Ariosto, scrive la Airaldi, individua come Andrea appartenga «a una
élite europea che, diversamente dalle altre, non porta in sé solo i
caratteri dell’aristocrazia fondiaria, i quali pure — come dimostrano le
vicende della casa Doria — restano la radice della sua ragion
d’essere». Andrea «appartiene all’aristocrazia consolare che dal Mille è
al vertice di un Comune e... combatte per due sistemi politici
alternativi ma complementari». Anzi da prima del Mille: la genealogia
attesta che i «de Auria» (questo il nome corretto della famiglia, che
poi cambierà in «d’Oria» negli annali della Repubblica di Genova citando
un documento del 1134) «sono presenti sul palcoscenico della storia più
di un secolo prima che nascesse il Comune e cioè fin dal 900, quando
Genova, cuore di relazioni internazionali pacifiche e guerresche e città
vivace di presenze forestiere, già godeva di riconoscimenti regi».
Risale al 1125 il primo segno della potenza della famiglia Doria, che in
quell’anno fonda la sua chiesa gentilizia.
La fortuna dei Doria sarà legata a quella dei liguri a Roma dal 1471,
quando sarà elevato al soglio pontificio Francesco della Rovere, che
prenderà il nome di Sisto IV. Saranno i Papi liguri a dare il via a una
grande rivoluzione urbanistica, che cambierà il volto di Roma. Prima il
genovese Giovanni Battista Cybo, con il nome di Innocenzo VIII (in
carica dal 1484 al 1492), poi Giuliano della Rovere, con il nome Giulio
II (1503-1513). Andrea Doria vivrà nella città del Pontefice tra il 1488
e il 1492. Sono anni — questi e quelli che seguiranno — in cui «il
nepotismo pontificio, la vendita delle indulgenze e degli uffici
provocherà le critiche di Erasmo da Rotterdam e scatenerà Martin
Lutero». Ma ora «nello splendore romano si aggirano Mantegna,
Pinturicchio, Raffaello, Michelangelo, Benvenuto Cellini».
Andrea «non è un uomo d’affari né uno dei tanti capitani di ventura che
girano il mondo con i loro mercenari; è un cavaliere, un “artista della
guerra”; risponde perciò in tutto e per tutto all’antico canone
europeo». Andrea Doria, prosegue l’autrice, «è uno degli uomini più
potenti della sua epoca; come tale deve difendere la sua potenza e
conservarne i segni; ma non è ricco; d’altronde lui preferisce la
potenza alla ricchezza e recita la sua parte come Carlo recita la
propria; per questo il principe (dal 1531 sarà insignito del titolo di
principe di Melfi) passa la maggior parte del tempo con le sue armi,
sulla sua galera; un mondo particolare, a modo suo solidale, dove però
la convivenza obbligata rende la vita grama a tutti».
Nel 1515, Francesco I sale sul trono di Francia. L’anno successivo
Andrea è alla guida della spedizione contro i corsari barbareschi voluta
dal Papa e da Francesco. Nel gennaio del 1516, a sedici anni, Carlo
d’Asburgo diventa re di Spagna. Tre anni dopo, nel giugno del 1519, un
consorzio di banchieri, sborsando una cifra astronomica, in quello che è
stato definito «il più grande poker politico della storia», gli
consente di «superare l’antagonista Francesco I e di assumere su di sé
la corona imperiale». Tra i due inizia un grande duello. Carlo V vuole
il controllo della penisola italiana. Per conquistarlo ha bisogno di
Genova, di Milano e di Roma. Per avere un vantaggio sull’avversario,
instaura una politica coerente antiluterana e antiturca. Fa saccheggiare
la «francese» Genova. Tenta di spaccare l’asse tra Francesco e Milano.
Mette a sacco Roma, nel 1527, per ridurre a ragione l’anti-imperiale
Clemente VII (Giulio de’ Medici). Alla fine la sua politica e i suoi
eserciti l’avranno vinta; ma ciò non sarebbe avvenuto, sostiene
Gabriella Airaldi, «senza l’aiuto del più importante guerriero di mare
del tempo, senza le galee e senza i capitali genovesi». È lo spostamento
a suo favore di Andrea Doria che decide la partita.
Nel suo Carlo V (Salerno), Alfred Kohler ha scritto che all’epoca «in
campo militare Carlo aveva all’inizio poca esperienza». La sua
familiarità con le armi si era per lungo tempo «limitata ai tornei». Di
fatto, Carlo dovette attendere fino ai 34 anni per sperimentare di
persona la guerra, davanti a Tunisi. Fino ad allora era rimasto «un
teorico che, guidato dai suoi militari, si occupava di questioni
particolari relative alla guerra, come le fortificazioni — un interesse
che gli derivava da suo nonno Massimiliano — o il problema dei
rifornimenti, soprattutto dopo l’esperienza negativa fatta dal suo
esercito in Provenza nel 1524». Nelle questioni militari si affidò da
giovane al viceré di Napoli Charles de Lannoy, più tardi a René de
Chalon, principe d’Orange e ad Andrea Doria, che risvegliò in lui
l’interesse per la guerra navale.
C’è qualcosa di simile nelle vicende di Carlo V e di Andrea Doria, mette
in rilievo Gabriella Airaldi sulla scia del fondamentale Carlo V e il
suo impero (Einaudi) di Federico Chabod: «Fin dal momento in cui i loro
destini si sono incrociati, l’intesa tra i due è stata forte ed è
proseguita con un’intensità slegata dalla pura occasionalità». Il loro
carteggio è «fitto». L’imperatore e il principe sono due individui che
vivono «esperienze estreme». Le loro vite si assomigliano. Tutta la loro
esistenza è «tinta dei colori del sangue»; il loro «colloquio con la
morte è costante e nessuno dei due la teme». Per Andrea «la solitudine»,
dice ancora l’Airaldi, «è stata fin dalla gioventù una scelta di vita».
Per Carlo «una condizione sine qua non che alla fine ha assunto i
contorni di una soluzione esistenziale, quando il suo grande impero ha
preso i confini di una piccola casa vicino a un monastero», dove tra il
1556 e il 1558 trascorse i suoi ultimi due anni di vita. Ma «gli spazi
sono ristretti anche per il capitano Doria», che all’ultimo trascorre
tutto il tempo che gli rimane nel suo bel palazzo. Individui al vertice
di situazioni complesse, insiste Airaldi, Carlo e Andrea «sono e restano
due uomini soli». La rinuncia a ogni potere terreno, la decisione di
vivere con servitù ridotta in una dimora semplice e il testamento
politico di Carlo non si possono leggere senza riandare alla stanza in
cui Andrea si ritira a pensare «per longo spatio»; alle ultime volontà
che il principe detta appena un mese prima della scomparsa
dell’imperatore; ai codicilli che le completano; alla genealogia in cui
delinea le fondamenta della sua storia familiare; alla cura che, fin
dagli anni Quaranta, mette nel predisporre la propria sepoltura
nell’antica chiesa gentilizia.
Ma torniamo al 1528, l’anno nel quale Andrea Doria «lascia» Francesco I
per unirsi a Carlo V in un rapporto indissolubile che durerà ben tre
decenni. Senza l’inaspettato cambiamento della situazione determinato,
nel luglio 1528, dal passaggio di Andrea Doria dalla parte di Carlo V,
sostiene Kohler, l’Orange non avrebbe probabilmente potuto far fronte al
blocco navale imposto fino a quel momento dalle galere del nipote di
Doria, Filippino; questi ritirò allora, finalmente, le sue navi. In
seguito, la situazione dell’esercito francese davanti a Napoli peggiorò
visibilmente e, dopo la morte inaspettata del generale Foix Odet
visconte di Lautrec, avvenuta in agosto, i francesi interruppero
l’assedio della città. L’allontanamento del Doria dal re di Francia,
prosegue Kohler, non avvenne improvvisamente, come perlopiù si afferma, e
non era nemmeno motivata esclusivamente dagli attriti con il comando
supremo francese per il bottino conquistato in occasione della vittoria
navale di Amalfi (28 aprile 1528), ottenuta da Filippino Doria contro la
flotta spagnola. Già il 1° luglio di quello stesso 1528, Andrea Doria
aveva concordato con l’imperatore una condotta di due anni e
quell’accordo venne ratificato il 10 agosto a Madrid.
Nella conquista di Andrea Doria alla causa dell’imperatore svolse
probabilmente un ruolo di mediatore il cancelliere di Carlo V, Mercurino
Arborio di Gattinara, che nel 1527 aveva soggiornato per un mese a
Genova (anche se nell’autobiografia il Gattinara spiegava la propria
sosta dicendo di aver avuto un attacco di gotta). La flotta genovese,
mette in rilievo Kohler, assicurò all’imperatore per gli anni successivi
il controllo del mare in tutto il Mediterraneo occidentale e il
sostegno nella lotta contro Chaireddin Barbarossa; Genova poté
beneficiare non solo dello scambio di merci fra Italia e Spagna, in
particolare del commercio di cereali con la Sicilia, ma ottenne
nuovamente l’ancor più importante collegamento con lo spazio economico
della Spagna e dei Paesi Bassi e la possibilità di concludere affari
finanziari con l’imperatore. In Italia settentrionale la situazione era
inizialmente sfavorevole agli imperiali. Il duca Enrico il Giovane di
Braunschweig-Wolfenbuettel non riuscì a ottenere con le proprie truppe
alcun successo. Da parte francese, invece sotto il comando del
Borbone-Vendome Francesco II, conte di Saint-Pol, si presentò un
esercito di diecimila soldati che contese ad Antonio de Leyva la
Lombardia. In questa situazione fu vantaggioso che, grazie ad Andrea
Doria, «il porto di Genova fosse nuovamente aperto all’esercito
imperiale, cosa che era di importanza determinante per far giungere in
Italia settentrionale i rifornimenti». Progressivamente «migliorarono
anche le condizioni per il viaggio in Italia dell’imperatore, anche se
la guerra continuava». Punto di forza dell’alleanza tra Carlo V e Andrea
Doria, scrive la Airaldi, è che mai l’alleanza di Genova con la Spagna e
con l’Impero si sarebbe trasformata in sottomissione». Mai «sarebbe
venuto meno il sistema repubblicano su cui essa si basava e di cui si
sarebbe gloriata in ogni tempo».
Con il passaggio di Andrea Doria dalla parte dell’imperatore, scrive
Kohler, i banchieri genovesi si trovarono al servizio di Carlo: Genova
divenne, accanto ad Anversa, la piazza finanziaria più importante
dell’impero, e fu lì che Suarez de Figueroa concluse alcune tra le sue
più importanti operazioni di credito. Ma — prima ancora dei vantaggi
economici — è la personalità di Andrea che segna quell’epoca. «Guerriero
di vaglia sulla terra e sul mare», scrive Gabriella Airaldi, «il
principe è un uomo colto; ha vissuto nel palazzo paterno di Oneglia, nel
castello materno di Dolceacqua, nel quartiere genovese di San Matteo, e
fin dalla giovinezza ha soggiornato in molte corti, a Roma, a Urbino, a
Parigi, a Madrid». «Amico di principi, cardinali e pontefici, si
circonda di intellettuali e artisti; proviene da un milieu le cui
origini si perdono nel tempo, un consesso di ammiragli e condottieri,
politici, diplomatici, uomini d’affari e uomini di Chiesa che spesso
sono anche raffinati intellettuali». La loro influenza gli darà la forza
per affrontare numerose congiure. Quella di Cesare Fregoso e degli
altri giustiziati nel 1534; quella del prete Valerio Zuccarello,
decapitato nel 1539; quella (assai più importante) di Gianluigi Fieschi,
stroncata nel 1547. Quest’ultima, con la terribile vendetta che ne
seguì, «segna una tappa importante non solo nella storia locale ma anche
in quella internazionale». Ciò che accadde, infatti, aprì la via «al
definitivo successo spagnolo, ed è forse per questo che la congiura dei
Fieschi è una tragedia che, al di là della sua valenza nella storia del
principe, si fissò subito nella memoria di tutti diventando fonte di
ispirazione per gli intellettuali di ogni tempo, dai contemporanei a
Rousseau, a Schiller, al Guerrazzi».
Andrea è uno dei pochi italiani ante litteram che tengono fede alla
parola data, alle alleanze stipulate, e ne è compensato con successi
talvolta insperati. Vivrà a lungo, più di novant’anni, e vedrà
succedersi più generazioni. Avrà 51 anni quando Lutero proporrà le 95
tesi; 63 quando Solimano giungerà sotto le mura di Vienna; 79 quando si
aprirà il Concilio di Trento; 93 al momento del trattato di Cateau
Cambrésis. «In quasi cent’anni di vita», scrive Airaldi, «il mondo gli è
cambiato sotto gli occhi». Parenti e amici sono tutti più giovani e gli
è difficile scegliere un successore. «Al suo erede occorre un
apprendistato serio e complesso che si può compiere solo con lui... Tra
la gente che gli è vicina circolano due nomi importanti, quello di
Filippino, che però muore trent’anni prima di lui, e quello di Antonio,
più giovane di lui di trent’anni e che morirà diciassette anni dopo di
lui, con il quale però le relazioni sono pessime». In altre parole,
Andrea Doria non avrà eredi alla sua altezza. E tutto il patrimonio
politico che avrà accumulato, dopo la sua morte andrà gradualmente
dissolvendosi.
Un ultimo dettaglio: Oneglia, la città dove è nato, resterà nel suo
cuore finché vivrà. Il 20 giugno 1538, il principe vi condurrà Carlo V e
il papa Paolo III in viaggio da Nizza a Genova. Promuoverà
l’istituzione di una gabella «perché vi siano sempre un medico e un
maestro di scuola». Nel 1576, sedici anni dopo la sua scomparsa, Oneglia
sarà venduta ai Savoia. Segno che l’«eccezione doriana» sparirà con
l’uomo che l’aveva impersonata. E i patti torneranno ad essere violati,
traditi, ribaltati come da tradizione.
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