Milano, esem­pio di uno sciame auto­com­pia­ciuto della sua rap­pre­sen­ta­zione ipermediatica.

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