domenica 27 settembre 2015

Io sono il Signore Dio tuo: una nuova edizione per "Le origini del capitalismo" di Jean Baechler

Jean Baechler: Le origini del capitalismo, IBL libri, pp. 166, € 18

Risvolto

Perché l’Occidente è diventato ricco? Perché il capitalismo è nato in Europa? Perché la rivoluzione industriale è avvenuta in Inghilterra e non altrove? Sono questioni ormai “classiche”, sulle quali si sono esercitati pensatori del rilievo di Karl Marx e Max Weber e, più di recente, intere generazioni di storici dell’economia.

Nel 1971, Jean Baechler avanzava una tesi originale, destinata a influenzare profondamente gli studi successivi: è soprattutto per ragioni “politiche” se il capitalismo è nato in Europa. Le sue radici vanno ricercate nel pluralismo della società feudale: nel fatto, cioè, che un’area culturalmente omogenea non diede origine a un solo Impero, ma al contrario divenne un mosaico di unità politiche differenti e impegnate a limitare le une le pretese delle altre. È stata, di conseguenza, una politica “a bassa intensità” che ha consentito la fioritura dei commerci, lo sviluppo delle imprese, le sperimentazioni scientifiche e organizzative e, infine, quella “crescita economica moderna” che è coincisa con un miglioramento delle condizioni di vita senza precedenti nella storia dell’umanità.

Negli ultimi vent’anni l’importanza del pluralismo politico per l’emergere del capitalismo è diventata moneta corrente. Ma è in questo testo, frutto di un dialogo serrato con Marx, che trova la sua prima, geniale formulazione.

«Le origini del capitalismo – scrivono Luigi Marco Bassani e Alberto Mingardi nella loro Prefazione – è un piccolo gioiello della storiografia europea».

Jean Baechler è professore emerito di Sociologia storica all’Université Paris-Sorbonne (Paris IV) e membro dell’Académie des sciences morales et politiques. In traduzione italiana sono usciti anche Democrazia oggi. Morte e resurrezione di un sistema (Ecig, 1996) e I fenomeni rivoluzionari (Il formichiere, 1976). - See more at: http://www.brunoleoni.it/nextpage.aspx?codice=17977#sthash.1SWjNCJM.dpuf
Perché l’Occidente è diventato ricco? Perché il capitalismo è nato in Europa? Perché la rivoluzione industriale è avvenuta in Inghilterra e non altrove? Sono questioni ormai “classiche”, sulle quali si sono esercitati pensatori del rilievo di Karl Marx e Max Weber e, più di recente, intere generazioni di storici dell’economia.
Nel 1971, Jean Baechler avanzava una tesi originale, destinata a influenzare profondamente gli studi successivi: è soprattutto per ragioni “politiche” se il capitalismo è nato in Europa. Le sue radici vanno ricercate nel pluralismo della società feudale: nel fatto, cioè, che un’area culturalmente omogenea non diede origine a un solo Impero, ma al contrario divenne un mosaic
o di unità politiche differenti e impegnate a limitare le une le pretese delle altre. È stata, di conseguenza, una politica “a bassa intensità” che ha consentito la fioritura dei commerci, lo sviluppo delle imprese, le sperimentazioni scientifiche e organizzative e, infine, quella “crescita economica moderna” che è coincisa con un miglioramento delle condizioni di vita senza precedenti nella storia dell’umanità.
Negli ultimi vent’anni l’importanza del pluralismo politico per l’emergere del capitalismo è diventata moneta corrente. Ma è in questo testo, frutto di un dialogo serrato con Marx, che trova la sua prima, geniale formulazione.
Jean Baechler è professore emerito di Sociologia storica all’Université Paris-Sorbonne (Paris IV) e membro dell’Académie des sciences morales et politiques. In traduzione italiana sono usciti anche Democrazia oggi. Morte e resurrezione di un sistema (Ecig, 1996) e I fenomeni rivoluzionari (Il formichiere, 1976).


Tra politica ed economia il capitalismo è una fisarmonica
Pubblicato per la prima volta in Italia il saggio di Jean Baechler sulle origini del libero mercato nello spazio unificato della cultura europea 

Giovanni Orsina la stampa 27 9 2015

Spiegare per quale ragione a un certo punto della storia l’Occidente sia «decollato», ossia perché in una vicenda umana fatta di «società stazionarie» sia nato un piccolo nucleo di «società progressive» – per riprendere le parole del grande giurista inglese Henry Maine –, resta per storici, sociologi ed economisti una delle sfide intellettuali più importanti e affascinanti.
Oltre ad avere uno straordinario rilievo storico, poi, a seconda di come la si scioglie la questione può anche cambiare il modo in cui affrontiamo i molti nodi oscuri del nostro tempo. Se sia inevitabile, possibile, o desiderabile, che il modello occidentale sia esportato in tutto il mondo. E, se è inevitabile o possibile e desiderabile, in quale modo se ne possano ammortizzare i costi enormi. Se il passaggio dalle società stazionarie alle progressive sia irreversibile – o se non ci sia invece il rischio che il progresso divori infine se stesso, creando un’instabilità tale da richiedere che si torni alla stasi. E ancora: quanto il progresso e la stasi vengano dalla politica e quanto dall’economia, e dove sia quel magico punto d’equilibrio fra la politica e l’economia nel quale il progresso avanzerà al «giusto» ritmo e nel «giusto» ordine.
Proprio perché l’interrogativo è così importante, e la risposta che gli si dà tanto gravida di conseguenze, a scioglierlo ci hanno provato in molti. Quando è uscito in francese nel 1971, perciò, il volumetto di Jean Baechler su Le origini del capitalismo, che ripubblica ora in italiano l’Istituto Bruno Leoni (IBL libri, pp. 166, € 18), scendeva in un campo intellettuale già ampiamente dissodato, sul quale s’erano mosse per un secolo e mezzo le menti migliori delle scienze sociali. E tuttavia, in un ambito così difficile, quel volumetto ci scendeva bene.
Innanzitutto perché rispettava la forma del saggio: breve, agile, affilato, tutto costruito intorno a una tesi chiara, dimostrata in maniera precisa ma parsimoniosa. Ma ancor di più perché prendeva una posizione che, in quegli anni, era originale – perfino provocatoria. E che però riletta oggi – anche alla luce della storiografia di quest’ultimo quarantennio, che l’ha largamente confermata – appare convincente: le origini del capitalismo devono essere ricercate non sul terreno economico, ma su quello politico e istituzionale. Più precisamente: il capitalismo è nato nell’Europa del secondo millennio dopo Cristo perché vi ha trovato uno spazio unificato culturalmente, in grado perciò di fornire un mercato abbastanza vasto, ma frazionato politicamente, ossia incapace di tenere sotto controllo i processi economici.
Non ho qui il modo per illustrare compiutamente in quale modo Baechler dimostri la sua tesi e la sviluppi: ragionando su Karl Marx e Max Weber, cercando prove e controprove in Europa e fuori di essa, tentando di individuare il nucleo concettuale del capitalismo, descrivendo l’emergere dei suoi diversi protagonisti – l’imprenditore, il tecnologo, il lavoratore, il consumatore. 
Mi limiterò quindi a sviluppare una breve riflessione su un solo punto, che mi pare tuttavia di straordinaria attualità: il problema del controllo. Affermando che il capitalismo si sviluppa, date certe condizioni, dalla debolezza della politica, Baechler ci dice in sostanza che vi è una relazione inversa fra la capacità degli esseri umani di controllare il proprio ambiente (ossia, lo sviluppo economico e tecnologico) e quella di controllare gli altri esseri umani (ossia, il potere politico): più aumenta l’una più diminuisce l’altra, e viceversa. Questa tesi – se la si accoglie – porta a uno dei nodi problematici più profondi e ingarbugliati dell’epoca moderna: da un lato lo sviluppo economico e tecnologico generatosi grazie alla debolezza del potere politico ha enormemente contribuito negli ultimi tre secoli ad «aprire» la storia, avviando processi di mutamento sociale sempre più tumultuosi; dall’altro l’«apertura» della storia ha generato angosce tali da spingere gli esseri umani a reclamare protezione da parte di un potere politico più forte ed efficace.
La storia degli ultimi due secoli può insomma essere interpretata come un continuo movimento «a fisarmonica» fra le due forme di controllo, l’economico-tecnologica e la politica. E molte delle vicende dei nostri giorni possono esser lette come un tentativo di ridare forza alla politica in un’epoca di predominio dell’economia. Quell’epoca che si è aperta negli Anni Settanta e che Baechler, con le sue tesi storiche, ha in qualche modo saputo anticipare. 



Spiegare per quale ragione a un certo punto della storia l’Occidente sia «decollato», ossia perché in una vicenda umana fatta di «società stazionarie» sia nato un piccolo nucleo di «società progressive» – per riprendere le parole del grande giurista inglese Henry Maine –, resta per storici, sociologi ed economisti una delle sfide intellettuali più importanti e affascinanti.
Oltre ad avere uno straordinario rilievo storico, poi, a seconda di come la si scioglie la questione può anche cambiare il modo in cui affrontiamo i molti nodi oscuri del nostro tempo. Se sia inevitabile, possibile, o desiderabile, che il modello occidentale sia esportato in tutto il mondo. E, se è inevitabile o possibile e desiderabile, in quale modo se ne possano ammortizzare i costi enormi. Se il passaggio dalle società stazionarie alle progressive sia irreversibile – o se non ci sia invece il rischio che il progresso divori infine se stesso, creando un’instabilità tale da richiedere che si torni alla stasi. E ancora: quanto il progresso e la stasi vengano dalla politica e quanto dall’economia, e dove sia quel magico punto d’equilibrio fra la politica e l’economia nel quale il progresso avanzerà al «giusto» ritmo e nel «giusto» ordine.
Proprio perché l’interrogativo è così importante, e la risposta che gli si dà tanto gravida di conseguenze, a scioglierlo ci hanno provato in molti. Quando è uscito in francese nel 1971, perciò, il volumetto di Jean Baechler su Le origini del capitalismo, che ripubblica ora in italiano l’Istituto Bruno Leoni (IBL libri, pp. 166, € 18), scendeva in un campo intellettuale già ampiamente dissodato, sul quale s’erano mosse per un secolo e mezzo le menti migliori delle scienze sociali. E tuttavia, in un ambito così difficile, quel volumetto ci scendeva bene.
Innanzitutto perché rispettava la forma del saggio: breve, agile, affilato, tutto costruito intorno a una tesi chiara, dimostrata in maniera precisa ma parsimoniosa. Ma ancor di più perché prendeva una posizione che, in quegli anni, era originale – perfino provocatoria. E che però riletta oggi – anche alla luce della storiografia di quest’ultimo quarantennio, che l’ha largamente confermata – appare convincente: le origini del capitalismo devono essere ricercate non sul terreno economico, ma su quello politico e istituzionale. Più precisamente: il capitalismo è nato nell’Europa del secondo millennio dopo Cristo perché vi ha trovato uno spazio unificato culturalmente, in grado perciò di fornire un mercato abbastanza vasto, ma frazionato politicamente, ossia incapace di tenere sotto controllo i processi economici.
Non ho qui il modo per illustrare compiutamente in quale modo Baechler dimostri la sua tesi e la sviluppi: ragionando su Karl Marx e Max Weber, cercando prove e controprove in Europa e fuori di essa, tentando di individuare il nucleo concettuale del capitalismo, descrivendo l’emergere dei suoi diversi protagonisti – l’imprenditore, il tecnologo, il lavoratore, il consumatore. 
Mi limiterò quindi a sviluppare una breve riflessione su un solo punto, che mi pare tuttavia di straordinaria attualità: il problema del controllo. Affermando che il capitalismo si sviluppa, date certe condizioni, dalla debolezza della politica, Baechler ci dice in sostanza che vi è una relazione inversa fra la capacità degli esseri umani di controllare il proprio ambiente (ossia, lo sviluppo economico e tecnologico) e quella di controllare gli altri esseri umani (ossia, il potere politico): più aumenta l’una più diminuisce l’altra, e viceversa. Questa tesi – se la si accoglie – porta a uno dei nodi problematici più profondi e ingarbugliati dell’epoca moderna: da un lato lo sviluppo economico e tecnologico generatosi grazie alla debolezza del potere politico ha enormemente contribuito negli ultimi tre secoli ad «aprire» la storia, avviando processi di mutamento sociale sempre più tumultuosi; dall’altro l’«apertura» della storia ha generato angosce tali da spingere gli esseri umani a reclamare protezione da parte di un potere politico più forte ed efficace.
La storia degli ultimi due secoli può insomma essere interpretata come un continuo movimento «a fisarmonica» fra le due forme di controllo, l’economico-tecnologica e la politica. E molte delle vicende dei nostri giorni possono esser lette come un tentativo di ridare forza alla politica in un’epoca di predominio dell’economia. Quell’epoca che si è aperta negli Anni Settanta e che Baechler, con le sue tesi storiche, ha in qualche modo saputo anticipare.

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