venerdì 26 giugno 2015

Espulsioni di Saskia Sassen


Risultati immagini per sassen espulsioniSaskia Sassen: Espulsioni. Brutalità e complessità nell'economia globale, il Mulino

Risvolto
Quando parliamo di disuguaglianza e povertà rischiamo di ragionare in termini "vecchi", appartenenti alla logica di inclusione che governava sia i paesi comunisti, sia quelli capitalisti dopo le devastazioni della Seconda guerra mondiale; termini che non colgono la frattura storica oggi sotto i nostri occhi. "Espulsioni" denota meglio quel processo dell'economia politica globale che spinge "forzosamente" lavoratori, piccole e medie imprese, agricoltori al di là dei confini del sistema, rendendoli invisibili e consegnandoci indicatori economici più favorevoli ma svianti. Ogni misura di austerità ridefinisce e riduce lo spazio economico, e i programmi di risanamento del debito altro non sarebbero - argomenta il libro - che "meccanismi disciplinari" finalizzati non a massimizzare l'occupazione e la produzione, ma a sostenere e rafforzare la nuova economia, quella delle "formazioni predatorie". 

“Questo è un esodo senza precedenti usare le espulsioni non risolve nulla”Saskia Sassen. La sociologa americana non ha dubbi: “In passato ci sono state fasi di grandi migrazioni ma mai così. Per troppo tempo la Sinistra ha sottovalutato il problema”
di Giulio Azzolini Repubblica 26.6.15
Oggi le coste italiane sono diventate il teatro di un evento profondamente diverso rispetto al passato. E basta volgere lo sguardo oltre il bacino del Mediterraneo per capirlo. Siamo di fronte a un grande esodo, che riguarda quasi tutto il pianeta». Saskia Sassen, economista e sociologa della Columbia University, tra i massimi esperti in tema di globalizzazione, non ha dubbi: «La storia ha già conosciuto fasi di grandi migrazioni, ma mai su questa scala, nello stesso periodo e con una tale rapidità».
Professoressa Sassen, come si spiega la fatica dell’Unione Europea per elaborare un piano condiviso?
«Negli ultimi decenni i Paesi europei — ma lo stesso vale per gli Stati Uniti — hanno seguito una sola strategia: accogliere i migranti, più o meno legali, finché hanno avuto bisogno di lavoratori a basso costo. Perché servivano a risolvere un problema interno all’economia occidentale. Ma non si sono preoccupati né dei governi dei Paesi da cui i migranti oggi scappano, né di programmare una politica migratoria sostenibile ed efficace».
Verso quale soluzione si dovrebbe quindi lavorare oggi?
«È difficile dirlo, perché la situazione sembra ormai sfuggita di mano, al punto che l’Alto commissariato per i rifugiati non sa nemmeno come chiamare le regioni d’origine dei 60 milioni di persone in fuga. Da “terre caotiche”, dice l’ultimo rapporto dell’Onu, visto che in molti casi — Libia inclusa — è impossibile stabilire quale sia il governo legittimo. Io di una cosa sono certa: non bisogna rinunciare a cercare interlocutori credibili in Africa. Senza di loro una politica migratoria resta impraticabile».
L’Europa, invece, si chiude. La Francia respinge i profughi a Ventimiglia, l’Ungheria innalza un muro sul confine con la Serbia. E si fatica a trovare un accordo comune per fronteggiare l’emergenza.
«Repressioni e misure di controllo sono soluzioni temporanee: forse possono tamponare provvisoriamente il flusso dei migranti, ma non incidono sulle ragioni delle migrazioni».
Il progetto di un’Europa unita e solidale rischia di naufragare?
«Spero che l’Unione Europea continui a rafforzarsi, ma penso che possa farcela solo a patto di diventare più democratica e meno neo-liberista. Perché l’accoglienza è più difficile quando la ricchezza si concentra nelle mani di pochi e anche la classe media viene piano piano espulsa da case e da zone decorose».
Da anni ormai l’estrema destra europea usa la leva della xenofobia.
Crede che l’Italia e la Francia si consegneranno presto a Matteo Salvini e a Marine Le Pen?
«L’Europa sarebbe la regione meglio posizionata per opporre alla logica dell’esclusione la cultura dell’inclusione, ma è anche vero che molti elementi lasciano presagire ben altro. Basta pensare alle recenti elezioni in Danimarca (il Partito del popolo danese ha ottenuto il 21,1% dei voti, diventando il secondo partito in Parlamento, ndr ). In un paese che pure è per molti versi illuminato e ragionevole... ».
E la sinistra? Ritiene che debba rimproverarsi di non aver capito l’importanza del problema migratorio per le fasce più deboli della popolazione?
«Stabilire di chi siano le colpe non porta da nessuna parte e non aiuta a trovare soluzioni. Ma penso che la sinistra paghi una certa noncuranza, l’incapacità di mettere a fuoco il problema e riconoscere le caratteristiche più sottili delle migrazioni. C’è stato un atteggiamento di semplicistico laissez faire . E nessuno ha saputo mettere minimamente in luce i nessi tra le guerre fuori dall’Occidente e tutte le tipologie di espulsione perpetrate nell’Occidente stesso».

Il suo ultimo libro, invece, si intitola per l’appunto Espulsioni (a settembre per il Mulino). Oggi le farà un certo effetto osservare come ciò che ogni Paese europeo chiede è esattamente “espellere” gli immigrati irregolari… «Sì, proprio così. Ma il paradosso è che la maggioranza dei migranti che stanno approdando in Europa vive già in una condizione di espulsione. Direi anzi che gli sbarchi di queste settimane sono probabilmente il primo segnale di un futuro nel quale sempre più persone saranno costrette a muoversi, proprio perché espulse dall’economia globale. E quando il proprio territorio è devastato dalla guerra, ma anche da desertificazioni, inondazioni, espropriazioni terriere, non si aspira ad altro che alla mera sopravvivenza. Non si fugge in cerca di una vita migliore, ma soltanto per conservare la propria vita».Saskia Sassen e i predatori del sistema 


Intervista. Parla l’economista e sociologa autrice di molti saggi sulla globalizzazione, in Italia per partecipare domani a un incontro del meeting torinese «Biennale Democrazia»Benedetto Vecchi il Manifesto 27.3.2015, 0:01 
La con­ver­sa­zione è ini­ziata lad­dove era stata inter­rotta alcuni anni fa. Anche allora la crisi domi­nava la scena. Ma Occupy Wall Street era molto più che una debole spe­ranza, men­tre gli indi­gna­dos sem­bra­vano inar­re­sta­bili. Per Saskia Sas­sen erano segnali di una pos­si­bile inver­sione di ten­denza rispetto alle poli­ti­che eco­no­mi­che e sociali di matrice neo­li­be­ri­sta. E Barack Obama negli Stati Uniti, dove vive e inse­gna, sem­brava ancora capace di sfug­gire alle grin­fie della destra popu­li­sta. Ad anni di distanza, Saskia Sas­sen non ha per­duto l’ottimismo della ragione che ha carat­te­riz­zato molti suoi libri, ma è però con­sa­pe­vole che alcune ten­denze indi­vi­duate sono dive­nute realtà corrente. 
Nota per il libro sulle Città glo­bali (Utet), ma anche per le sue ana­lisi sulla glo­ba­liz­za­zione, cul­mi­nate nel volume Ter­ri­to­rio, auto­rità e diritti (Bruno Mon­da­dori), dove Saskia Sas­sen non si limita a foto­gra­fare la glo­ba­liz­za­zione, ma ne ana­lizza la genesi, le tra­sfor­ma­zioni indotte nel sistema poli­tico nazio­nale e la for­ma­zione di cen­tri deci­sio­nali poli­tici sovra­na­zio­nali, messi al riparo dalla pos­si­bi­lità di con­trollo dei «gover­nati», da poco ha pub­bli­cato un nuovo volume (Expul­sions, Bel­k­nap Press; in Ita­lia sarà pub­bli­cato dall’editore il Mulino). La con­ver­sa­zione pre­cede la sua par­te­ci­pa­zione alla Bien­nale Demo­cra­zia di Torino, dove par­te­ci­perà domani a una tavola rotonda con Dona­tella Della Porta e Colin Crouch. 
Crisi è un ter­mine che ritorna osses­si­va­mente nell’agenda poli­tica glo­bale e nelle ana­lisi sullo stato dell’arte dell’economia glo­bale. In entrambi i casi è usata per sot­to­li­neare il fatto che il capi­ta­li­smo è entrato da ormai otto anni in un tun­nel del quale non si vede la fine. Nel suo nuovo libro «Expul­sions» lei scrive che gli effetti col­la­te­rali della forma spe­ci­fica di capi­ta­li­smo qua­li­fi­cata come neo­li­be­ri­sta si basano sull’esclusione e le disu­gua­glianze sociali. Può spie­gare que­sto punto di vista? 
Per me crisi è un ter­mine ina­de­guato. Parto dalla con­sta­ta­zione che, nel pre­sente, ci sono più tipo­lo­gie di crisi. D’altronde è cosa abba­stanza acqui­sita dalle scienze sociali che l’attuale sistema glo­bale sia un sistema com­plesso, ma non sta­tico. Anzi pre­senta una certa dina­mi­cità e alcune poten­zia­lità di svi­luppo impen­sa­bili fino a quando si evi­den­ziano nella loro capa­cità tra­sfor­ma­tiva della realtà. In altri set­tori, eco­no­mici e sociali, invece si può mani­fe­stare un loro declino o crisi. Per que­sto, l’uso della parola crisi è restrit­tivo. Più inte­res­sante, invece, è capire chi vince e chi perde social­mente in que­sta fase dello svi­luppo capitalistico. 
Nel libro al quale lei fa rife­ri­mento, Expul­sions, affronto certo il tema dell’esclusione e delle disu­gua­glianze sociali, ma non sono inte­res­sata a regi­strare il feno­meno, bensì a com­pren­dere come viene pro­dotto, quali sono le dina­mi­che eco­no­mi­che e poli­ti­che che lo pro­du­cono. L’esclusione e la disu­gua­glianza sociale sono sem­pre esi­stite. Non sono cioè delle «novità». Pos­siamo certo con­cen­trarci su come il feno­meno si sia modi­fi­cato nel tempo, defi­nire le diverse tas­so­no­mie della disu­gua­glianza. Ed è anche impor­tante che qual­cuno lo faccia.
Quel che emerge nei tempi che stiamo vivendo è, però, una realtà che pre­senta alcune signi­fi­ca­tive dif­fe­renze rispetto al pas­sato. Per que­sto sono par­tita dal fatto che per com­pren­dere quale tipo di ine­gua­glianze si stanno affer­mando occorre capire come fun­zioni il com­plesso sistema glo­bale dell’economia. Quali sono le spe­cia­liz­za­zioni pro­dut­tive che pren­dono piede e si svi­lup­pano in un ter­ri­to­rio; quali le rela­zioni che si sta­bi­li­scono all’interno del sistema. Sia ben chiaro, non sto pro­po­nendo un approc­cio siste­mico. Sem­mai, invito a guar­dare le dina­mi­che in atto nel loro dive­nire e tota­lità. Per fare que­sto, occorre par­tire dalle con­di­zioni più estreme, più dure della realtà sociale. Potrei dire che è neces­sa­rio andare alle radici dei pro­blemi, che sono esem­pli­fi­cati da chi è escluso o di chi vive con dram­ma­ti­cità le disu­gua­glianze sociali. In Expul­sions mi con­cen­tro sui mar­gini del sistema glo­bale. Mar­gine è tut­ta­via un con­cetto dif­fe­rente da quello di con­fine geo­gra­fico che qua­li­fica ancora le rela­zione tra gli Stati nazio­nali.
L’ipotesi dalla quale sono par­tita è la pro­li­fe­ra­zione dei «mar­gini di sistema» — il declino delle poli­ti­che eco­no­mi­che che hanno carat­te­riz­zato le eco­no­mie occi­den­tali nel XX secolo, il degrado ambien­tale e la cre­scita di forme com­plesse di cono­scenze che tra­dotte ope­ra­ti­va­mente pro­du­cono inter­venti di una bru­ta­lità ele­men­tare. Mi spiego meglio. Alcune cono­scenze sono state appli­cate nella pro­du­zione di alcuni mate­riali o per acce­dere ad alcune mate­rie prime. Que­sto ha com­por­tato dif­fe­renti forme di «espul­sione». In altri ter­mini, l’esclusione, la messa ai mar­gini è stata prima pen­sata logi­ca­mente e poi tra­dotta in espul­sione di popo­la­zioni, di comu­nità intere. E se que­sto è evi­dente per quanto riguarda il degrado ambien­tale, lo stesso si può dire per quanto riguarda alcune realtà indu­striali nel nord del pia­neta. Tutto ciò per dire che l’esclusione è l’esito finale di un pro­cesso logico, cogni­tivo che ha visto impe­gnati tan­tis­simi uomini e donne. È que­sto dispo­si­tivo logico, cul­tu­rale che va com­preso per affer­rare la realtà nella sua totalità. 
Nel recente pas­sato, lei ha scritto sulle forme di resi­stenza all’inuguaglianza, alla disoc­cu­pa­zione, alla esclu­sione sociale. Alcuni teo­rici hanno par­lato di cen­tra­lità delle «pra­ti­che micro­po­li­ti­che»; altri invece hanno scritto di ritorno del mutua­li­smo, rife­ren­dosi a forme di coo­pe­ra­zione sociale, di wel­fare state dal basso. Sono espe­rienze che coin­vol­gono cen­ti­naia di migliaia di per­sone che espri­mono un indub­bio potere sociale, senza avere però la capa­cità di cam­biare i rap­porti di forza nella società e di modi­fi­care le agende poli­ti­che nazio­nali e sovra­na­zio­nali. Cosa ne pensa di que­sto para­dosso: un potere sociale che non rie­sce a espri­mere un potere politico? 
Esi­ste sì il potere sociale che lei descrive, ma deve fare i conti con una realtà che vede la for­ma­zione di élite pre­da­to­rie gra­zie allo svi­luppo di una for­ma­zione sociale-economica «pre­da­to­ria». Sono élite che fanno leva sulla finanza e su alcuni stru­menti di governo della realtà per inglo­bare, con­cen­trare nelle pro­prie mani tutto ciò che può pro­durre ric­chezza e potere. Anche qui, invito a non cedere alla ten­ta­zione della sem­pli­fi­ca­zione. Le con­cen­tra­zioni della ric­chezza sono una delle costanti dell’economia capi­ta­li­stica. Potremmo anche dire dell’economia in generale. 
Nella situa­zione attuale assi­stiamo al dispie­gare di forme estreme di con­cen­tra­zione della ric­chezza. Basti pen­sare che negli ultimi 25 anni la con­cen­tra­zione della ric­chezza nelle mani dell’un per cento della popo­la­zione ha visto un balzo del 60 per cento. 
Per essere più chiara: i primi 100 miliar­dari degli Stati Uniti hanno visto i loro red­diti cre­scere di 240 miliardi di dol­lari solo nel 2012. Una cifra che, se redi­stri­buita, avrebbe posto fine alla povertà di milioni e milioni di per­sone sem­pre negli Stati Uniti. Altri dati: nel 2002, cioè pochi anni prima della data che indica l’inizio della crisi glo­bale, le ban­che ave­vano assi­stito alla cre­scita dei loro pro­fitti del 160 per cento, pas­sando da 40 miliardi a 105 miliardi di dol­lari, cioè una volta e mezza il pro­dotto interno lordo su scala pla­ne­ta­ria. Nel 2010, cioè in un periodo di crisi, i pro­fitti delle cor­po­ra­tion sta­tu­ni­tensi sono saliti di 355 milioni rispetto il 2009. A fronte di que­ste cifre da capo­giro, negli Stati Uniti le tasse sui red­diti delle imprese sono solo di 1,9 miliardi di dollari. 
I ric­chi e le imprese glo­bali non pote­vano da soli rag­giun­gere que­sto intenso tasso di con­cen­tra­zione della ric­chezza. Hanno avuto biso­gno di un «aiuto siste­mico», cioè di un milieu di inno­va­tive tec­ni­che finan­zia­rie e sup­porto gover­na­tivo. L’esito è stato appunto la for­ma­zione di una élite glo­bale che si auto­rap­pre­senta come un mondo a parte che trae forza dalle poli­ti­che eco­no­mi­che, dalle leggi sta­bi­lite a livello nazio­nale, ma anche glo­bale. Da que­sto punto di vista, i governi hanno svolto un fon­da­men­tale ruolo di inter­me­dia­zione, teso a ren­dere opaco, meglio fosco ciò che stava acca­dendo. Siamo quindi di fronte a un com­plesso dispo­si­tivo fina­liz­zato alla con­cen­tra­zione della ric­chezza. Niente a che vedere con una stanza dove è dif­fi­cile scor­gere le cose a causa del fumo dei sigari di qual­che impe­ni­tente «padrone del vapore». In pas­sato è bastato aprire una qual­che fine­stra e tutto era diven­tato chiaro. Ora non è così. 
La mia tesi è che abbiamo assi­stito a un cam­bia­mento di scala della con­cen­tra­zione della ric­chezza che ha man­dato in pezzi il mondo di qual­che decen­nio fa, dove esi­steva una classe media e una classe ope­rai sostan­zial­mente non ric­che, ma «abbienti». Pro­vo­ca­to­ria­mente potrei affer­mare che nel Nord glo­bale le società sono sem­pre più simili a quelle del Sud globale. 
L’Europa e gli Stati Uniti non erano quindi immuni da con­cen­tra­zione della ric­chezza nelle mani di pochi, disu­gua­glianze sociali, raz­zi­smo, povertà, ma tutto ciò era miti­gato dalla cre­scita costante nel tempo di una classe media. Inol­tre, erano paesi dove era forte la ten­sione a supe­rare povertà, raz­zi­smo, dif­fe­renze di classe, ma c’era una ten­sione al supe­ra­mento di que­gli ele­menti. Bene quel mondo è stato pro­gres­si­va­mente can­cel­lato dagli anni Ottanta in poi. Ora siamo in un mondo dove élite glo­bali «pre­dano» la ric­chezza senza troppe resi­stenze. Per tor­nare alla sua domanda, invito a pen­sare ad un aspetto che è fon­da­men­tale in una realtà come quella che ho sin­te­ti­ca­mente descritto. I movi­menti sociali sono fon­da­men­tali per la loro abi­lità nell’includere realtà molto diverse tra loro. Sono cioè espe­rienze che pro­du­cono una poli­tica di buon vici­nato, di soli­da­rietà, di con­di­vi­sione sociale. La forza di Syriza in Gre­cia è dovuta alla sua capa­cità di fare pro­pria l’abilità aggre­ga­tiva dei movi­menti sociali, che pun­tano a risol­vere alcuni pro­blemi vitali per i sin­goli: la casa, il man­giare, la cura del corpo. 
Certo non cam­biano l’agenda poli­tica, né i rap­porti di forza. Qui vale una domanda che non è reto­rica: come fare questo? 
Pro­vando, spe­ri­men­tando, coin­vol­gendo la popo­la­zione e anche que­gli espo­nenti poli­tici che sono con­sa­pe­voli e cri­tici verso que­sta feroce dina­mica di espul­sione e di con­cen­tra­zione della ric­chezza. Pro­vando, magari sba­gliando, ma con­ti­nuando a pro­vare. Per me, que­sto signi­fica rigore nell’analisi della realtà, resi­stere alle sirene delle sem­pli­fi­ca­zione o, altret­tanto forte, incam­mi­narsi su strade già bat­tute e che si sono rive­late come vicoli ciechi.


di Giuliano Battiston 30 luglio 2014 minimaetmoralia


Saskia Sassen e i predatori della vita perduta 
Derive continentali. Cacciati dal lavoro, dalle terre, mentre intere regioni del pianeta sono lande morte e la povertà assume dimensioni inedite. «Espulsioni», l’ultimo saggio di Saskia Sassen per il Mulino, che sarà presentato domani a Roma a Porta Futuro 
Benedetto Vecchi Manifesto 21.10.2015, 0:40 
Ambi­zione e rigore. Saskia Sas­sen ha entrambe le carat­te­ri­sti­che. Il suo rigore emerge nella mole di dati rac­colti, ela­bo­rati e assem­blati per dare rile­vanza empi­rica alle ambi­ziose tesi che pro­pone. Lo ha sem­pre fatto, in tutte le sue ricer­che che hanno scan­dito una vita acca­de­mica all’insegna di un noma­di­smo intel­let­tuale che l’ha por­tata a sog­gior­nare in molti paesi – Argen­tina, Ita­lia, Regno Unito, Stati Uniti – per com­pren­dere una ten­denza ormai dive­nuta realtà, la glo­ba­liz­za­zione. Dal suo noma­di­smo intel­let­tuale è infatti nato Glo­bal Cities (Utet), il libro che l’ha fatta cono­scere al pub­blico (e che è stato più volte aggior­nato), ma anche le altre opere sui con­flitti den­tro e con­tro la glo­ba­liz­za­zione (Glo­ba­liz­zati e scon­tenti, Il Sag­gia­tore), le migra­zioni (Migranti, coloni, rifu­giati, Fel­tri­nelli). 
È però con Ter­ri­to­rio, auto­rità, diritti (Bruno Mon­da­dori) che il puzzle sulla glo­ba­liz­za­zione è por­tato a ter­mine. L’economia mon­diale, le tra­sfor­ma­zioni della forma-stato, il rap­porto tra locale e sovra­na­zio­nale, le pos­si­bili poli­ti­che di con­te­ni­mento e oppo­si­zione al capi­ta­li­smo sono lì, spre­giu­di­ca­ta­mente messi a tema. La glo­ba­liz­za­zione non è una paren­tesi del capi­ta­li­smo, è equi­pa­ra­bile alle sue ten­denze e alla inter­na­liz­za­zione del capi­tale che, alla fine dell’Ottocento e nel primo decen­nio del Nove­cento, hanno visto dispie­garsi le poli­ti­che di potenza colo­niali e impe­ria­li­sti­che dei paesi euro­pei e degli Stati Uniti.
La glo­ba­liz­za­zione ha scosso nelle fon­da­menta sia le rela­zioni tra gli stati – il sistema mondo di Gio­vanni Arri­ghi e Imma­nuel Wal­ler­stein – che, nelle for­ma­zioni poli­ti­che di matrice libe­rale, il deli­cato equi­li­brio tra il potere giu­ri­dico, legi­sla­tivo e ese­cu­tivo, asse­gnando a quest’ultimo un ruolo pre­pon­de­rante sugli altri due. 
I padroni dell’austerità 
In que­sto tra­monto dello stato libe­rale, Saskia Sas­sen asse­gnava ai movi­menti sociali la fun­zione di argine poli­tico alla colo­niz­za­zione mer­can­tile della vita sociale. Quel che non poteva certo pre­ve­dere – il rigore la pre­serva da qual­siasi deriva pro­fe­tica — è la crisi ini­ziata nel 2007. Tutto ciò che sem­brava solido, si è dis­solto nell’aria e invo­care il ritorno dello Stato nazio­nale come trin­cea da dove com­bat­tere il neo­li­be­ri­smo è come gri­dare alla luna: alle­via il disa­gio, ma non risolve un gran­ché, come d’altronde testi­mo­niano l’esito estivo delle vicende greche. 
La messa in angolo del governo di Atene da parte dell’Unione euro­pea fa emer­gere infatti la vel­leità di chi ha pro­po­sto lo stato nazio­nale come arma poli­tica con­tro la logica neo­li­be­ri­sta dell’Unione euro­pea. Più che abban­do­nare lo spa­zio poli­tico euro­peo, il con­flitto con­tro l’austerità con­ti­nen­tale rende evi­dente che l’unico spa­zio poli­tico pra­ti­ca­bile è pro­prio quello sovranazionale. 
 Saskia Sas­sen è una attenta osser­va­trice par­te­cipe delle vicende euro­pee – passa molti mesi dell’anno in Inghil­terra, dove ha tenuto semi­nari e corsi alla Lon­don School Of Eco­no­mics — e ha visto dispie­garsi la crisi eco­no­mica che ha messo in ginoc­chio intere eco­no­mie nazio­nali (la Gre­cia, la Spa­gna, il Por­to­gallo. L’Italia, stra­na­mente, non è mai citata). Allo stesso tempo ha accu­mu­lato dati sulla cre­scita delle disu­gua­glianze sociali, sulla povertà, sul degrado ambien­tale e sulla ridu­zione di intere regioni dell’Africa in terre di rapina da parte di mul­ti­na­zio­nali e paesi emer­genti. Fatti tutti noti, ma che l’hanno con­vinta a ini­ziare un nuovo puzzle, que­sta volta sulla glo­ba­liz­za­zione dopo la crisi, una sorta di mappa sociale della «glo­ba­liz­za­zione 2.0». 
Sicu­ra­mente il volume Espul­sioni man­dato alle stampe dal Mulino (pp. 288, euro 25) è da con­si­de­rare un tas­sello di que­sto nuovo puzzle teso a ren­dere visi­bili le ten­denze siste­mi­che sot­ter­ra­nee del capi­ta­li­smo con­tem­po­ra­neo e a ren­dere visi­bili gli «espulsi». Per Sas­sen l’ultimo decen­nio ha visto dispie­garsi for­ma­zioni pre­da­to­rie glo­bali com­po­ste da imprese finan­zia­rie e da quelle impe­gnate nella pro­du­zione di merci, nell’agricoltura. Il dato più inquie­tante è che sono for­ma­zioni pre­da­to­rie che si muo­vono sot­to­trac­cia e che si sot­trag­gono allo sguardo pub­blico, cioè a quella sfera col­let­tiva che potrebbe met­tere in discus­sione la loro esi­stenza. Una delle vit­time eccel­lenti della glo­ba­liz­za­zione dopo la crisi è dun­que la demo­cra­zia, senza che que­sto coin­cida con l’abolizione di alcuni diritti civili e politici. 
Il let­tore attento rico­no­sce temi e argo­menti cari ai teo­rici del capi­ta­li­smo estrat­tivo come David Har­vey. Saskia Sas­sen sot­to­li­nea però che quello che descrive è un pro­cesso che non vede ancora un punto di equi­li­brio. Le for­ma­zioni pre­da­to­rie pro­spe­rano cioè in una con­di­zione di perenne tran­si­zione, dove il pas­sag­gio da un capi­ta­li­smo fon­dato sull’inclusione — gli anni d’oro del wel­fare state — a un capi­ta­li­smo fon­dato sulla esclu­sione, vede una geo­gra­fia sociale e poli­tica varia­bile nel tempo e nello spazio. 

Le faglie della world factory 
Un libro dun­que ambi­zioso. L’avvio non lascia molti spazi all’ambiguità. Il capi­ta­li­smo ha imboc­cato una strada dove sacri­fi­care milioni di uomini e donne e intere regioni del pia­neta alle logi­che di accu­mu­la­zione della ric­chezza. È un sistema bru­tale, fon­dato sull’espulsione e l’esclusione: dal lavoro, dalla casa, dal vil­lag­gio, men­tre cre­scono espo­nen­zial­mente le terre e acque morte per la sel­vag­gia estra­zione di mine­rali o per col­ti­va­zioni inten­sive di olio di palma o di piante desti­nante ad essere tra­sfor­mate in bio­car­bu­ranti. Milioni di uomini e donne sono così cac­ciati dal lavoro, a causa delle poli­ti­che glo­bali di outsour­cing, ren­dendo l’alta disoc­cu­pa­zione un feno­meno strut­tu­rale e per­ma­nente in Europa e negli Stati Uniti, con il con­se­guente innal­za­mento delle disu­gua­glianze e della povertà. I can­tori del libero mer­cato non pos­sono certo sal­varsi l’anima soste­nendo che nei cosid­detti paesi emer­genti cre­sca l’occupazione e una classe media desi­de­rosa di con­su­mare e di occu­pare final­mente un posto al sole dell’economia mon­diale. Que­sti sono dati tran­si­tori, per­ché il capi­ta­li­smo, nella sua erranza pla­ne­ta­ria, sa che sono paesi da usare fino a quando la ric­chezza da estrarre non sarò finita. Le faglie mani­fe­state dalla world fac­tory cinese e dalle eco­no­mie indiane, bra­si­liane e suda­fri­cane fanno intra­ve­dere che anche in quei paesi la crisi rivela la stessa bru­ta­lità avuta in Europa e Stati Uniti. Il numero dei poveri, dei senza tetto, degli espulsi cre­sce dun­que sia nel Nord che nel Sud del pianeta. 
Inte­res­santi sono anche le pagine dedi­cate al ruolo della finanza nella «glo­ba­liz­za­zione 2.0». Non senza iro­nia Saskia Sas­sen descrive come nelle imprese glo­bali finan­zia­rie chi lavora ala­cre­mente non sono bro­ker o spre­giu­di­cati finan­zieri. Que­sti sono l’ultimo anello di una catena che vede al lavoro fisici, mate­ma­tici, infor­ma­tici: tutti dediti alla ela­bo­ra­zione di algo­ritmi che fac­ciano acce­le­rare il flusso di capi­tali al fine di accu­mu­lare ric­chezze «estratte» dalla finan­zia­riz­za­zione dei biso­gni sociali: la casa, il man­giare, il lavoro, la for­ma­zione, la salute. Tutti ele­menti che favo­ri­scono l’indebitamento indi­vi­duale e delle nazioni, vista la ridu­zione delle entrate fiscali dovute a poli­ti­che indul­genti verso la tas­sa­zioni dei profitti. 
Per fron­teg­giare la crisi del 2007 dei sub­prime e quella suc­ces­siva dei cre­dit default swaps gli stati nazio­nali sono inol­tre inter­ve­nuti per sal­vare imprese troppo grandi per fal­lire. E lo hanno fatto usando il denaro che i con­tri­buenti hanno ver­sato con le tasse. Una espro­pria­zione ulte­riore di ric­chezza pro­dotta dal lavoro vivo sociale. 
Un altro ele­mento che nel libro ha un ruolo rile­vante è il land grab­bing, cioè l’acquisto di terre da parte di imprese agroa­li­men­tari o mine­ra­rie. Milioni di ettari di paesi afri­cani, dell’Indonesia, dell’Ucraina e della Rus­sia sono state acqui­state da mul­ti­na­zio­nali e stati nazio­nali – gli Emi­rati del Golfo, ma anche la Cina e la Corea del Sud – per col­ti­vare ali­menti da immet­tere nel mer­cato mon­diale. Lo stesso vale per le imprese mine­ra­rie. La bru­ta­lità di que­sto pro­cesso sta nel fatto che in Africa si sono mol­ti­pli­cate feroci guerre locali con­dotte da «eser­citi» che si can­di­dano a gestire l’ordine pub­blico in alcune nazioni e così svol­gere un ruolo nelle for­ma­zioni pre­da­to­rie che si muo­vono nel pia­neta. In altri paesi è l’esercito «uffi­ciale» che cac­cia dalle terre i con­ta­dini. Da qui l’espulsione di milioni di donne e uomini che cer­cano una via di fuga verso l’Europa e gli Stati Uniti. Ogni distin­zione tra rifu­giato eco­no­mico e poli­tico perde così di signi­fi­cato. Anche se, avverte con acume Saskia Sas­sen, i costi mag­giori degli esodi ricade nel Sud glo­bale del mondo: la mag­gio­ranza asso­luta dei rifu­giati rimane infatti nel Sud del mondo, men­tre nel Nord del pia­neta arriva solo una biblica mino­ranza di rifu­giati eco­no­mici e politici. 

Domande ine­vase 
Come inter­rom­pere que­sta discesa negli inferi è domanda alla quale Saskia Sas­sen non sa dare rispo­sta. C’è ama­rezza, disin­canto nelle pagine di que­sto libro. È un cam­bia­mento di pro­spet­tiva che l’autrice invita a fare. Non c’è nes­sun punto di resi­stenza indi­vi­duato, come invece aveva indi­cato l’autrice in altri libri. La società civile orga­niz­zata o i movi­menti sociali non com­pa­iono in que­sto sag­gio. Sono qui signi­fi­canti vuoti rispetto una logica siste­mica che non ammette punti di rot­tura. L’inversione della ten­denza non è data. All’orizzonte non c’è nes­sun potere costi­tuente che può garan­tire una fuo­riu­scita dal «capi­ta­li­smo estrat­tivo». Ma non c’è nep­pure nes­sun potere desti­tuente. La rivolta non è ammessa dalle for­ma­zioni pre­da­to­rie: se si mani­fe­sta, va repressa dura­mente. E le città glo­bali non sono nep­pure il luogo dove spe­ri­men­tare forme di demo­cra­zia diretta e di coo­pe­ra­zione sociale «alter­na­tiva», come Saskia Sas­sen ha più volte soste­nuto nel recente pas­sato. Per il momento, il pen­siero cri­tico, l’attitudine cri­tica ser­vono, secondo l’autrice, solo a ren­dere visi­bile ciò che è invisibile. 
Ma per ren­dere visi­bile l’invisibile serve un’operazione di verità. E dun­que di rivolta, pro­vando a coniu­gare il potere desti­tuente della rivolta con il potere costi­tuente che dà forma all’altro mondo pos­si­bile che l’azione di sve­la­mento ope­rata dai movi­menti con­du­cono. In fondo la poli­ti­ciz­za­zione le rela­zioni sociali è l’unica azione rea­li­stica di sve­la­mento del potere per­for­ma­tivo della vita mani­fe­stato dalle for­ma­zioni predatorie. 
Saskia Sas­sen sarà pro­ta­go­ni­sta gio­vedì dell’incontro «Per un’Europa dell’inclusione e dei diritti» alla Sala della regina a Roma (ore 15). L’incontro orga­niz­zato dalla Pre­si­dente della Camera dei Depu­tati Laura Bol­drini è solo su invito. Per chi invece è inte­res­sato a una discus­sione sulle tesi del suo ultimo libro «Espul­sioni» (Il Mulino) l’appuntamento è nella gior­nata d’apertura del Salone dell’editoria sociale che prende il via gio­vedì a Porta Futuro di Roma (Via Gal­vani, ore 17.45). 
Quest’anno il Salone dell’editoria sociale è dedi­cato al tema della «Gio­ventù bru­ciata», cioè alle nuove gene­ra­zioni che sono col­pite dalle poli­ti­che di auste­rità che negano loro il futuro. Ridotti sono i finan­zia­menti alla for­ma­zione, cre­sce in molti paesi il debito stu­den­te­sco per pagare le rette uni­ver­si­ta­rie sem­pre più alte. Minore la pos­si­bi­lità di entrare nel mer­cato del lavoro (l’esperienza della pre­ca­rietà è ormai la regola nel capi­ta­li­smo). Eppure sono sem­pre i gio­vani il «tar­get» pri­vi­le­giato per spre­giu­di­cate cam­pa­gne pub­bi­ci­ta­rie di chi vende merci spac­cian­dole per stili di vita più o meno alter­na­tivi. Il pro­gramma del Salone dell’editoria sociale (con­sul­ta­bile per intero al sito inter­net: www​.edi​to​ria​so​ciale​.info) pre­vede work­shop semi­nari e pre­sen­ta­zione di libri. Nella gior­nata di gio­vedì, oltre l’incontro con Saskia Sas­sen, sono da segna­lare la tavola rotonda «Il terzo set­tore alla deriva?» (ore 16) e «Stra­nieri per forza» (ore 16.15, sala B). Il giorno dopo, ore 16, tavola rotonda su «Wel­fare, red­dito, lavoro. Le sfide della gene­ra­zione pre­ca­ria». Alle 18 sarà invece pre­sen­tato il libro, curato da Sbi­lan­cia­moci, «Wor­kers Act». Dome­nica, invece, è la volta della pre­sen­ta­zione del volume «I Muri di Tunisi», un’analisi dei mura­les e dei graf­fiti nella capi­tale tuni­sina prima e dopo la pri­ma­vera araba. A pre­sen­tarlo Michela Bec­chis, Ceci­lia Dalla Negra, Luce Lac­qua­nita (autrice del libro) e il gra­phic jour­na­list Takoua Ben Mohamed.

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