domenica 27 settembre 2015

La storia sociale della guerra civile americana di Bruce Levine

Bruce Levine: La guerra civile americana. Una nuova storia, Einaudi

Risvolto
La piú autorevole storia sociale della Guerra di secessione americana, le origini della ribellione del Sud e le violente trasformazioni che portarono alla scomparsa di un mondo idilliaco e opulento, fondato sullo sfruttamento di quattro milioni di schiavi neri.
Nel 1860 il Sud degli Stati Uniti era una regione ricca e florida, dove una piccola minoranza aveva accumulato immense fortune e un enorme potere politico grazie al sistema di sfruttamento della popolazione di colore. Anche i bianchi non schiavi appoggiavano gli interessi dei proprietari delle piantagioni, nonostante lo spropositato divario di ricchezza che li separava da essi. Ma alla fine del 1865 questo mondo collassò. Milioni di schiavi ottennero la libertà, molti bianchi poveri smisero di assecondare i loro vicini benestanti, e i proprietari terrieri si ritrovarono privati della loro principale fonte di ricchezza: tutto il loro idilliaco mondo e modo di vivere svaní all'improvviso. Questo cambiamento epocale, avvertito da tutta l'America, avviò il paese in direzione della democrazia e della parità dei diritti. Levine dà conto dei numerosi, drammatici aspetti di questa vicenda ricorrendo a una grande quantità di diari, lettere, articoli di giornale, documenti governativi, ecc. In questo libro la reale posta in gioco politica e sociale della Guerra civile diventa piú chiara che mai: gli schiavi combattono per la loro libertà fronteggiando brutali rappresaglie; Abraham Lincoln e il suo partito trasformano quella che era iniziata come una guerra attinente all'Unione in una crociata contro la schiavitú. Quando il fumo delle battaglie si diradò, le regioni Dixie e tutta la società americana si scoprirono cambiate per sempre.




















La carneficina che creò gli Usa 
Per capire l’America di oggi bisogna tornare sui campi dove si scontrarono a morte «yankees» e «Johnny Reb» 
Gianni Riotta Tuttolibri 3 10 2015
Durante la guerra civile americana, 1861-1865, che oppone gli stati del nord industriale a quelli del sud agricolo e schiavista, cadono più vittime che non in tutte le altre guerre Usa, dall’Indipendenza all’Iraq. Il dollaro «nazionale» si afferma con i National Banking Acts del 1863-1864, embrione che poi darà vita alla Federal Reserve. Il dollaro divenne sola valuta, eliminando i dollari spagnoli spesso usati. Dal sangue sui campi di battaglia di Bull Run I e II, Cold Harbor, Gettysburg, Vicksburg nasce un nuovo paese e senza comprendere gli Stati Uniti prima e dopo che «yankees» in giacca blu e «Johnny Reb» in mal colorate divise grigie si battessero a morte, non si comprendono gli Usa oggi.
Bruce Levine, storico dell’università dell’Illinois, ha pubblicato due anni fa una storia sociale del conflitto, ora tradotta da Einaudi come La guerra civile americana. Mentre il vecchio Shelby Foote ci aveva dato il quadro pittoresco di quei giorni, McPherson il panorama completo degli eventi, il marxista Foner lo studio della Ricostruzione che segue la guerra e l’inglese Keegan l’analisi militare, Levine sceglie la schiavitù come chiave di interpretazione della Guerra di secessione. Quando il generale sudista Beauregard apre il fuoco sulla piazzaforte federale di Fort Sumner, cominciando le ostilità, l’ultimo censimento, datato 1860, conta 31.443.321 americani. Di questi solo 60.000 possedevano almeno 20 schiavi, tremila latifondisti ne avevano un centinaio, un aristocratico della Georgia si vantava di avere sui campi di cotone 1500 infelici. Tranne quattro presidenti, Lincoln incluso, alla Casa Bianca avevano regnato sempre proprietari di schiavi. Non si tratta – Levine lo chiarisce bene - solo di un diverso sistema economico, fabbriche del Nord contro piantagioni del Sud. Era due diverse società, il Nord guardava all’Europa, all’illuminismo, il Sud all’America Latina, a una concezione feudale del mondo. Gli yankee credevano in democrazia, mercato, commerci, i ribelli Confederati del Dixieland preferivano protezionismo e sfruttamento del latifondo.
Abraham Lincoln, che dalle pagine di Levine il contemporaneo Karl Marx ancora accusa di «eccessiva prudenza», non vuole dapprima abolire la schiavitù, ma salvare l’Unione secondo l’umore dei democratici e dei moderati del suo partito repubblicano. Ma – come intuisce il geniale politico afroamericano Frederick Douglass, che schiavo era stato - una volta scatenati dalla secessione, gli eventi non si fermano e portano all’Emancipazione degli schiavi, firmata da Lincoln che genera gli Usa contemporanei.
I bianchi poveri del Sud, che non avevano schiavi e si spaccavano la schiena per competere invano con i latifondisti, non avevano interesse alla vittoria Confederata. Pure si batterono con un valore che lascia stupiti, fino all’ultimo, contro i connazionali, per patriottismo, senso del dovere, un entusiasmo commovente per una causa sbagliata. I combattenti della battaglia di Cold Harbor, certi di cadere, scrivevano il proprio nome sul fazzoletto e se lo cucivano sulla giacca, per far riconoscere il cadavere il giorno dopo.
Quando il Sud scompare, cadono la schiavitù sessuale (perfino Malcolm X, profeta della rivolta nera anni ’60 aveva i capelli rossi, testimonianza genetica dello stupro di un antenato bianco), l’idea razzista che i bianchi avessero diritto divino a dominare, che l’orgoglio marziale del Sud avrebbe umiliato i commercianti pavidi del Nord. Presto i bianchi trasformano al Sud la schiavitù in servitù della gleba, terrorizzando i neri con il codice razzista Jim Crow, e ci vorranno un altro secolo il reverendo King e il presidente Johnson perché i diritti civili emancipino l’Ole South. Simbolicamente la guerra non è mai finita, se un giovane killer uccide in una chiesa afroamericana usando la bandiera della Confederazione a pretesto e solo allora si decide di ammainare la bandiera di guerra sudista dagli edifici pubblici ma la direzione che ha imposto non è mai mutata. Firmando la resa davanti al nordista generale Grant, il generale sudista Lee si stupisce nel vedere allo Stato Maggiore unionista un tenente colonnello dalla pelle scura, Ely Parker, indiano della tribú Seneca. «Mi fa piacere di vedere qui un vero americano - dice cortese Lee, ma è la replica di Parker a cogliere il vento della Storia Generale -, da ora in avanti siamo tutti americani».

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