Suzanne Corkin:
Prigioniero del presente, tr.it. M. A. Schepisi, Adelphi, 432 pagine, 30 euro
Risvolto
Intorno alla metà degli anni Trenta del Novecento, il piccolo Henry
Gustave Molaison comincia a soffrire di ripetute crisi convulsive,
sviluppando un'epilessia farmaco-resistente. Quando il neurochirurgo
William B. Scoville decide di sottoporlo, ormai ventisettenne, a
un'operazione al cervello, il prezzo da pagare per la remissione delle
crisi sarà, per Henry, il manifestarsi di una severa amnesia
anterograda: l'incapacità, cioè, di ricordare le sequenze della sua vita
successive all'operazione – al punto da salutare ogni giorno persone
note come se le incontrasse per la prima volta, cominciando dai medici.
Da quel momento, Henry diventerà semplicemente H. M., l'acronimo più
pervasivo e perturbante di tutta la letteratura neuroscientifica degli
ultimi decenni. Esito di una frequentazione professionale e umana di
quasi mezzo secolo, quello di Suzanne Corkin non è «un» libro, ma «il»
libro su un caso cui si devono scoperte decisive sulla natura della
memoria e sugli specifici processi attraverso i quali viene costruita
(«Il cervello di Henry» scrive la Corkin «ha risposto a più domande
sulla memoria di quanto abbiano fatto gli studi scientifici dei cento
anni precedenti»). Un libro che ci offre, oltre a uno dei più intensi
‘ritratti clinici', una affascinante riflessione sulla tessitura fragile
e tenace, coerente e composita, che sta alla base dell'identità di
ognuno di noi.
H.M., l ’uomo che viveva solo il presente
Il
paziente fu operato per un’epilessia.Guarì ma conservò soltanto la
memoria a breve “Il suo caso ci ha insegnato che puoi pianificare il
futuro solo se hai dei ricordi” Intervista a Suzanne Corkin che ha studiato uno dei casi più misteriosi della storia della scienza
di Bruno Arpaia Repubblica 12.6.15
NEL 1953, Henry Molaison, un ventisettenne di Hartford, nel Connecticut,
venne sottoposto a un intervento sperimentale di “psicochirurgia”» per
combattere la forte epilessia di cui soffriva. Dal suo cervello venne
aspirata gran parte degli ippocampi e delle amigdale. L’epilessia si
attenuò, ma H. M. (come sarebbe stato conosciuto per il resto della
vita) perse la capacità di creare nuovi ricordi: conservava una memoria a
breve termine che gli consentiva di registrare fatti, volti, sensazioni
per una trentina di secondi, e poi dimenticava tutto. Suzanne Corkin,
oggi professore emerito di Neuroscienze al Massachusetts Institute of
Technology, incontrò Henry nel 1962, quando era da poco laureata.
Poi, per quasi cinquant’anni, lo seguì e lo studiò, anche se, ogni volta
che lo incontrava, per Henry era la prima volta che si vedevano. Ora
Suzanne Corkin ha pubblicato un avvincente libro, Prigioniero del
presente (Adelphi), in cui racconta il loro rapporto, un libro che è
allo stesso tempo un case study e una biografia, in parte scritto anche
allo scopo di mostrare che Henry Molaison, scomparso nel 2008, era molto
più di un semplice soggetto di studio.
Dottoressa Corkin, cosa abbiamo imparato da Henry Molaison nel campo dello studio della memoria umana?
«Henry è il paziente neurologico più studiato nella letteratura medica e
scientifica, e il suo caso è stato fondamentale per una serie di
scoperte decisive sulla natura della memoria e sugli specifici processi
attraverso i quali viene costruita. Henry ci ha insegnato che,
diversamente da quanto si credeva in precedenza, esistono diversi tipi
di memoria con differenti “indirizzi” nel cervello. La memoria può
essere a breve e a lungo termine; quella a lungo termine può essere
divisa in due categorie: dichiarativa e non dichiarativa. La prima è il
recupero cosciente, consapevole di fatti ed eventi. Se le chiedo di
raccontarmi la sua esperienza a cena ieri sera, lei attiverà i circuiti
della memoria dichiarativa per rispondermi. La memoria non dichiarativa è
diversa perché si tratta di abilità e abitudini apprese senza
consapevolezza conscia, come quando si impara ad andare in bicicletta o a
giocare a tennis. La memoria dichiarativa di Henry era profondamente
compromessa, mentre quella non dichiarativa era stata preservata. Per
esempio, sapeva usare il deambulatore e non dimenticava come farlo.
Questa dissociazione di funzioni ha mostrato che i due tipi di memoria
dipendono da differenti circuiti cerebrali. Così, paradossalmente,
Henry, l’uomo senza memoria, non verrà mai dimenticato».
La memoria costruisce il racconto del nostro passato, cioè ci dà
un’identità. Che tipo di consapevolezza di sé aveva Henry Molaison?
«La memoria è fondamentale per lo sviluppo dell’Io, e molti studiosi
hanno sostenuto che un individuo privo della capacità di ricordare sia
privo anche di un’identità. Henry, tuttavia, possedeva un senso di sé,
ma era meno completo del nostro. Il nostro concetto dell’Io è un
amalgama fra i nostri ricordi del passato e del presente e i nostri
progetti per il futuro. Quando esaminavamo l’accesso di Henry a questi
periodi di tempo, verificavamo che era disomogeneo, a chiazze. Quando
gli si chiedeva di guardare al futuro, Henry rimaneva perplesso perché
non poteva viaggiare mentalmente in avanti nel tempo a breve o a lungo
termine. Non aveva gli elementi per poter costruire l’agenda per il
giorno, il mese o l’anno dopo, e non poteva immaginare le esperienze
future. In questo modo, del resto, non era mai stressato perché non era
oppresso dai ricordi del passato e dalle ansie per il futuro. Vivendo
nel presente, con un’identità formatasi in maggior parte prima
dell’operazione, tirava avanti come poteva. Henry non riusciva a creare
un futuro e non è mai stato in grado di inseguire i propri sogni perché
non ne aveva. Ci ha così insegnato che un prerequisito necessario per
pianificare il futuro è un ippocampo funzionante insieme a un sistema di
memoria dichiarativa. Oggi sappiamo anche che i nostri ricordi non sono
incisi sulla pietra, ma sono plastici e possono essere rimodellati per
incorporare ogni nuova informazione disponibile quando vengono
richiamati. Così, il nostro cervello li aggiorna, li modifica, rendendo
più forti i nuovi ricordi immagazzinati».
Che impatto aveva sulla sua vita di tutti i giorni l’incapacità di Henry di creare ricordi? Com’era il suo universo?
E parlare con lui? Nei quasi cinquant’anni di frequentazione, qualche volta l’ha riconosciuta?
«Non poteva vivere in maniera indipendente e aveva bisogno di costante
assistenza. Aveva pochi amici e una limitata vita sociale. Parlare con
lui era come parlare con un uomo normale finché non cominciava a
ripetere le cose che aveva appena detto pochi minuti prima. Tuttavia,
era molto socievole e chiacchierone. Henry non ha mai saputo davvero chi
io fossi, ma all’inizio degli anni Ottanta disse che mi aveva
conosciuto alle scuole superiori. Perché lo pensava? Con gli anni, aveva
sviluppato un senso di familiarità per il mio viso e il mio nome».
Il contributo di Henry alla scienza continua anche dopo la sua morte…
Quali sono per lei le prossime frontiere delle ricerche sulla memoria?
«Il tessuto cerebrale di Henry è stato conservato all’Università della
California. Abbiamo creato un comitato che valuterà le richieste da
parte dei ricercatori di studiarlo. Il primo obbiettivo sarà quello di
determinare esattamente che tipo di malattia avesse, e solo in seguito
si svilupperanno specifiche ricerche. La scienza va avanti. E le
prossime frontiere della ricerca sulla memoria riguarderanno i livelli
cellulare e molecolare, dove i progressi verranno dall’applicazione di
nuovi, meravigliosi strumenti, ora utilizzati sui topi. I nuovi metodi
comprendono l’optogenetica per attivare e inibire specifiche cellule, il
Crispr, che è un metodo di ingegneria genomica, e Clarity, grazie al
quale è possibile vedere il cervello in 3D senza intaccarne o metterne a
rischio l’integrità, per mappare il sistema nervoso.
E così ne sapremo molto anche sulla mente, perché sono d’accordo con
l’affermazione di Francis Crick secondo la quale noi non siamo altro che
i nostri neuroni. La mente non è altro che il cervello».
Nell’eterno presente di Mr Molaison i segreti della nostra memoria
La
neuroscienziata Suzanne Corkin racconta il caso del paziente americano
che non riusciva a fissare i ricordi e doveva ricominciare la vita ogni
giorno di Piero Bianucci La Stampa 26.6.15
Il cervello di Einstein è il più
famoso del mondo ma quello di Henry Molaison è il più studiato. Dal 1953
al 2 dicembre 2008, quando a 82 anni Henry chiuse gli occhi, ogni
giorno quel cervello è stato sottoposto a test ed esami clinici. Tuttora
la ricerca continua su 2401 fettine di tessuto nervoso congelate e
immerse in una soluzione protettiva.
Per un intervento chirurgico che
oggi ci sembra folle, Henry Molaison perse la capacità di fissare nuovi
ricordi e visse due terzi della sua esistenza in un eterno presente. Al
suo cervello dobbiamo quasi tutto ciò che si sa sul funzionamento della
memoria. Henry ci ha fatto capire che noi siamo, letteralmente, i
nostri ricordi. L’identità personale è una somma di memorie. Non poter
trasformare il presente in passato sotto forma di ricordi, significa
uscire dal tempo. Non è morire, ma non è vivere. La recherche di Proust e
il racconto di Borges su Funès el memorioso, l’uomo che ricordava
tutto, appaiono sotto una nuova luce.
L’operazione
Henry era un
ragazzo americano come tanti. Nato nel 1926 nella cittadina di Hartford
nel Connecticut, aveva una passione per le armi e per gli aerei, pur
avendo fatto solo un breve volo quando era tredicenne. Dopo una caduta
dalla bicicletta incominciò ad avere crisi epilettiche sempre più gravi.
In casi estremi all’epoca si ricorreva a interventi per rimuovere le
zone cerebrali che sembravano all’origine degli attacchi. Fu ciò che
tentò William Scoville, neurochirurgo eticamente spregiudicato: asportò
dal cervello di Henry i lobi temporali e gran parte degli ippocampi. Le
crisi epilettiche si attenuarono ma la vita di Henry rimase spezzata.
Qualsiasi esperienza in lui svaniva dopo pochi minuti. Conservava
intatti i ricordi fino al giorno dell’intervento ma aveva perso la
capacità di fissarne di nuovi. Dotato di un carattere gentile, affrontò
questa terribile amnesia con rassegnata dolcezza.
La straordinaria
vicenda di Henry Molaison e della sua memoria bloccata nel 1953 all’età
di 27 anni dal bisturi del neurochirurgo Scoville è ora narrata con
l’emotività di un romanzo e insieme la freddezza di una cartella clinica
in Prigioniero del presente di Suzanne Corkin (traduzione di Maria
Antonietta Schepisi, Adelphi, pp 432 pagine, €30).
L’ippocampo
Quella
che per Henry e i suoi famigliari fu una tragedia, alla scienza offrì
l’eccezionale opportunità di capire i meccanismi della memoria. Studiato
ogni giorno per più di mezzo secolo prima dalla neurologa Brenda Milner
e poi dall’autrice di questo libro nonché da altri 122 scienziati, il
caso H.M. (il nome è stato svelato solo dopo la sua morte) ci ha
insegnato che per consolidarsi i ricordi devono transitare per un certo
tempo nell’ippocampo prima di essere smistati in altre parti del
cervello. Ciò ha permesso di caratterizzare e localizzare i diversi tipi
di memoria: a breve e lungo termine, lessicale (capacità di richiamare
parole), episodica (capacità di evocare fatti), operativa (capacità di
eseguire sequenze motorie memorizzate, come andare in bicicletta). Ma la
lezione sul ruolo dell’ippocampo che ci viene dal caso H.M. va oltre la
scienza: «Un grande regalo che la memoria ci fa – scrive Suzanne Corkin
– è la capacità di conoscerci bene reciprocamente. Se non possiamo
ricordare, non possiamo nemmeno assistere alla crescita delle nostre
relazioni».
La memoria breve, o memoria di lavoro, che utilizziamo,
ad esempio, per trattenere un numero telefonico quanto basta a comporlo,
dura pochi secondi, e in Molaison era pressoché normale. Aveva anche
una buona memoria lessicale, tanto che si divertiva a risolvere
cruciverba. La memoria a lungo termine invece funzionava solo per i
ricordi più antichi, anteriori all’intervento, non poteva memorizzare
eventi successivi né apprendere nuove nozioni, abilità che sono proprie
della memoria episodica. Riusciva però a imparare semplici compiti
manuali, come smontare e rimontare un oggetto: la memoria operativa era
conservata, anche nei malati di Alzheimer è l’ultima a spegnersi.
Il Nobel dimenticato
Lo
studio del caso H.M. inizia quando le neuroscienze erano nella loro
preistoria e termina con tecnologie sofisticate che, come la risonanza
magnetica, permettono di vedere cosa succede nel cervello mentre pensa.
Esplorare con ogni mezzo il cervello di Henry ci ha fatto fare passi da
gigante. Brenda Milner (97 anni) e Suzanne Corkin (78) sono state
candidate al Nobel per aver compreso che l’ippocampo smista i ricordi.
Nell’ippocampo teniamo pure le mappe con cui ci orientiamo sul
territorio: per questa scoperta nel 2014 il Nobel è andato a John
O’Keefe e ai coniugi Moser. La Milner e la Corkin sono state
dimenticate. Anche a Stoccolma hanno delle amnesie.
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