martedì 30 giugno 2015

La crisi del progetto moderno: Giovanni De Luna

Il ’900 è finito e noi ci sentiamo poco bene
Nel passaggio tra XX e XXI secolo i pilastri che sorreggevano la nostra visione del mondo sono crollati: resta un senso di inadeguatezza e l’incapacità di capire il tempo in cui viviamodi Giovanni De Luna La Stampa 29.6.15
Verso la fine del 1899 si accese una disputa molto vivace se l’imminente 1900 dovesse contare come ultimo anno del secolo vecchio o come primo del nuovo. Alla fine intervenne l’imperatore di Germania, Guglielmo II, dichiarando che il 1900 era il primo anno del XX secolo: a Berlino, alla mezzanotte di San Silvestro del 1899, campane a distesa e salve di cannone annunciarono la nascita del nuovo secolo. Allora era così. Il tempo poteva essere scandito dagli orologi di Berlino e il potere di un imperatore tedesco faceva direttamente sentire i suoi effetti nella vita quotidiana di milioni di uomini.
Nessuno se ne rese conto, ma quello fu il definitivo addio al tempo storico dell’Ottocento. Nel Novecento il tempo avrebbe smesso di essere il «principio ordinatore» degli eventi umani e della loro rappresentazione fondata sulla successione cronologica, per lasciare posto all’«esperienza della simultaneità»: prima la telefonia e la radio, poi il cinema e la televisione, poi ancora il trasporto aereo, il fax, le reti telematiche, infine il mondo sterminato del web hanno consentito l’accesso immediato a una pluralità di spazi e di tempi cancellando i concetti tradizionali di passato e futuro, di vicino e lontano. Oltre al tempo, anche gli spazi si sono infatti ridefiniti in una dimensione planetaria, proponendosi come territori percorribili istantaneamente, senza più il tempo che era necessario per attraversare le antiche distanze.
L’età dell’inquietudine
Questo cambiamento radicale ha alterato in maniera irreversibile il nostro modo di vivere e ha reso il mondo del ’900 irriconoscibile per tutti quelli che avevano abitato il secolo precedente.
Oggi stiamo vivendo una rottura altrettanto drastica. Nessuna delle definizioni che gli storici hanno utilizzato per leggere il ‘900 sembra resistere a questo passaggio. Charles Maier lo aveva chiamato il «secolo delle ciminiere», riferendosi alle grandi produzioni industriali con le fabbriche che funzionavano con grandi ciminiere, con il carbone o con altre energie «fumanti». Per altri era stato «il secolo delle guerre» (tra il 1900 e il 1993 c’erano stati 54 conflitti armati con ben 185 milioni di morti, di cui l’80% civili). Altri ancora avevano insistito sul totalitarismo, la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, l’allargamento planetario dei mercati, l’omologazione indotta dai consumi; definizioni che si muovevano tutte verso un’unica direzione: produzioni di massa, morte di massa, politica di massa, consumi di massa, mezzi di comunicazione di massa attribuivano al Novecento i tratti indelebili del «secolo delle masse». Nell’Occidente euroamericano, a cui questi concetti si riferiscono, si era affacciata alla storia una schiera di produttori, elettori, consumatori, che avevano affollato le fabbriche, le urne elettorali della democrazia, le piazze dei regimi totalitari, i supermercati e i campi dello sterminio e della guerra.
Molti pilastri che sorreggevano queste definizioni sono crollati. E sulle loro macerie è affiorata un’inquietudine, un senso di inadeguatezza. Molti degli eventi che caratterizzano il nostro tempo ci appaiono incomprensibili. Le categorie del ’900 non ci aiutano a capire l’Isis; un’Europa che abbiamo imparato a conoscere attraverso gli Stati che vi aderivano, ora - per la prima volta, con la Grecia - rischia di perderne uno. La competizione globale tra i Paesi industrializzati, i flussi dell’informazione, del sapere, del denaro, delle persone e delle immagini hanno superato i limiti territoriali degli Stati nazionali, disvelando uno scenario i cui confini sono solo il cielo e la terra.

Totalitarismo tecnologico
Il binomio Guerra e Stato, ad esempio, per secoli inscindibile, si è ora dissolto in quelle che chiamiamo le «guerre postnazionali», caratterizzate, da un lato, da una complessiva «privatizzazione» dei conflitti armati (i mercenari, i volontari, il tramonto della tradizionale figura del soldato), dall’altro dalla dimensione sempre più sovrannazionale dei poteri di comando sulle forze armate che operano nei vari fronti. E sono cambiati anche gli aspetti ideologici della guerra, con una netta accentuazione della sua «confessionalità»: si combatte in nome di Dio, e la dimensione laica delle categorie «amico» e «nemico» viene dissolta in un universo in cui l’avversario diventa un alleato del Diavolo, un ostacolo all’espandersi del bene da cancellare. Non più la sconfitta militare, ma l’annientamento del nemico rappresenta così l’unico scopo plausibile della guerra.
Ma è soprattutto nella Rete e nella rivoluzione digitale che sono emerse le principali novità post-novecentesche. La velocità del cambiamento digitale è stata vertiginosa e ormai la Rete penetra in ogni angolo della nostra vita: il lavoro, il tempo libero, l’organizzazione del dibattito politico e della protesta sociale, perfino le nostre relazioni sociali e i nostri affetti. Facebook e Twitter, programmaticamente nati per renderci più amici, più solidali e allargare i nostri spazi «comunitari», oggi si sono insinuati prepotentemente nella nostra privacy, determinano e controllano i nostri gusti e i nostri consumi. Quasi che dal totalitarismo ideologico del XX secolo si stia passando a quello tecnologico del XXI.

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