martedì 23 giugno 2015

Bisogna saper perdere: una storia della formalizzazione del conflitto

Copertina L'arte della resaHolger Afflerbach: L’arte della resa. Storia della capitolazione, il Mulino

Risvolto
«Quando ti avvicinerai a una città per attaccarla, le offrirai prima la pace. Se accetta la pace, e ti apre le sue porte, tutto il popolo che vi si troverà ti sarà tributario e ti servirà. Ma se non vuol far pace con te e vorrà la guerra, allora l’assedierai. Quando il Signore tuo Dio l’avrà data nelle tue mani, ne colpirai a fil di spada tutti i maschi; ma le donne, i bambini, il bestiame e quanto sarà nella città, tutto il suo bottino, li prenderai come tua preda; mangerai il bottino dei tuoi nemici, che il Signore tuo Dio ti avrà dato»
Deuteronomio 20, 10-14
Quando le madri spartane salutavano i figli che partivano per la guerra li ammonivano di tornare o con lo scudo o sopra lo scudo: o vittoriosi o morti. Arrendersi era considerato disonorevole. Come si poteva concepire di perdere una guerra o una battaglia e sopravvivere? L’«arte della resa» si è tuttavia evoluta nel corso della storia, dall’età della pietra, allorché i conflitti terminavano con la strage dei vinti, a oggi seguendo il progressivo affermarsi di una regolamentazione della vittoria e della sconfitta che ha gradatamente civilizzato la guerra, soprattutto con la Rivoluzione francese e poi con lo sviluppo di una cultura umanitaria dopo il 1945. Nei modi di vincere e di perdere si rispecchia insomma il processo di civilizzazione della nostra società.
Holger Afflerbach insegna Storia dell’Europa centrale nell’Università di Leeds. Tra i suoi libri: «Das entfesselte Meer. Die Geschichte des Atlantik» (2003) e «How Fighting Ends. A History of Surrender» (curato con H. Strachan, 2012).



I vantaggi della resa

In epoca preistorica gli sconfitti venivano sterminati. Nell’antichità la guerra era una condizione normale Un libro di Holger Afflerbach spiega perché oggi la violenza è diminuita e sono aumentati i periodi di pace Se si accetta che il vinto ceda le armi I conflitti diventano meno sanguinosi

di Paolo Mieli Corriere 22.6.15

L’ importante in guerra è sapersi arrendere. E saperlo fare nei tempi e nei modi giusti. Un uso sapiente della capitolazione può portare persino ad ottenere vantaggi più consistenti di quelli che si sarebbero raggiunti con una vittoria. Ci sono voluti oltre tremila anni per comprendere questa fondamentale lezione. Nella preistoria si viveva in una situazione di «guerra totale», di fatto gli scontri non si concludevano mai ed erano una costante nella vita delle popolazioni. Questo produceva una quantità di vittime enorme: secondo Lawrence Keeley — che ha studiato i conflitti prima della civilizzazione — in quel periodo storico le guerre avrebbero ucciso una quantità di individui che, se rapportata al XX secolo, sarebbe stata di due miliardi. È la capacità di arrendersi che ha cambiato, in meglio, le cose; se abbiamo conosciuto pause di pace sempre più durature lo dobbiamo all’accettazione, da parte dei combattenti, del principio di resa.
È questa la suggestiva tesi di Holger Afflerbach in L’arte della resa. Storia della capitolazione di imminente pubblicazione per il Mulino. C’è una differenza, sostiene l’autore, tra la preistoria, fatta di massacri a scopo di saccheggio («dove l’avversario veniva colto alle spalle, ucciso e poi razziato»), e il mondo antico, in cui le guerre restavano sì brutali e continuavano ad attenersi ai principi del «vae victis» e del «vincere o morire», ma avevano un inizio e una fine (anche se dopo questa fine ne scoppiava quasi subito un’altra). Come mai? Di fatto, la maniera in cui si concludeva il conflitto era strettamente connessa al tipo di organizzazione sociale delle parti coinvolte: le società preistoriche, che non erano in grado di servirsi dei prigionieri di guerra, evitavano di catturarne e, dunque, si uccidevano quanti più nemici possibile, anche per evitare di ritrovarseli sul campo nelle guerre successive.
Tutto cambiò con l’invenzione della schiavitù. Paradossalmente sarà la schiavitù a introdurre le prime forme di civiltà. Nel Vecchio Testamento (Libro di Mosè) è scritto: «Quando ti avvicinerai ad una città per attaccarla, le offrirai prima la pace. Se accetta la pace, e ti apre le sue porte, tutto il popolo che vi si troverà ti sarà tributario e ti servirà. Ma se non vuol far pace con te e vorrà la guerra, allora l’assedierai. Quando il Signore tuo Dio l’avrà data nelle tue mani, ne colpirai a fil di spada tutti i maschi; ma le donne, i bambini, il bestiame e quanto sarà nella città, tutto il suo bottino, li prenderai come tua preda». Bene: la prospettiva di conquistare questa preda indurrà i vincitori a por fine al conflitto, ad accettare che i nemici si dichiarassero battuti e a non infierire sui vinti.
Per quel che riguarda gli antichi Egizi, la studiosa Jacqueline De Romilly ha notato come la guerra non fosse «soltanto una prassi usuale ma una condizione normale, laddove la pace e la tregua non erano invece altro che una momentanea sospensione dei combattimenti». È significativo che gli antichi Egizi non disponessero di un vocabolo specifico per esprimere la «pace»; quel termine «venne introdotto solo successivamente, mutuato dai semiti, quando si rese necessario pianificare le relazioni con gli altri popoli». E qual era il destino per i vinti? La tavoletta di Narmer (circa 3000 a.C.) ritrae il primo faraone di fronte a una sfilza di corpi nemici decapitati. Gli egittologi ritengono che si trattasse di uno strumento della «propaganda faraonica». Ma, osserva Afflerbach, «anche fosse così, la figurazione mostra in maniera evidente ciò che la società si attendeva dal proprio capo; il vinto, dal canto suo, si aspettava di essere trucidato, o quantomeno fatto schiavo». Presto il rapporto tra uomini uccisi e prigionieri fatti schiavi fu di uno a quattro. Al termine della battaglia di Megiddo (609 a.C.), che oppose le armate egizie del faraone Thutmose III a quelle del regno di Giuda guidate dal re Giosia (capo di una coalizione di 330 principi cananei) vennero catturati 340 prigionieri e le mani tagliate (per contare i morti) furono 83. Gli scontri, scrive Afflerbach, «terminavano prima che tutti gli sconfitti venissero uccisi, poiché, per un verso, uno degli obiettivi del vincitore era quello di procurarsi degli schiavi e, per l’altro, il vinto sperava oltre ogni cosa di rimanere in vita, pur sapendo che il futuro che gli si prospettava non sarebbe stato dei più rosei».
A quei tempi la sorte dei perdenti era affidata al caso. Al termine di uno scontro con gli Ateniesi guidati da Ificrate (388 a.C.), lo spartano Anassibio, vedendosi sopraffatto, così si rivolse ai suoi: «Uomini, il mio onore chiede che io muoia nella mia posizione, ma voi dovete mettervi al sicuro prima che il nemico vi raggiunga». In altre parole offriva la propria vita per dare ai suoi soldati il tempo di mettersi in salvo. Il modello del capo sconfitto che decide di suicidarsi restò anche nella Roma antica. Si tolsero la vita Bruto e Cassio al termine della battaglia di Filippi e Varo sconfitto a Teutoburgo. Ma i più presero a fuggire. Come il console Terenzio Varrone (dopo la spettacolare sconfitta di Canne) il quale, come scrisse Theodor Mommsen, «ebbe l’animo di sopravvivere». Crasso — che avrebbe voluto ritirarsi dopo essere stato battuto dai Parti a Carre — fu obbligato dai soldati a trattare con i vincitori (che, però, uccisero Crasso e massacrarono i suoi). L’unica forma accettata di capitolazione era la deditio , una sorta di resa incondizionata. Talvolta sconfessata da Roma, come nel caso del generale Caio Ostilio Mancino che, accerchiato nel 137 a.C. dai Numantini, siglò un accordo con i nemici (accordo che, però, il Senato romano dichiarò non valido)
Ma, tornando alla guerra del Peloponneso, capitava talvolta anche nel mondo antico che qualcuno si arrendesse, come gli spartani dopo la sconfitta dell’isola di Sfacteria (425 a.C.). Commentò Tucidide: «Nulla di ciò che accadde in quella guerra sorprese i Greci quanto quella decisione» (sorpresa che, in ogni caso, li indusse ad essere assai miti con i vinti). In un’altra occasione, quella dell’assedio di Caulonia da parte di Dionisio, il tiranno di Siracusa decise addirittura di rimettere in libertà diecimila prigionieri. Cominciò in quei secoli ad accadere qualcosa di strano. «Il vinto che dichiarava la resa e che pertanto non si conformava all’ideale dell’eroe che non teme la morte», scrive Afflerbach, non venne più «stigmatizzato ed emarginato dalla società per il resto della sua vita». Le fonti offrono innumerevoli esempi di questo venir meno della stigmatizzazione e «curiosamente esse si riferiscono proprio a quelle società, ivi comprese Sparta e Roma, in cui il codice d’onore dei soldati veniva recepito nella forma più estrema».
Ma, in buona sostanza, nella realtà greca e in quella romana per i vinti, come esito del conflitto, continuò a non esistere altro destino che la morte o la schiavitù. Fu nel Medioevo che iniziò a «delinearsi una nuova regolamentazione della vittoria e della sconfitta, ancorché limitata al rango superiore dei guerrieri nobili». Una nuova regolamentazione «che garantiva al vincitore un beneficio economico e al vinto di uscirne sano e salvo». Stiamo parlando delle regole che valevano per i cavalieri: per loro la capitolazione e persino la fuga divennero opzioni accettabili. Le battaglie cavalleresche a questo punto comportavano un numero sempre più esiguo di vittime. Alla battaglia di Brémule (1119) presero parte 900 cavalieri e ne morirono soltanto tre. Nella battaglia di Bouvines i francesi (vittoriosi) persero solo due dei loro 3.000 cavalieri e i tedeschi, che ne avevano impegnati 1.500, ne lasciarono sul campo tra i 70 e i 100. Nella battaglia di Lincoln (1217) furono appena tre i cavalieri uccisi e i prigionieri furono 400. Ciò spiega perché lo storico Clifford Rogers ha affermato che le guerre delle élite feudali dei secoli XII e XIII funzionavano «più come uno sport che come una faccenda seria».
La tendenza dei cavalieri a fuggire di fronte al pericolo di morte divenne nota al punto che, nel 1351, durante la guerra dei Cent’anni, il re Giovanni II di Francia fondò l’Ordre de l’étoile, i cui adepti dovevano giurare che in battaglia non sarebbero indietreggiati mai più di 4 arpenti (circa 234 metri). È nel Medioevo che si introietta il principio detto della «mano invisibile della guerra». Si comprende cioè che «gli eccessi e il mancato rispetto delle regole non portano nessun vantaggio alle parti contendenti» e che l’introduzione di norme, limitazioni e regolamentazioni produrrà una serie incalcolabile di miglioramenti. Ma tutto ciò non avviene da un momento all’altro.
Nella Chanson de Roland (fine dell’XI secolo) ancora si esalta il martirio del paladino Rolando a Roncisvalle. Solo a partire dal XII secolo, scrive Afflerbach, «prenderà piede una concezione assai meno rigida della capitolazione». L’invasione della Gran Bretagna da parte dei Normanni (1066) è considerata uno dei momenti che hanno segnato l’inizio di una nuova era, quella dei cavalieri, «che avrebbe introdotto una nuova etica nella pratica della guerra». Il terzo Concilio lateranense (1179) proibisce di ridurre in cristiani in schiavitù e segna un’altra svolta.
Fu in quel contesto che «presero a delinearsi linee di condotta che di fatto arginavano la condizione di completa anarchia che regnava in battaglia, dove i più forti godevano sostanzialmente di una libertà illimitata». Tra queste nuove linee di condotta vanno segnalate «la pratica di risparmiare i non combattenti», di riservare ai prigionieri un trattamento «conforme ai principi cavallereschi» e di sospendere la battaglia durante le festività religiose. Contemporaneamente però, all’epoca delle Crociate, parve che si tornasse indietro di qualche secolo. Al momento dell’occupazione di Antiochia (1098) i crociati uccisero 10 mila abitanti della città; alla conquista di Gerusalemme (1099) ne fecero fuori decine di migliaia. L’esercito di Federico Barbarossa, durante l’avanzata sui Balcani, impiccò i partigiani bulgari «senza nessun riguardo». Riccardo Cuor di Leone, nello scompiglio seguito alla sconfitta di Hattin, fece uccidere 2.000 prigionieri; Saladino rispose mandando a morte tutti i cristiani che aveva catturato. A segnare una svolta fu la riconquista di Gerusalemme da parte di Saladino (1187), che negoziò la capitolazione dei cristiani, rilasciò i prigionieri dietro il pagamento di un riscatto e liberò donne e bambini senza alcun compenso.
Da allora si cominciò a distinguere sempre più nettamente tra i conflitti combattuti con le usanze dei cavalieri e le «guerre brute» come quelle sostenute dalle «guardie svizzere», famigerate «per le qualità militari e per la loro inesorabile spietatezza». Le truppe mercenarie continuarono per secoli a guadagnarsi una fama sinistra per i loro comportamenti selvaggi. Il Sacco di Roma (1527), quelli di Anversa (1576) e di Maastricht (1579) produssero orrori che restarono per secoli impressi nella memoria delle città, che pure si sarebbero volentieri arrese. Così come, al tempo della guerra dei Trent’anni, capitò a Magdeburgo (1631). All’indomani della cui devastazione, il generale imperiale Gottfried Heinrich Pappenheim disse: «Ritengo che le vittime siano state più di 20 mila. È certo che dalla distruzione di Gerusalemme non si sia vista un’operazione più raccapricciante e una più atroce punizione divina. Tutti i nostri soldati si sono arricchiti. Che Dio sia con noi». Ma la sensazione reale era che Dio non fosse più dalla parte di quei vincitori che non sapevano accettare la resa dei vinti. E fu appunto con la guerra dei Trent’anni, nella prima metà del Seicento, che le cose cambiarono e l’«arte della resa» cominciò a introdursi nella storia.
Nell’età moderna le regole, che fino ad allora avevano riguardato soltanto i cavalieri, vennero estese a tutti gli eserciti. La Rivoluzione francese «codificò i progressi compiuti e introdusse importanti misure tese a preservare il vinto di fronte alle azioni arbitrarie del vincitore». Durante le due guerre mondiali «queste norme, perfezionate dal punto di vista giuridico, si combinarono malamente con un poderoso spirito di sacrificio che condusse, nel corso della Seconda e nei diversi Paesi coinvolti, ad atteggiamenti assai divergenti nei confronti della sconfitta». E questo potrebbe indurci a credere che Afflerbach abbia torto quando sostiene che, in virtù di un sapiente uso dell’«arte della resa», l’umanità ha conosciuto grandi progressi. Se la Seconda guerra mondiale ha registrato il peggiore massacro di tutti i tempi, potremmo forse sostenere che le cose sono andate, addirittura, peggiorando.
Invece i già citati studi di Keeley e quelli ancora più accurati di Steven Pinker hanno dimostrato come — alla luce delle proporzioni tra il numero delle vittime e la dimensione delle popolazioni coinvolte — si possa affermare che anche il XX secolo ha registrato un «miglioramento», «ancorché tortuoso e gravato da pesanti ricadute», delle condizioni belliche. Un «miglioramento che si manifesta con chiarezza proprio nell’interazione tra vincitori e vinti». Ed è per questo, non soltanto a causa degli orrori del conflitto, che dopo il 1945 si assisterà ad una progressiva intensificazione dei vincoli a cui è soggetto il vincitore — vincoli talvolta autoimposti — dovuti, non da ultimo, «al controllo sociale e a un generale cambiamento di mentalità». E l’«arte della resa» sarà valutata come più importante di quella del combattimento. 

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