Verso quale soluzione si dovrebbe quindi lavorare oggi?
«È
difficile dirlo, perché la situazione sembra ormai sfuggita di mano, al
punto che l’Alto commissariato per i rifugiati non sa nemmeno come
chiamare le regioni d’origine dei 60 milioni di persone in fuga. Da
“terre caotiche”, dice l’ultimo rapporto dell’Onu, visto che in molti
casi — Libia inclusa — è impossibile stabilire quale sia il governo
legittimo. Io di una cosa sono certa: non bisogna rinunciare a cercare
interlocutori credibili in Africa. Senza di loro una politica migratoria
resta impraticabile».
L’Europa, invece, si chiude. La Francia
respinge i profughi a Ventimiglia, l’Ungheria innalza un muro sul
confine con la Serbia. E si fatica a trovare un accordo comune per
fronteggiare l’emergenza.
«Repressioni e misure di controllo sono
soluzioni temporanee: forse possono tamponare provvisoriamente il flusso
dei migranti, ma non incidono sulle ragioni delle migrazioni».
Il progetto di un’Europa unita e solidale rischia di naufragare?
«Spero
che l’Unione Europea continui a rafforzarsi, ma penso che possa farcela
solo a patto di diventare più democratica e meno neo-liberista. Perché
l’accoglienza è più difficile quando la ricchezza si concentra nelle
mani di pochi e anche la classe media viene piano piano espulsa da case e
da zone decorose».
Da anni ormai l’estrema destra europea usa la leva della xenofobia.
Crede che l’Italia e la Francia si consegneranno presto a Matteo Salvini e a Marine Le Pen?
«L’Europa
sarebbe la regione meglio posizionata per opporre alla logica
dell’esclusione la cultura dell’inclusione, ma è anche vero che molti
elementi lasciano presagire ben altro. Basta pensare alle recenti
elezioni in Danimarca (il Partito del popolo danese ha ottenuto il 21,1%
dei voti, diventando il secondo partito in Parlamento, ndr ). In un
paese che pure è per molti versi illuminato e ragionevole... ».
E la
sinistra? Ritiene che debba rimproverarsi di non aver capito
l’importanza del problema migratorio per le fasce più deboli della
popolazione?
«Stabilire di chi siano le colpe non porta da nessuna
parte e non aiuta a trovare soluzioni. Ma penso che la sinistra paghi
una certa noncuranza, l’incapacità di mettere a fuoco il problema e
riconoscere le caratteristiche più sottili delle migrazioni. C’è stato
un atteggiamento di semplicistico laissez faire . E nessuno ha saputo
mettere minimamente in luce i nessi tra le guerre fuori dall’Occidente e
tutte le tipologie di espulsione perpetrate nell’Occidente stesso».
Il
suo ultimo libro, invece, si intitola per l’appunto Espulsioni (a
settembre per il Mulino). Oggi le farà un certo effetto osservare come
ciò che ogni Paese europeo chiede è esattamente “espellere” gli
immigrati irregolari… «Sì, proprio così. Ma il paradosso è che la
maggioranza dei migranti che stanno approdando in Europa vive già in una
condizione di espulsione. Direi anzi che gli sbarchi di queste
settimane sono probabilmente il primo segnale di un futuro nel quale
sempre più persone saranno costrette a muoversi, proprio perché espulse
dall’economia globale. E quando il proprio territorio è devastato dalla
guerra, ma anche da desertificazioni, inondazioni, espropriazioni
terriere, non si aspira ad altro che alla mera sopravvivenza. Non si
fugge in cerca di una vita migliore, ma soltanto per conservare la
propria vita».Saskia Sassen e i predatori del sistema
Intervista. Parla l’economista e sociologa autrice di molti saggi sulla globalizzazione, in Italia per partecipare domani a un incontro del meeting torinese «Biennale Democrazia»Benedetto Vecchi il Manifesto 27.3.2015, 0:01
La conversazione è iniziata laddove era stata interrotta alcuni anni fa. Anche allora la crisi dominava la scena. Ma Occupy Wall Street era molto più che una debole speranza, mentre gli indignados sembravano inarrestabili. Per Saskia Sassen erano segnali di una possibile inversione di tendenza rispetto alle politiche economiche e sociali di matrice neoliberista. E Barack Obama negli Stati Uniti, dove vive e insegna, sembrava ancora capace di sfuggire alle grinfie della destra populista. Ad anni di distanza, Saskia Sassen non ha perduto l’ottimismo della ragione che ha caratterizzato molti suoi libri, ma è però consapevole che alcune tendenze individuate sono divenute realtà corrente.
Nota per il libro sulle
Città globali (Utet), ma anche per le sue analisi sulla globalizzazione, culminate nel volume
Territorio, autorità e diritti (Bruno Mondadori), dove Saskia Sassen non si limita a fotografare la globalizzazione, ma ne analizza la genesi, le trasformazioni indotte nel sistema politico nazionale e la formazione di centri decisionali politici sovranazionali, messi al riparo dalla possibilità di controllo dei «governati», da poco ha pubblicato un nuovo volume (
Expulsions, Belknap Press; in Italia sarà pubblicato dall’editore il Mulino). La conversazione precede la sua partecipazione alla Biennale Democrazia di Torino, dove parteciperà domani a una tavola rotonda con Donatella Della Porta e Colin Crouch.
Crisi è un termine che ritorna ossessivamente nell’agenda politica globale e nelle analisi sullo stato dell’arte dell’economia globale. In entrambi i casi è usata per sottolineare il fatto che il capitalismo è entrato da ormai otto anni in un tunnel del quale non si vede la fine. Nel suo nuovo libro «Expulsions» lei scrive che gli effetti collaterali della forma specifica di capitalismo qualificata come neoliberista si basano sull’esclusione e le disuguaglianze sociali. Può spiegare questo punto di vista?
Per me crisi è un termine inadeguato. Parto dalla constatazione che, nel presente, ci sono più tipologie di crisi. D’altronde è cosa abbastanza acquisita dalle scienze sociali che l’attuale sistema globale sia un sistema complesso, ma non statico. Anzi presenta una certa dinamicità e alcune potenzialità di sviluppo impensabili fino a quando si evidenziano nella loro capacità trasformativa della realtà. In altri settori, economici e sociali, invece si può manifestare un loro declino o crisi. Per questo, l’uso della parola crisi è restrittivo. Più interessante, invece, è capire chi vince e chi perde socialmente in questa fase dello sviluppo capitalistico.
Nel libro al quale lei fa riferimento, Expulsions, affronto certo il tema dell’esclusione e delle disuguaglianze sociali, ma non sono interessata a registrare il fenomeno, bensì a comprendere come viene prodotto, quali sono le dinamiche economiche e politiche che lo producono. L’esclusione e la disuguaglianza sociale sono sempre esistite. Non sono cioè delle «novità». Possiamo certo concentrarci su come il fenomeno si sia modificato nel tempo, definire le diverse tassonomie della disuguaglianza. Ed è anche importante che qualcuno lo faccia.
Quel che emerge nei tempi che stiamo vivendo è, però, una realtà che presenta alcune significative differenze rispetto al passato. Per questo sono partita dal fatto che per comprendere quale tipo di ineguaglianze si stanno affermando occorre capire come funzioni il complesso sistema globale dell’economia. Quali sono le specializzazioni produttive che prendono piede e si sviluppano in un territorio; quali le relazioni che si stabiliscono all’interno del sistema. Sia ben chiaro, non sto proponendo un approccio sistemico. Semmai, invito a guardare le dinamiche in atto nel loro divenire e totalità. Per fare questo, occorre partire dalle condizioni più estreme, più dure della realtà sociale. Potrei dire che è necessario andare alle radici dei problemi, che sono esemplificati da chi è escluso o di chi vive con drammaticità le disuguaglianze sociali. In Expulsions mi concentro sui margini del sistema globale. Margine è tuttavia un concetto differente da quello di confine geografico che qualifica ancora le relazione tra gli Stati nazionali.
L’ipotesi dalla quale sono partita è la proliferazione dei «margini di sistema» — il declino delle politiche economiche che hanno caratterizzato le economie occidentali nel XX secolo, il degrado ambientale e la crescita di forme complesse di conoscenze che tradotte operativamente producono interventi di una brutalità elementare. Mi spiego meglio. Alcune conoscenze sono state applicate nella produzione di alcuni materiali o per accedere ad alcune materie prime. Questo ha comportato differenti forme di «espulsione». In altri termini, l’esclusione, la messa ai margini è stata prima pensata logicamente e poi tradotta in espulsione di popolazioni, di comunità intere. E se questo è evidente per quanto riguarda il degrado ambientale, lo stesso si può dire per quanto riguarda alcune realtà industriali nel nord del pianeta. Tutto ciò per dire che l’esclusione è l’esito finale di un processo logico, cognitivo che ha visto impegnati tantissimi uomini e donne. È questo dispositivo logico, culturale che va compreso per afferrare la realtà nella sua totalità.
Nel recente passato, lei ha scritto sulle forme di resistenza all’inuguaglianza, alla disoccupazione, alla esclusione sociale. Alcuni teorici hanno parlato di centralità delle «pratiche micropolitiche»; altri invece hanno scritto di ritorno del mutualismo, riferendosi a forme di cooperazione sociale, di welfare state dal basso. Sono esperienze che coinvolgono centinaia di migliaia di persone che esprimono un indubbio potere sociale, senza avere però la capacità di cambiare i rapporti di forza nella società e di modificare le agende politiche nazionali e sovranazionali. Cosa ne pensa di questo paradosso: un potere sociale che non riesce a esprimere un potere politico?
Esiste sì il potere sociale che lei descrive, ma deve fare i conti con una realtà che vede la formazione di élite predatorie grazie allo sviluppo di una formazione sociale-economica «predatoria». Sono élite che fanno leva sulla finanza e su alcuni strumenti di governo della realtà per inglobare, concentrare nelle proprie mani tutto ciò che può produrre ricchezza e potere. Anche qui, invito a non cedere alla tentazione della semplificazione. Le concentrazioni della ricchezza sono una delle costanti dell’economia capitalistica. Potremmo anche dire dell’economia in generale.
Nella situazione attuale assistiamo al dispiegare di forme estreme di concentrazione della ricchezza. Basti pensare che negli ultimi 25 anni la concentrazione della ricchezza nelle mani dell’un per cento della popolazione ha visto un balzo del 60 per cento.
Per essere più chiara: i primi 100 miliardari degli Stati Uniti hanno visto i loro redditi crescere di 240 miliardi di dollari solo nel 2012. Una cifra che, se redistribuita, avrebbe posto fine alla povertà di milioni e milioni di persone sempre negli Stati Uniti. Altri dati: nel 2002, cioè pochi anni prima della data che indica l’inizio della crisi globale, le banche avevano assistito alla crescita dei loro profitti del 160 per cento, passando da 40 miliardi a 105 miliardi di dollari, cioè una volta e mezza il prodotto interno lordo su scala planetaria. Nel 2010, cioè in un periodo di crisi, i profitti delle corporation statunitensi sono saliti di 355 milioni rispetto il 2009. A fronte di queste cifre da capogiro, negli Stati Uniti le tasse sui redditi delle imprese sono solo di 1,9 miliardi di dollari.
I ricchi e le imprese globali non potevano da soli raggiungere questo intenso tasso di concentrazione della ricchezza. Hanno avuto bisogno di un «aiuto sistemico», cioè di un milieu di innovative tecniche finanziarie e supporto governativo. L’esito è stato appunto la formazione di una élite globale che si autorappresenta come un mondo a parte che trae forza dalle politiche economiche, dalle leggi stabilite a livello nazionale, ma anche globale. Da questo punto di vista, i governi hanno svolto un fondamentale ruolo di intermediazione, teso a rendere opaco, meglio fosco ciò che stava accadendo. Siamo quindi di fronte a un complesso dispositivo finalizzato alla concentrazione della ricchezza. Niente a che vedere con una stanza dove è difficile scorgere le cose a causa del fumo dei sigari di qualche impenitente «padrone del vapore». In passato è bastato aprire una qualche finestra e tutto era diventato chiaro. Ora non è così.
La mia tesi è che abbiamo assistito a un cambiamento di scala della concentrazione della ricchezza che ha mandato in pezzi il mondo di qualche decennio fa, dove esisteva una classe media e una classe operai sostanzialmente non ricche, ma «abbienti». Provocatoriamente potrei affermare che nel Nord globale le società sono sempre più simili a quelle del Sud globale.
L’Europa e gli Stati Uniti non erano quindi immuni da concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, disuguaglianze sociali, razzismo, povertà, ma tutto ciò era mitigato dalla crescita costante nel tempo di una classe media. Inoltre, erano paesi dove era forte la tensione a superare povertà, razzismo, differenze di classe, ma c’era una tensione al superamento di quegli elementi. Bene quel mondo è stato progressivamente cancellato dagli anni Ottanta in poi. Ora siamo in un mondo dove élite globali «predano» la ricchezza senza troppe resistenze. Per tornare alla sua domanda, invito a pensare ad un aspetto che è fondamentale in una realtà come quella che ho sinteticamente descritto. I movimenti sociali sono fondamentali per la loro abilità nell’includere realtà molto diverse tra loro. Sono cioè esperienze che producono una politica di buon vicinato, di solidarietà, di condivisione sociale. La forza di Syriza in Grecia è dovuta alla sua capacità di fare propria l’abilità aggregativa dei movimenti sociali, che puntano a risolvere alcuni problemi vitali per i singoli: la casa, il mangiare, la cura del corpo.
Certo non cambiano l’agenda politica, né i rapporti di forza. Qui vale una domanda che non è retorica: come fare questo?
Provando, sperimentando, coinvolgendo la popolazione e anche quegli esponenti politici che sono consapevoli e critici verso questa feroce dinamica di espulsione e di concentrazione della ricchezza. Provando, magari sbagliando, ma continuando a provare. Per me, questo significa rigore nell’analisi della realtà, resistere alle sirene delle semplificazione o, altrettanto forte, incamminarsi su strade già battute e che si sono rivelate come vicoli ciechi.
di Giuliano Battiston 30 luglio 2014 minimaetmoralia
Saskia Sassen e i predatori della vita perduta
Derive continentali. Cacciati dal lavoro, dalle terre, mentre intere regioni del pianeta sono lande morte e la povertà assume dimensioni inedite. «Espulsioni», l’ultimo saggio di Saskia Sassen per il Mulino, che sarà presentato domani a Roma a Porta Futuro
Benedetto Vecchi Manifesto 21.10.2015, 0:40
Ambizione e rigore. Saskia Sassen ha entrambe le caratteristiche. Il suo rigore emerge nella mole di dati raccolti, elaborati e assemblati per dare rilevanza empirica alle ambiziose tesi che propone. Lo ha sempre fatto, in tutte le sue ricerche che hanno scandito una vita accademica all’insegna di un nomadismo intellettuale che l’ha portata a soggiornare in molti paesi – Argentina, Italia, Regno Unito, Stati Uniti – per comprendere una tendenza ormai divenuta realtà, la globalizzazione. Dal suo nomadismo intellettuale è infatti nato Global Cities (Utet), il libro che l’ha fatta conoscere al pubblico (e che è stato più volte aggiornato), ma anche le altre opere sui conflitti dentro e contro la globalizzazione (Globalizzati e scontenti, Il Saggiatore), le migrazioni (Migranti, coloni, rifugiati, Feltrinelli).
È però con Territorio, autorità, diritti (Bruno Mondadori) che il puzzle sulla globalizzazione è portato a termine. L’economia mondiale, le trasformazioni della forma-stato, il rapporto tra locale e sovranazionale, le possibili politiche di contenimento e opposizione al capitalismo sono lì, spregiudicatamente messi a tema. La globalizzazione non è una parentesi del capitalismo, è equiparabile alle sue tendenze e alla internalizzazione del capitale che, alla fine dell’Ottocento e nel primo decennio del Novecento, hanno visto dispiegarsi le politiche di potenza coloniali e imperialistiche dei paesi europei e degli Stati Uniti.
La globalizzazione ha scosso nelle fondamenta sia le relazioni tra gli stati – il sistema mondo di Giovanni Arrighi e Immanuel Wallerstein – che, nelle formazioni politiche di matrice liberale, il delicato equilibrio tra il potere giuridico, legislativo e esecutivo, assegnando a quest’ultimo un ruolo preponderante sugli altri due.
I padroni dell’austerità
In questo tramonto dello stato liberale, Saskia Sassen assegnava ai movimenti sociali la funzione di argine politico alla colonizzazione mercantile della vita sociale. Quel che non poteva certo prevedere – il rigore la preserva da qualsiasi deriva profetica — è la crisi iniziata nel 2007. Tutto ciò che sembrava solido, si è dissolto nell’aria e invocare il ritorno dello Stato nazionale come trincea da dove combattere il neoliberismo è come gridare alla luna: allevia il disagio, ma non risolve un granché, come d’altronde testimoniano l’esito estivo delle vicende greche.
La messa in angolo del governo di Atene da parte dell’Unione europea fa emergere infatti la velleità di chi ha proposto lo stato nazionale come arma politica contro la logica neoliberista dell’Unione europea. Più che abbandonare lo spazio politico europeo, il conflitto contro l’austerità continentale rende evidente che l’unico spazio politico praticabile è proprio quello sovranazionale.
Saskia Sassen è una attenta osservatrice partecipe delle vicende europee – passa molti mesi dell’anno in Inghilterra, dove ha tenuto seminari e corsi alla London School Of Economics — e ha visto dispiegarsi la crisi economica che ha messo in ginocchio intere economie nazionali (la Grecia, la Spagna, il Portogallo. L’Italia, stranamente, non è mai citata). Allo stesso tempo ha accumulato dati sulla crescita delle disuguaglianze sociali, sulla povertà, sul degrado ambientale e sulla riduzione di intere regioni dell’Africa in terre di rapina da parte di multinazionali e paesi emergenti. Fatti tutti noti, ma che l’hanno convinta a iniziare un nuovo puzzle, questa volta sulla globalizzazione dopo la crisi, una sorta di mappa sociale della «globalizzazione 2.0».
Sicuramente il volume Espulsioni mandato alle stampe dal Mulino (pp. 288, euro 25) è da considerare un tassello di questo nuovo puzzle teso a rendere visibili le tendenze sistemiche sotterranee del capitalismo contemporaneo e a rendere visibili gli «espulsi». Per Sassen l’ultimo decennio ha visto dispiegarsi formazioni predatorie globali composte da imprese finanziarie e da quelle impegnate nella produzione di merci, nell’agricoltura. Il dato più inquietante è che sono formazioni predatorie che si muovono sottotraccia e che si sottraggono allo sguardo pubblico, cioè a quella sfera collettiva che potrebbe mettere in discussione la loro esistenza. Una delle vittime eccellenti della globalizzazione dopo la crisi è dunque la democrazia, senza che questo coincida con l’abolizione di alcuni diritti civili e politici.
Il lettore attento riconosce temi e argomenti cari ai teorici del capitalismo estrattivo come David Harvey. Saskia Sassen sottolinea però che quello che descrive è un processo che non vede ancora un punto di equilibrio. Le formazioni predatorie prosperano cioè in una condizione di perenne transizione, dove il passaggio da un capitalismo fondato sull’inclusione — gli anni d’oro del welfare state — a un capitalismo fondato sulla esclusione, vede una geografia sociale e politica variabile nel tempo e nello spazio.
Le faglie della world factory
Un libro dunque ambizioso. L’avvio non lascia molti spazi all’ambiguità. Il capitalismo ha imboccato una strada dove sacrificare milioni di uomini e donne e intere regioni del pianeta alle logiche di accumulazione della ricchezza. È un sistema brutale, fondato sull’espulsione e l’esclusione: dal lavoro, dalla casa, dal villaggio, mentre crescono esponenzialmente le terre e acque morte per la selvaggia estrazione di minerali o per coltivazioni intensive di olio di palma o di piante destinante ad essere trasformate in biocarburanti. Milioni di uomini e donne sono così cacciati dal lavoro, a causa delle politiche globali di outsourcing, rendendo l’alta disoccupazione un fenomeno strutturale e permanente in Europa e negli Stati Uniti, con il conseguente innalzamento delle disuguaglianze e della povertà. I cantori del libero mercato non possono certo salvarsi l’anima sostenendo che nei cosiddetti paesi emergenti cresca l’occupazione e una classe media desiderosa di consumare e di occupare finalmente un posto al sole dell’economia mondiale. Questi sono dati transitori, perché il capitalismo, nella sua erranza planetaria, sa che sono paesi da usare fino a quando la ricchezza da estrarre non sarò finita. Le faglie manifestate dalla world factory cinese e dalle economie indiane, brasiliane e sudafricane fanno intravedere che anche in quei paesi la crisi rivela la stessa brutalità avuta in Europa e Stati Uniti. Il numero dei poveri, dei senza tetto, degli espulsi cresce dunque sia nel Nord che nel Sud del pianeta.
Interessanti sono anche le pagine dedicate al ruolo della finanza nella «globalizzazione 2.0». Non senza ironia Saskia Sassen descrive come nelle imprese globali finanziarie chi lavora alacremente non sono broker o spregiudicati finanzieri. Questi sono l’ultimo anello di una catena che vede al lavoro fisici, matematici, informatici: tutti dediti alla elaborazione di algoritmi che facciano accelerare il flusso di capitali al fine di accumulare ricchezze «estratte» dalla finanziarizzazione dei bisogni sociali: la casa, il mangiare, il lavoro, la formazione, la salute. Tutti elementi che favoriscono l’indebitamento individuale e delle nazioni, vista la riduzione delle entrate fiscali dovute a politiche indulgenti verso la tassazioni dei profitti.
Per fronteggiare la crisi del 2007 dei subprime e quella successiva dei credit default swaps gli stati nazionali sono inoltre intervenuti per salvare imprese troppo grandi per fallire. E lo hanno fatto usando il denaro che i contribuenti hanno versato con le tasse. Una espropriazione ulteriore di ricchezza prodotta dal lavoro vivo sociale.
Un altro elemento che nel libro ha un ruolo rilevante è il land grabbing, cioè l’acquisto di terre da parte di imprese agroalimentari o minerarie. Milioni di ettari di paesi africani, dell’Indonesia, dell’Ucraina e della Russia sono state acquistate da multinazionali e stati nazionali – gli Emirati del Golfo, ma anche la Cina e la Corea del Sud – per coltivare alimenti da immettere nel mercato mondiale. Lo stesso vale per le imprese minerarie. La brutalità di questo processo sta nel fatto che in Africa si sono moltiplicate feroci guerre locali condotte da «eserciti» che si candidano a gestire l’ordine pubblico in alcune nazioni e così svolgere un ruolo nelle formazioni predatorie che si muovono nel pianeta. In altri paesi è l’esercito «ufficiale» che caccia dalle terre i contadini. Da qui l’espulsione di milioni di donne e uomini che cercano una via di fuga verso l’Europa e gli Stati Uniti. Ogni distinzione tra rifugiato economico e politico perde così di significato. Anche se, avverte con acume Saskia Sassen, i costi maggiori degli esodi ricade nel Sud globale del mondo: la maggioranza assoluta dei rifugiati rimane infatti nel Sud del mondo, mentre nel Nord del pianeta arriva solo una biblica minoranza di rifugiati economici e politici.
Domande inevase
Come interrompere questa discesa negli inferi è domanda alla quale Saskia Sassen non sa dare risposta. C’è amarezza, disincanto nelle pagine di questo libro. È un cambiamento di prospettiva che l’autrice invita a fare. Non c’è nessun punto di resistenza individuato, come invece aveva indicato l’autrice in altri libri. La società civile organizzata o i movimenti sociali non compaiono in questo saggio. Sono qui significanti vuoti rispetto una logica sistemica che non ammette punti di rottura. L’inversione della tendenza non è data. All’orizzonte non c’è nessun potere costituente che può garantire una fuoriuscita dal «capitalismo estrattivo». Ma non c’è neppure nessun potere destituente. La rivolta non è ammessa dalle formazioni predatorie: se si manifesta, va repressa duramente. E le città globali non sono neppure il luogo dove sperimentare forme di democrazia diretta e di cooperazione sociale «alternativa», come Saskia Sassen ha più volte sostenuto nel recente passato. Per il momento, il pensiero critico, l’attitudine critica servono, secondo l’autrice, solo a rendere visibile ciò che è invisibile.
Ma per rendere visibile l’invisibile serve un’operazione di verità. E dunque di rivolta, provando a coniugare il potere destituente della rivolta con il potere costituente che dà forma all’altro mondo possibile che l’azione di svelamento operata dai movimenti conducono. In fondo la politicizzazione le relazioni sociali è l’unica azione realistica di svelamento del potere performativo della vita manifestato dalle formazioni predatorie.
Saskia Sassen sarà protagonista giovedì dell’incontro «Per un’Europa dell’inclusione e dei diritti» alla Sala della regina a Roma (ore 15). L’incontro organizzato dalla Presidente della Camera dei Deputati Laura Boldrini è solo su invito. Per chi invece è interessato a una discussione sulle tesi del suo ultimo libro «Espulsioni» (Il Mulino) l’appuntamento è nella giornata d’apertura del Salone dell’editoria sociale che prende il via giovedì a Porta Futuro di Roma (Via Galvani, ore 17.45).
Quest’anno il Salone dell’editoria sociale è dedicato al tema della «Gioventù bruciata», cioè alle nuove generazioni che sono colpite dalle politiche di austerità che negano loro il futuro. Ridotti sono i finanziamenti alla formazione, cresce in molti paesi il debito studentesco per pagare le rette universitarie sempre più alte. Minore la possibilità di entrare nel mercato del lavoro (l’esperienza della precarietà è ormai la regola nel capitalismo). Eppure sono sempre i giovani il «target» privilegiato per spregiudicate campagne pubbicitarie di chi vende merci spacciandole per stili di vita più o meno alternativi. Il programma del Salone dell’editoria sociale (consultabile per intero al sito internet: www.editoriasociale.info) prevede workshop seminari e presentazione di libri. Nella giornata di giovedì, oltre l’incontro con Saskia Sassen, sono da segnalare la tavola rotonda «Il terzo settore alla deriva?» (ore 16) e «Stranieri per forza» (ore 16.15, sala B). Il giorno dopo, ore 16, tavola rotonda su «Welfare, reddito, lavoro. Le sfide della generazione precaria». Alle 18 sarà invece presentato il libro, curato da Sbilanciamoci, «Workers Act». Domenica, invece, è la volta della presentazione del volume «I Muri di Tunisi», un’analisi dei murales e dei graffiti nella capitale tunisina prima e dopo la primavera araba. A presentarlo Michela Becchis, Cecilia Dalla Negra, Luce Lacquanita (autrice del libro) e il graphic journalist Takoua Ben Mohamed.
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