mercoledì 23 settembre 2015

Ginzburg e l'iconografia politica

Carlo Ginzburg: Paura, reverenza, terrore. Cinque saggi di iconografia politica, Adelphi, Milano, pagg. 311, € 40,00

Risvolto

 Siamo circondati, sommersi dalle immagini. Dagli schermi dei computer e degli apparecchi televisivi, dai muri delle strade, dalle pagine dei giornali, immagini d'ogni genere ci seducono, ci impartiscono ordini (compra!), ci spaventano, ci abbagliano. Questo libro ci invita a guardare le immagini lentamente, attraverso alcuni esempi, notissimi e meno noti: Guernica, il manifesto di Lord Kitchener con il dito puntato verso chi guarda, il Marat di David, il frontespizio del Leviatano di Hobbes, una coppa d'argento dorato con scene della conquista del Nuovo Mondo. Immagini politiche? Sì, perché ogni immagine è, in un certo senso, politica: uno strumento di potere. Siamo soggiogati da menzogne di cui noi stessi siamo gli autori, ha scritto Tacito – e sono parole indimenticabili. È possibile infrangere questo rapporto?

L’immagine è sempre politicaIndagini di Carlo Ginsburg sull’icononografia che, per vie insospettate e traverse, porta i segni del potere e dei rapporti di forza

Salvatore Settis Domenicale 6 9 2015
Il 20 aprile 1995, nell’Aula Magna dell’università di Amburgo, Jürgen Habermas tenne una memorabile lezione su Cassirer, Warburg e il «potere liberatorio della coniazione simbolica». L’occasione era duplice: un anniversario (cinquant’anni dalla morte di Cassirer) e una celebrazione, la riapertura del Warburg-Haus, nello stesso edificio da cui nel 1933 la sua biblioteca dovette fuggire la barbarie nazista, trasferendosi a Londra. Sequestrato e poi profanato in ogni modo, l’edificio fu infine acquistato dalla città di Amburgo e donato all’università dopo una lunga campagna d’opinione; un restauro basato sui disegni originali dell’architetto Gerhard Langmaack ripristinò gli ambienti, a cominciare dalla famosa sala ellittica, dove il 21 aprile ebbi il privilegio di tenere la prima conferenza dopo 52 anni (il tema era Pathos ed ethos). Si discusse molto allora su che cosa fare del Warburg-Haus, essendo impossibile riportarvi da Londra la biblioteca, peraltro assai cresciuta nel frattempo: finché Martin Warnke decise di dedicare l’edificio a un centro di ricerca sull’iconografia politica (ancora attivo, ha prodotto nel 2011 un Handbuch der politischen Ikonographie). La stessa convergenza, tradizione warburghiana e iconografia politica, è il legante dei cinque saggi del nuovo libro di Carlo Ginzburg ( Paura, reverenza, terrore. Cinque saggi di iconografia politica), con cui Adelphi apre una nuova collana dedicata - ha scritto Roberto Calasso - a vincere «l’ignara acquiescenza» con cui guardiamo di solito alle immagini, e battezzata Imago a memoria della rivista diretta da Freud. 

Studioso di incisiva intelligenza critica, Ginzburg non ha bisogno di scusarsi se non è uno storico dell’arte (lo fa a pagina 83): se non vi fossero tanti suoi altri studi, come le famose Indagini su Piero (1981), ogni pagina di questo libro lo mostra acutissimo osservatore di immagini, indagate come sintomi di una temperie storica o di una tendenza. Di un problema che richieda, a volerlo intendere, la simultanea convocazione di testi letterari e filosofici, documenti d’archivio, immagini d’ogni sorta. Due movimenti di metodo sono impliciti in questi studi: il primo è il ripudio di quelle che Warburg chiamava «le guardie confinarie delle cosiddette discipline», in nome di una ricerca storica orientata sui problemi, e onnivora quanto ai dati e alle fonti. A definire il secondo provvede lo stesso Ginzburg: «per capire il presente dobbiamo imparare a guardarlo di sbieco» (pagina 53). Doppiamente trasversale (tra le discipline, tra passato e presente), lo sguardo di Ginzburg individua nessi inattesi, segue piste improbabili, trae conclusioni sorprendenti. Davanti a un rosario di nodi gordiani, ognuno di questi saggi è un colpo di spada.
Due fili rossi corrono per questi testi (che spaziano da una coppa d’argento del 1530 a Picasso): il concetto warburghiano di Pathosformel e il tema della secolarizzazione, in testa alle «questioni oggi ineludibili» (pagina 83), in una mutua invasione della sfera del sacro e delle pratiche politiche. Un problema di Rapporti di forza, diremmo col titolo di un altro libro di Ginzburg (2000). Per esempio, il famoso manifesto dove Lord Kitchener punta il dito su chi guarda, invitandolo ad arruolarsi nell’esercito britannico (1914) non può intendersi senza una complessa genealogia, che include il tipo tardomedievale del Cristo Salvator mundi e immagini pubblicitarie del 1910 circa, ma anche il frequente artificio delle figure il cui sguardo sembra seguire lo spettatore in movimento. Il Cristo benedicente di Antonello è uno snodo indispensabile, per l’espediente prospettico della destra che sembra fuoriuscire dal quadro, ma alla ricca panoplia offerta da Ginzburg si può aggiungere un ingrediente, una Pathosformel: la storia nascosta del ’dito puntato’, un gesto altamente codificato come proprio di San Giovanni Battista, il Precursore che indica l’avvento del Messia in infinite immagini e testi. Rivolto non più al Cristo ma alla recluta, reso più pregnante dall’astuzia prospettica e pienamente secolarizzato, quel gesto conserva tuttavia un forte bagaglio allusivo sovraccarico di implicazioni religiose.
Il richiamo all’antichità classica è un altro Leitmotiv (anch’esso ben warburghiano) di questo libro: possiamo imputarvi, nel saggio appena citato, il passo di Plinio dove si parla di una Minerva dipinta che «si volgeva sempre all’osservatore, da qualsiasi direzione guardasse», o anche - nella Prefazione - il richiamo alla Morte di Orfeo che Dürer riprese da Mantegna, e che non risale a «mediazioni non più reperibili», ma alla Morte di Penteo di un sarcofago di Pisa noto dal sec. XIII. Anche il densissimo saggio sul Marat all’ultimo respiro è intriso di richiami antichi, ma a Ginzburg interessa la strategia rappresentativa di David: mettere in sordina l’allegoria e il decorum, optando per una forte compressione narrativa che «parla una lingua classica, ma con accento cristiano». Non è una visione pacificata: persuasivamente, Ginzburg indica nel quadro (e nel culto di Marat) il segnale di una secolarizzazione incompiuta, contraddittoria, intermittente, che s’intreccia con il percorso carsico delle religiosità di ieri e di oggi. 
Ma come può essere veicolo di iconografia politica un vaso d’argento, prezioso oggetto di corte, con fregi all’antica che presentano scene dal Nuovo Mondo? Con indagine serrata, Ginzburg argomenta l’ipotesi che il linguaggio ibrido della coppa consenta di attribuirla a un argentiere italiano attivo in Germania e noto a Dürer, Stefano Capello. Lo stile congiura con il tema della rappresentazione: battaglie fra umani e semiumani, ma anche animali esotici, uomini e donne con corone di piume, scene di caccia e di musica. Fittizie istantanee di vita quotidiana nelle Americhe, ma filtrate attraverso formule all’antica che da Mantegna in poi popolarono l’arte europea: «questo linguaggio agì come un elemento di distanziazione, proiettando la feroce realtà della conquista spagnola in un remoto mondo mitologico».
Inconsueti per tema e per taglio, questi saggi lo sono ancor di più per la capacità di penetrare nella struttura delle fonti. In quello sul frontispizio del Leviathan di Hobbes, un minuto dettaglio (due medici con con la maschera a becco anti-peste) e uno scarto impercettibile nella traduzione di Hobbes da Tucidide cospirano a precisare un sottile vocabolario politico, fra “soggezione” e “paura”. Nel saggio su Guernica, lo scopo di «ricostruire lo shock iniziale del quadro» è raggiunto con le armi della filologia (ripercorrendo la traiettoria del dipinto dai primissimi abbozzi), dell’etimologia (tracce di iconografia classica), delle regole di genere (la composizione pittorica in forma di fregio), dell’attualità politica (Picasso come anti-Goethe secondo Carl Einstein), dell’inclinazione estetica (Picasso e Bataille).
Secondo il grande storico Gaetano De Sanctis, «la vita è maestra della storia» (1916): le urgenze dell’oggi ci spingono a leggere il passato come lievito vivente della comunità umana. Guardando di sbieco il passato a partire dal presente e il presente a partire dal passato, Ginzburg trapianta nel lettore la sua inesauribile curiosità. Forse, c’è da chiedersi, a leggerla bene tutta l’iconografia è politica.
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La sintassi del pathos proiettata sulla storia
Saggi. Carlo Ginzburg illustra, in "Paura reverenza terrore. Cinque saggi di iconografia politica", quella cesura che la modernità ha preteso di introdurre nell’orizzonte classico e in quello cristianoLuca Illetterati Manifesto 27.9.2015, 6:00
L’intento di Free­d­berg era, insomma, quello di mostrare che il potere delle imma­gini implica un rico­no­sci­mento dell’esistenza di forme di base della rispo­sta umana, forme che hanno a che fare innan­zi­tutto con l’architettura del cer­vello e con la spe­ci­fi­cità bio­lo­gica. Que­sto non esclude affatto che il potere delle imma­gini sia andato for­man­dosi secondo una dina­mica sto­rica di costru­zione dei signi­fi­cati; ma i signi­fi­cati pos­sono venire costruiti, secondo Free­d­berg, solo a par­tire da uno sfondo di rispo­ste reat­tive che non sono a loro volta costruite.
Sono con­si­de­ra­zioni, quelle di Free­d­berg, che ven­gono in mente leg­gendo i cin­que note­vo­lis­simi saggi che com­pon­gono l’ultimo libro di Carlo Ginz­burg, Paura reve­renza, ter­rore, (pp. 311, euro 40,00) con il quale Adel­phi inau­gura una col­lana inti­to­lata, signi­fi­ca­ti­va­mente, Imago. Il libro si pre­senta come com­po­sto da una serie di per­corsi che sono insieme filo­so­fici, este­tici e soprat­tutto storico-politici (il sot­to­ti­tolo è infatti Cin­que saggi di ico­no­gra­fia poli­tica): ogni sag­gio ruota intorno a un’immagine che mira a far emer­gere quelle che War­burg chia­mava le for­mule di pathos, ovvero le raf­fi­gu­ra­zioni nell’arte di deter­mi­nati gesti cita­bili appunto come for­mule e che vei­co­lano deter­mi­nate emo­zioni e deter­mi­nate gerarchie.
Secondo War­burg il Rina­sci­mento, e dun­que l’alba della moder­nità, è carat­te­riz­zato dal recu­pero di alcuni gesti di emo­zione dal voca­bo­la­rio ico­no­gra­fico antico cui viene non di rado attri­buito un signi­fi­cato rove­sciato, per cui, ad esem­pio, la fre­ne­sia esta­tica delle bac­canti viene uti­liz­zata per espri­mere la fre­ne­sia intrin­seca al dolore di Maria Mad­da­lena. Ciò che soprat­tutto inte­ressa Ginz­burg – e per que­sto viene in mente di asso­ciar­gli il lavoro di Free­d­berg, al quale si avvi­cina nella ricerca delle costanti ico­no­gra­fi­che in grado di pro­durre emo­zione, ma dal quale anche radi­cal­mente si allon­tana mostrando come que­ste costanti pos­sano assu­mere a seconda delle epo­che e delle cir­co­stanze signi­fi­cati non solo diversi, ma tal­volta anche oppo­sti – è essen­zial­mente l’intreccio fra que­ste for­mule di pathos, fra que­sto voca­bo­la­rio in grado di attra­ver­sare con­te­sti diversi e visioni del mondo appa­ren­te­mente incom­men­su­ra­bili, e le con­tin­genze sto­ri­che impre­sci­di­bili a che que­sta sin­tassi assuma quei deter­mi­nati significati.
Il primo sag­gio è dedi­cato a una coppa d’argento dorato pro­dotta ad Anversa intorno al 1530, nelle cui deco­ra­zioni, che ripren­dono raf­fi­gu­ra­zioni clas­si­che dell’età dell’oro, Ginz­burg legge l’ambiguità con cui si guar­dava all’inizio del ‘500 a quella che può essere con­si­de­rata come una delle cesure più scon­vol­genti con cui si apre l’età moderna, ovvero la sco­perta del Mondo Nuovo.
Il secondo sag­gio è dedi­cato alla famosa imma­gine, e alle modi­fi­ca­zioni che le sono state appor­tate, che si trova sul fron­te­spi­zio del Levia­tano di Tho­mas Hob­bes. La rap­pre­sen­ta­zione del Levia­tano e del pecu­liare rap­porto di sot­to­mis­sione dei sud­diti diventa l’occasione per Ginz­burg di insi­nuarsi, soprat­tutto attra­verso l’analisi dei pre­ce­denti clas­sici, e in primo luogo attra­verso l’analisi della tra­du­zione da parte di Hob­bes della Guerra del Pelo­pon­neso di Tuci­dide, den­tro le pecu­lia­rità di un ter­mine chiave della con­cet­tua­liz­za­zione hob­be­siana e con­se­guen­te­mente di tutta la filo­so­fia poli­tica moderna, e cioè la parola inglese awe, in cui con­flui­scono, ancora una volta ambi­gua­mente e in modo tra­sfi­gu­rato rispetto alla clas­si­cità greca e romana, tanto la reve­renza quanto il terrore.
Il terzo sag­gio (quello forse più straor­di­na­rio per ampiezza e pro­fon­dità di ana­lisi) è dedi­cato al cele­bre Marat di Jeacques-Louis David. Qui Ginz­burg mostra come que­sto qua­dro – uno dei primi o forse addi­rit­tura il primo a essere datato in base a un calen­da­rio privo di con­no­ta­zioni clas­si­che o cri­stiane (anno due dell’era repub­bli­cana) e che non a caso secondo molti inter­preti inau­gura il moder­ni­smo in pit­tura – costi­tui­sca una sapiente rie­la­bo­ra­zione di rap­pre­sen­ta­zioni gestuali e carat­teri ico­no­gra­fici sia clas­sici che cri­stiani. Il Marat di David non è dun­que, secondo Ginz­burg, sem­pli­ce­mente un qua­dro poli­tico, bensì un atto poli­tico, ovvero la costru­zione sapiente di una legit­ti­ma­zione del potere repub­bli­cano attra­verso la posi­zione dell’eroe rivo­lu­zio­na­rio nel luogo dell’eroe clas­sico e del santo cristiano.
L’indagine di Ginz­burg, tut­ta­via, non si rivolge solo a oggetti arti­stici dei quali è lecito pen­sare che siano in se stessi un luogo di con­fronto con la tra­di­zione da cui pro­ven­gono: lo dimo­stra il quarto sag­gio, che è infatti dedi­cato alla famosa imma­gine pro­pa­gan­di­stica del dito pun­tato con il quale la patria chiede l’arruolamento ai pro­pri cit­ta­dini: una ico­no­gra­fia usata per la prima volta da Lord Kit­che­ner in nome del Regno Bri­tan­nico nella Prima Guerra Mon­diale e poi ripresa tanto nel famoso I Want You dello Zio Sam ame­ri­cano, quanto da tutte le pro­pa­gande dei regimi tota­li­tari nella prima metà del Nove­cento. Anche qui ciò che viene messo in evi­denza, soprat­tutto a par­tire dallo sguardo di colui che chiama e che si rivolge all’osservatore da qua­lun­que parte lo si guardi, è il carat­tere insieme clas­sico e reli­gioso alle spalle dell’icona, che dun­que si appro­pria più o meno con­sa­pe­vol­mente, di un voca­bo­la­rio misti­cheg­giante e appa­ren­te­mente estra­neo alla tipo­lo­gia della comu­ni­ca­zione in gioco: ma pro­prio que­sto, seb­bene in modo subli­mi­nale e non espli­cito, la rende efficace.
A chiu­dere il volume sta un testo denso e arti­co­lato su quella che è forse l’icona più famosa dell’arte nove­cen­te­sca, Guer­nica di Picasso. Anche in que­sto caso Ginz­burg si ferma sugli ele­menti di clas­si­cità che inner­vano la tor­men­tata ela­bo­ra­zione del dipinto: ele­menti clas­sici che get­tano luce sulla straor­di­na­ria ambi­guità del qua­dro. Guer­nica è infatti l’icona dell’antifascismo, il qua­dro anti­fa­sci­sta per anto­no­ma­sia in cui, tut­ta­via, il fasci­smo è assente, per­ché non vi trova rap­pre­sen­ta­zione.
Dun­que, le cin­que imma­gini ana­liz­zate da Ginz­burg sono tutte illu­stra­tive di quel pro­cesso sto­rico non inte­ra­mente chia­rito che va per­lo­più sotto il nome di moder­nità. E in qual­che modo ciò che que­sti per­corsi ten­dono a pro­ble­ma­tiz­zare è pro­prio que­sta nozione di moder­nità, ovvero la cesura che essa pre­tende rispetto all’orizzonte clas­sico e all’orizzonte cri­stiano.
Par­ti­co­lar­mente inte­res­santi sono i passi in cui Ginz­burg mette in luce l’ambiguità del con­cetto di seco­la­riz­za­zione: le società seco­la­riz­zate, sem­bra dire l’autore, più di quanto non siano segnate dal disin­canto e dalla dis­so­lu­zione della reli­gione, sono comu­nità che si fon­dano e si costi­tui­scono occu­pando la sfera del sacro, inva­den­done lo spa­zio: appro­prian­dosi dell’aura della reli­gione, piut­to­sto che annien­tan­dola. Le società seco­la­riz­zate non si con­trap­pon­gono in senso pro­prio alla reli­gione, ma si sosti­tui­scono ad essa su quello stesso ter­reno. Pro­prio da que­ste ana­lisi pun­tuali, che guar­dano lon­tano nel tempo, ci rie­sce meglio capire qual­cosa di più anche del mondo post 11 set­tem­bre: meglio di quanto non avvenga gra­zie a molte discus­sioni poli­to­lo­gi­che pri­gio­niere di un pre­sente che, se lasciato a se stesso, si rivela muto.

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