venerdì 12 giugno 2015

Senza memoria

Suzanne Corkin: Prigioniero del presente, tr.it. M. A. Schepisi, Adelphi, 432 pagine, 30 euro

Risvolto
Intorno alla metà degli anni Trenta del Novecento, il piccolo Henry Gustave Molaison comincia a soffrire di ripetute crisi convulsive, sviluppando un'epilessia farmaco-resistente. Quando il neurochirurgo William B. Scoville decide di sottoporlo, ormai ventisettenne, a un'operazione al cervello, il prezzo da pagare per la remissione delle crisi sarà, per Henry, il manifestarsi di una severa amnesia anterograda: l'incapacità, cioè, di ricordare le sequenze della sua vita successive all'operazione – al punto da salutare ogni giorno persone note come se le incontrasse per la prima volta, cominciando dai medici. Da quel momento, Henry diventerà semplicemente H. M., l'acronimo più pervasivo e perturbante di tutta la letteratura neuroscientifica degli ultimi decenni. Esito di una frequentazione professionale e umana di quasi mezzo secolo, quello di Suzanne Corkin non è «un» libro, ma «il» libro su un caso cui si devono scoperte decisive sulla natura della memoria e sugli specifici processi attraverso i quali viene costruita («Il cervello di Henry» scrive la Corkin «ha risposto a più domande sulla memoria di quanto abbiano fatto gli studi scientifici dei cento anni precedenti»). Un libro che ci offre, oltre a uno dei più intensi ‘ritratti clinici', una affascinante riflessione sulla tessitura fragile e tenace, coerente e composita, che sta alla base dell'identità di ognuno di noi.
 

H.M., l ’uomo che viveva solo il presente

Il paziente fu operato per un’epilessia.Guarì ma conservò soltanto la memoria a breve “Il suo caso ci ha insegnato che puoi pianificare il futuro solo se hai dei ricordi” Intervista a Suzanne Corkin che ha studiato uno dei casi più misteriosi della storia della scienza

di Bruno Arpaia Repubblica 12.6.15
NEL 1953, Henry Molaison, un ventisettenne di Hartford, nel Connecticut, venne sottoposto a un intervento sperimentale di “psicochirurgia”» per combattere la forte epilessia di cui soffriva. Dal suo cervello venne aspirata gran parte degli ippocampi e delle amigdale. L’epilessia si attenuò, ma H. M. (come sarebbe stato conosciuto per il resto della vita) perse la capacità di creare nuovi ricordi: conservava una memoria a breve termine che gli consentiva di registrare fatti, volti, sensazioni per una trentina di secondi, e poi dimenticava tutto. Suzanne Corkin, oggi professore emerito di Neuroscienze al Massachusetts Institute of Technology, incontrò Henry nel 1962, quando era da poco laureata.
Poi, per quasi cinquant’anni, lo seguì e lo studiò, anche se, ogni volta che lo incontrava, per Henry era la prima volta che si vedevano. Ora Suzanne Corkin ha pubblicato un avvincente libro, Prigioniero del presente (Adelphi), in cui racconta il loro rapporto, un libro che è allo stesso tempo un case study e una biografia, in parte scritto anche allo scopo di mostrare che Henry Molaison, scomparso nel 2008, era molto più di un semplice soggetto di studio.
Dottoressa Corkin, cosa abbiamo imparato da Henry Molaison nel campo dello studio della memoria umana?
«Henry è il paziente neurologico più studiato nella letteratura medica e scientifica, e il suo caso è stato fondamentale per una serie di scoperte decisive sulla natura della memoria e sugli specifici processi attraverso i quali viene costruita. Henry ci ha insegnato che, diversamente da quanto si credeva in precedenza, esistono diversi tipi di memoria con differenti “indirizzi” nel cervello. La memoria può essere a breve e a lungo termine; quella a lungo termine può essere divisa in due categorie: dichiarativa e non dichiarativa. La prima è il recupero cosciente, consapevole di fatti ed eventi. Se le chiedo di raccontarmi la sua esperienza a cena ieri sera, lei attiverà i circuiti della memoria dichiarativa per rispondermi. La memoria non dichiarativa è diversa perché si tratta di abilità e abitudini apprese senza consapevolezza conscia, come quando si impara ad andare in bicicletta o a giocare a tennis. La memoria dichiarativa di Henry era profondamente compromessa, mentre quella non dichiarativa era stata preservata. Per esempio, sapeva usare il deambulatore e non dimenticava come farlo. Questa dissociazione di funzioni ha mostrato che i due tipi di memoria dipendono da differenti circuiti cerebrali. Così, paradossalmente, Henry, l’uomo senza memoria, non verrà mai dimenticato».
La memoria costruisce il racconto del nostro passato, cioè ci dà un’identità. Che tipo di consapevolezza di sé aveva Henry Molaison?
«La memoria è fondamentale per lo sviluppo dell’Io, e molti studiosi hanno sostenuto che un individuo privo della capacità di ricordare sia privo anche di un’identità. Henry, tuttavia, possedeva un senso di sé, ma era meno completo del nostro. Il nostro concetto dell’Io è un amalgama fra i nostri ricordi del passato e del presente e i nostri progetti per il futuro. Quando esaminavamo l’accesso di Henry a questi periodi di tempo, verificavamo che era disomogeneo, a chiazze. Quando gli si chiedeva di guardare al futuro, Henry rimaneva perplesso perché non poteva viaggiare mentalmente in avanti nel tempo a breve o a lungo termine. Non aveva gli elementi per poter costruire l’agenda per il giorno, il mese o l’anno dopo, e non poteva immaginare le esperienze future. In questo modo, del resto, non era mai stressato perché non era oppresso dai ricordi del passato e dalle ansie per il futuro. Vivendo nel presente, con un’identità formatasi in maggior parte prima dell’operazione, tirava avanti come poteva. Henry non riusciva a creare un futuro e non è mai stato in grado di inseguire i propri sogni perché non ne aveva. Ci ha così insegnato che un prerequisito necessario per pianificare il futuro è un ippocampo funzionante insieme a un sistema di memoria dichiarativa. Oggi sappiamo anche che i nostri ricordi non sono incisi sulla pietra, ma sono plastici e possono essere rimodellati per incorporare ogni nuova informazione disponibile quando vengono richiamati. Così, il nostro cervello li aggiorna, li modifica, rendendo più forti i nuovi ricordi immagazzinati».
Che impatto aveva sulla sua vita di tutti i giorni l’incapacità di Henry di creare ricordi? Com’era il suo universo?
E parlare con lui? Nei quasi cinquant’anni di frequentazione, qualche volta l’ha riconosciuta?
«Non poteva vivere in maniera indipendente e aveva bisogno di costante assistenza. Aveva pochi amici e una limitata vita sociale. Parlare con lui era come parlare con un uomo normale finché non cominciava a ripetere le cose che aveva appena detto pochi minuti prima. Tuttavia, era molto socievole e chiacchierone. Henry non ha mai saputo davvero chi io fossi, ma all’inizio degli anni Ottanta disse che mi aveva conosciuto alle scuole superiori. Perché lo pensava? Con gli anni, aveva sviluppato un senso di familiarità per il mio viso e il mio nome».
Il contributo di Henry alla scienza continua anche dopo la sua morte… Quali sono per lei le prossime frontiere delle ricerche sulla memoria?
«Il tessuto cerebrale di Henry è stato conservato all’Università della California. Abbiamo creato un comitato che valuterà le richieste da parte dei ricercatori di studiarlo. Il primo obbiettivo sarà quello di determinare esattamente che tipo di malattia avesse, e solo in seguito si svilupperanno specifiche ricerche. La scienza va avanti. E le prossime frontiere della ricerca sulla memoria riguarderanno i livelli cellulare e molecolare, dove i progressi verranno dall’applicazione di nuovi, meravigliosi strumenti, ora utilizzati sui topi. I nuovi metodi comprendono l’optogenetica per attivare e inibire specifiche cellule, il Crispr, che è un metodo di ingegneria genomica, e Clarity, grazie al quale è possibile vedere il cervello in 3D senza intaccarne o metterne a rischio l’integrità, per mappare il sistema nervoso.
E così ne sapremo molto anche sulla mente, perché sono d’accordo con l’affermazione di Francis Crick secondo la quale noi non siamo altro che i nostri neuroni. La mente non è altro che il cervello».

Nell’eterno presente di Mr Molaison i segreti della nostra memoria
La neuroscienziata Suzanne Corkin racconta il caso del paziente americano che non riusciva a fissare i ricordi e doveva ricominciare la vita ogni giorno di Piero Bianucci La Stampa 26.6.15
Il cervello di Einstein è il più famoso del mondo ma quello di Henry Molaison è il più studiato. Dal 1953 al 2 dicembre 2008, quando a 82 anni Henry chiuse gli occhi, ogni giorno quel cervello è stato sottoposto a test ed esami clinici. Tuttora la ricerca continua su 2401 fettine di tessuto nervoso congelate e immerse in una soluzione protettiva.
Per un intervento chirurgico che oggi ci sembra folle, Henry Molaison perse la capacità di fissare nuovi ricordi e visse due terzi della sua esistenza in un eterno presente. Al suo cervello dobbiamo quasi tutto ciò che si sa sul funzionamento della memoria. Henry ci ha fatto capire che noi siamo, letteralmente, i nostri ricordi. L’identità personale è una somma di memorie. Non poter trasformare il presente in passato sotto forma di ricordi, significa uscire dal tempo. Non è morire, ma non è vivere. La recherche di Proust e il racconto di Borges su Funès el memorioso, l’uomo che ricordava tutto, appaiono sotto una nuova luce.
L’operazione
Henry era un ragazzo americano come tanti. Nato nel 1926 nella cittadina di Hartford nel Connecticut, aveva una passione per le armi e per gli aerei, pur avendo fatto solo un breve volo quando era tredicenne. Dopo una caduta dalla bicicletta incominciò ad avere crisi epilettiche sempre più gravi. In casi estremi all’epoca si ricorreva a interventi per rimuovere le zone cerebrali che sembravano all’origine degli attacchi. Fu ciò che tentò William Scoville, neurochirurgo eticamente spregiudicato: asportò dal cervello di Henry i lobi temporali e gran parte degli ippocampi. Le crisi epilettiche si attenuarono ma la vita di Henry rimase spezzata. Qualsiasi esperienza in lui svaniva dopo pochi minuti. Conservava intatti i ricordi fino al giorno dell’intervento ma aveva perso la capacità di fissarne di nuovi. Dotato di un carattere gentile, affrontò questa terribile amnesia con rassegnata dolcezza.
La straordinaria vicenda di Henry Molaison e della sua memoria bloccata nel 1953 all’età di 27 anni dal bisturi del neurochirurgo Scoville è ora narrata con l’emotività di un romanzo e insieme la freddezza di una cartella clinica in Prigioniero del presente di Suzanne Corkin (traduzione di Maria Antonietta Schepisi, Adelphi, pp 432 pagine, €30).
L’ippocampo
Quella che per Henry e i suoi famigliari fu una tragedia, alla scienza offrì l’eccezionale opportunità di capire i meccanismi della memoria. Studiato ogni giorno per più di mezzo secolo prima dalla neurologa Brenda Milner e poi dall’autrice di questo libro nonché da altri 122 scienziati, il caso H.M. (il nome è stato svelato solo dopo la sua morte) ci ha insegnato che per consolidarsi i ricordi devono transitare per un certo tempo nell’ippocampo prima di essere smistati in altre parti del cervello. Ciò ha permesso di caratterizzare e localizzare i diversi tipi di memoria: a breve e lungo termine, lessicale (capacità di richiamare parole), episodica (capacità di evocare fatti), operativa (capacità di eseguire sequenze motorie memorizzate, come andare in bicicletta). Ma la lezione sul ruolo dell’ippocampo che ci viene dal caso H.M. va oltre la scienza: «Un grande regalo che la memoria ci fa – scrive Suzanne Corkin – è la capacità di conoscerci bene reciprocamente. Se non possiamo ricordare, non possiamo nemmeno assistere alla crescita delle nostre relazioni».
La memoria breve, o memoria di lavoro, che utilizziamo, ad esempio, per trattenere un numero telefonico quanto basta a comporlo, dura pochi secondi, e in Molaison era pressoché normale. Aveva anche una buona memoria lessicale, tanto che si divertiva a risolvere cruciverba. La memoria a lungo termine invece funzionava solo per i ricordi più antichi, anteriori all’intervento, non poteva memorizzare eventi successivi né apprendere nuove nozioni, abilità che sono proprie della memoria episodica. Riusciva però a imparare semplici compiti manuali, come smontare e rimontare un oggetto: la memoria operativa era conservata, anche nei malati di Alzheimer è l’ultima a spegnersi.
Il Nobel dimenticato
Lo studio del caso H.M. inizia quando le neuroscienze erano nella loro preistoria e termina con tecnologie sofisticate che, come la risonanza magnetica, permettono di vedere cosa succede nel cervello mentre pensa. Esplorare con ogni mezzo il cervello di Henry ci ha fatto fare passi da gigante. Brenda Milner (97 anni) e Suzanne Corkin (78) sono state candidate al Nobel per aver compreso che l’ippocampo smista i ricordi. Nell’ippocampo teniamo pure le mappe con cui ci orientiamo sul territorio: per questa scoperta nel 2014 il Nobel è andato a John O’Keefe e ai coniugi Moser. La Milner e la Corkin sono state dimenticate. Anche a Stoccolma hanno delle amnesie. 

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