mercoledì 24 giugno 2015

Che gender di sinistra?


Che la sinistra - che pure sulle questioni di genere e sulla sessualità ha maturato una riflessione ultradecennale nella quale sono presenti posizioni anche molto diverse e difficilmente confondibili - si sia impastoiata con le proprie gambe in una polemica su una fantomatica "ideologia gender", scatenata in ambienti culturali precisi in un momento preciso con finalità politiche precise, è già di per sé indice di grave subalternità culturale e di irresistibile coazione a seguire la linea altrui pur di dimostrare di esistere ancora.

Anche con le migliori intenzioni, il solo fatto di prendere posizione accettando questi termini del discorso è un errore, a prescindere dalle tesi che vengono difese.
Che poi però qualcuno pretenda addirittura di richiamarsi a Marx e all'analisi marxiana del modo di produzione per schierarsi contro un presunto piano segreto di omogeneizzazione sessuale, con l'argomento che questo piano sarebbe coerente con un ammodernamento dei rapporti sociali capitalistici (nel senso di un rafforzamento delle tendenze consumeristiche tramite costruzione di forme di identità ibride artificiali) è grottesco. Sulla base di questo modo di ragionare, avremmo dovuto difendere l'istituto della schiavitù o della servitù della gleba contro la congiura del lavoro salariato, perché l'emergere di questa nuova forma di lavoro, con la scusa di emancipare il servo, consentiva in realtà il decollo del modo di produzione capitalistico segnando il tramonto di quel mondo di intensa felicità che era il medioevo...

A parte la bizzarria anti-materialista di una concezione mitologica della storia, non c'è nulla di più lontano da Marx di questo Marx immaginario e comunitarista, difensore di un ordine "più autentico". Se c'è una cosa incontestabile in lui è invece proprio il suo modernismo radicale.

E' chiaro che anche la polemica di questi giorni è una conseguenza ideologica volgarizzata dell'onda lunga dell'emancipazione femminile, un mutamento che ha alterato subordinazioni secolari e ha messo in discussione forme di identità consolidate. Ma questo processo è a sua volta il risultato di trasformazioni nella divisione del lavoro e nei rapporti di produzione che sono avvenute da tempo, e che inevitabilmente comportano anche imponenti trasformazioni sociali.

Ovviamente, non viene prodotto qui nessun soggetto "rivoluzionario", come pure molti entusiasti a sinistra credono, e dunque l'apologia dell'ibridazione - se mai questa cosa esistesse - è stupida quanto la sua demonizzazione. E però, non solo le trasformazioni in atto sono prevalentemente progressive, in quanto in esse è comunque realizzato un processo di astrattizzazione e de-naturalizzazione nel quale è implicita la costruzione dell'unità del genere: soprattutto, esse non possono essere negate nella loro realtà per il fatto che a qualcuno non piacciono. E Marx è l'ultimo degli autori ai quali ci si può richiamare per celebrare il feudo o il paesello contro lo sviluppo delle forze produttive moderne e delle forme di soggettività concomitanti.


La sacrosanta critica del postmodernismo, per non rovesciarsi in nostalgia reazionaria, deve ricordare che la storia c'è sempre e non solo quando fa comodo a noi. E che la vera sfida - e oltretutto non potrebbe essere diversamente - è quella di costruire nuove identità e nuove strutture organizzative di socialità, non restaurare quelle defunte.

Ciò che va restaurato è semmai un equilibrio favorevole nei rapporti di forza, non forme determinate di un equilibrio passato che non tornerà mai più.
Quelli ai quali queste mie parole piacciono ricordino, invece, che è la stessa chiesa cattolica che molti di loro hanno osannato due giorni fa, dopo l'enciclica di Bergoglio, a guidare la campagna "anti-gender". E che la chiesa in entrambi i casi lo fa con assoluta coerenza, facendo discendere il proprio ragionamento da alcune premesse dogmatiche fondamentali.

Il problema non è la chiesa, che non potrebbe dire nulla di diverso da ciò che dice: il problema siamo noi e la nostra nullità politico-culturale [SGA].

Gender & neuroscienze: la differenza esisteAlberto Oliverio Avvenire 24 giugno 2015

Il Family Day di Francesco
di Adriano Prosperi Repubblica 24.6.15
CHI SONO io per giudicare?». Così aveva detto papa Francesco; la seconda frase che ha dolcemente sfumato la dottrina dell’infallibilità papale.
LA PRIMA era stata quella, indimenticabile, di papa Wojtyla: «Se mi sbaglio mi corrigerete». La frase di Bergoglio fu pronunziata nel corso di una celebre intervista, sull’ aereo di ritorno da Rio de Janeiro. Le domande dei giornalisti riguardarono allora la pastorale per i divorziati e la cosiddetta lobby gay in Vaticano. All’indomani del Family day, su questi temi leggiamo dei documenti che dicono intanto una cosa: qualcuno deve pur giudicare. Dunque papa Francesco intende dare delle risposte. Le ha preparate tastando il polso della Chiesa: dopo otto mesi di confronto nelle diocesi, ecco pronto un documento di lavoro elaborato dal sinodo straordinario dell’ottobre 2014 e destinato al tavolo del sinodo ordinario previsto in Vaticano dal 4 al 25 ottobre. Oggi questo documento è sotto gli occhi di tutti. Ed è evidente che questa circolazione allargata è stata concepita come il secondo tempo della consultazione: un modo per valutare le reazioni e le opinioni del mondo . Una Chiesa che ascolta il mondo, dunque. E che nello stesso tempo gli suggerisce una propria ipotesi di lavoro su terreni difficili e controversi. Viene in mente un consiglio di Sant’Ignazio ai suoi seguaci: lui diceva che bisognava «entrare con la loro e uscire con la nostra». Un suggerimento fondamentale: adeguarsi a culture e contesti anche remotissimi dal cristianesimo europeo per radicarvisi.
Ma vediamo questo documento. Sui sacramenti ai divorziati sembra che si apra un percorso non impervio, di tipo penitenziale, capace di portare alla “integrazione” di queste persone nella Chiesa: e non si trascuri l’offerta di rendere agevoli le procedure dei tribunali ecclesiastici per i casi di nullità matrimoniale. La lunga storia della Chiesa è lì per insegnare come, una volta fatto entrare il matrimonio tra i sacramenti, si sono trovate le soluzioni ai problemi posti dalla natura labile dei legami coniugali: dalla poligamia delle culture non europee ai problemi di alleanze matrimoniali dei regnanti europei. Ma sarà possibile che le coppie del secondo o terzo matrimonio accettino di vivere in castità per potersi sentire “nella” Chiesa? Vedremo, anzi vedranno loro. Una cosa è certa: il metodo della “via penitenziale” alla riconciliazione spazza via i pronunciamenti dottrinali tipo “prendere o lasciare” e apre la strada all’incontro privato e sommesso di persone portatrici di problemi concreti con un paziente confessore - un metodo che rappresentò la proposta fondamentale dei gesuiti nell’Europa lacerata dalle guerre di religione della prima età moderna. La vera difficoltà sembra invece risiedere nella questione delle coppie omosessuali. Qui il lettore italiano è obbligato a scrutare con particolare inquietudine quel che si prepara nella vasta fucina di idee e di norme dove è stato elaborato questo documento. Noi, qui, non siamo negli Usa e nemmeno in Irlanda. E abbiamo capito, senza bisogno della rumorosa manifestazione romana recente, quanta confusione e quanta tensione alberghi in tanta parte del Paese, spinta dalla paura dell’ignoto a tapparsi occhi e orecchie davanti alla realtà del nostro tempo per chiudersi nelle sue più arcaiche certezze. Il documento che leggiamo, tra molte frasi fraterne e misericordiose sui problemi delle famiglie, conferma che l’unico matrimonio concepibile per la Chiesa è quello tra uomo e donna, «aperto alla procrezione » come ha commentato il teologo Bruno Forte. Ma riconosce anche che «vi sono casi in cui il mutuo sostegno fino al sacrificio costituisce un appoggio prezioso per la vita dei partner». Basta questo per capire che la chiesa di papa Francesco non desidera capeggiare battaglie di religione su questa materia. E viene naturale chiedersi: questo mutuo sostegno non potrebbe essere riconosciuto dalla legge di uno Stato che pensi a tutti i cittadini senza paraocchi confessionali e gli conferisca il riconoscimento legale di un legame coniugale a tutti gli effetti? E uno Stato cavourrianamente libero non potrebbe fare la sua parte nel compito che una libera Chiesa propone a se stessa, quello di garantire formalmente il principio del rispetto dovuto a ogni persona? Un principio fondamentale, che apre un orizzonte respirabile: «Ogni persona, indipendentemente dalla propria tendenza sessuale, va rispettata nella sua dignità e accolta con sensibilità, sia nella Chiesa sia nella società». Parole sante, si vorrebbe dire. Anche parole laiche. Non dice forse la costituzione italiana all’articolo 3 che «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale, senza distinzione di sesso etc., » e che il compito della Repubblica è quello di rimuovere gli ostacoli che «impediscono il pieno sviluppo della persona umana»? 

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