venerdì 30 ottobre 2015

Benedetto Croce storico della letteratura e critico letterario

Benedetto Croce: Poeti e scrittori d’Italia I - Dallo stil novo al barocco, Adelphi, pagg. 519, euro 34

Risvolto

 Un disegno storico della letteratura italiana secondo Croce? Nulla gli sarebbe stato più estraneo. «La “Storia della letteratura italiana” quale per mio conto l'intendo» scrive nell'Avvertenza a Poesia popolare e poesia d'arte (1933) «è l'indagine, la discussione e lo schiarimento di quei punti, quegli autori e opere, della nostra letteratura, che reputo finora non abbastanza, a mio senso, schiariti»: di necessità, una suite di saggi e monografie, dedicati all'analisi di ciò che caratterizza il singolo artista. Così, quella che qui si offre è piuttosto un'antologia di quanto Croce, nell'arco di sessant'anni circa di attività, ha scritto in materia di letteratura italiana, dalle Origini sino al Novecento. E scopriremo, percorrendola, che Croce non ha trascurato alcuno dei suoi momenti principali, tornando spesso su taluni argomenti, magari per correggersi; che da vero pioniere si è occupato di temi poco frequentati e ha divulgato innumerevoli testi inediti o minori; ma soprattutto che a lui si deve un vastissimo, originale patrimonio di analisi, idee e giudizi storico-letterari, insostituibile fondamento per gli studi. Un patrimonio che oggi – liberi da profili, panorami, lineamenti e quadri storici della letteratura – possiamo finalmente ritrovare, assaporando una scrittura che rappresenta, sono parole di Gianfranco Contini, «la massima prosa non d'arte, prosa insieme democratica e controllata, per di più ricchissima d'invenzione terminologica, di quella che egli chiamava la nuova Italia».
La rivincita di Croce il critico guerriero

Si riaccende il dibattito sui suoi studi letterari

PAOLOMAURI repubblica 30 10 2015
Dopo aver dominato la cultura italiana e non solo per oltre mezzo secolo Benedetto Croce è uscito di scena in modo abbastanza drastico: secondo Natalino Sapegno, per esempio, non aveva capito fino in fondo la portata della lezione di Marx da lui liquidato troppo presto;
secondo i seguaci delle nuove teorie critiche legate prima all’analisi stilistica e poi allo strutturalismo era rimasto ostinatamente aggrappato ad una concezione del linguaggio che non stava in piedi, insomma il suo pensiero sulla linguistica, scriveva Tullio De Mauro nel 1965 era «una bomba piena di esplosiva follia». Adesso però l’interesse si riaccende. Come dimostra la ripubblicazione, da parte di Adelphi, del suo Poeti e scrittori d’Italia , a cominciare dal primo volume.
Un’ampia antologia di scritti sulla nostra letteratura dalle origini al primo Novecento. Giuseppe Galasso, nel rigoroso e dettagliato saggio introduttivo a questo primo capitolo, accenna addirittura all’irrisione di cui Croce fu vittima da parte dei suoi detrattori. Ma ancora Benvenuto Terracini, che possiamo considerare un alfiere della critica stilistica ai suoi esordi in Italia, rende omaggio alla posizione altissima che Croce ha occupato nei confronti della nostra cultura e sottolinea l’incontro tra Croce, Vossler e Spitzer, cioè proprio nell’ambito che avrebbe promosso l’analisi stilistica dei testi. Fermarsi su ciò che Croce non fece, non volle fare o capire è in questa sede poco remunerativo: conviene dunque chiedersi invece che cosa il lettore di oggi può trovare nelle pagine di Croce dedicate ai secoli d’oro della nostra letteratura.
Intanto registriamo un dato di non piccolo conto: Croce è un combattente e continuamente deve battersi con chi ha un’idea della poesia che lui proprio non condivide. Per esempio Croce non ama i dantisti: secondo lui tutte le costruzioni erudite a partire dalla
Commedia servono solo a umiliare la grande poesia di Dante, che tuttavia non pertiene a tutta l’opera, ma solo a quei momenti eccelsi in cui c’è vera poesia. Croce scrisse per il sesto centenario della morte di Dante, dunque nel 1921, un libro di cui l’antologia conserva alcune parti: libro che fu a sua volta accusato di distruggere l’unità del poema. Ma, alla fine, sappiamo dire una volta per tutte che cos’è la poesia? È una domanda infinita alla quale si possono dare (e sono state date nel tempo) molte risposte, ma in genere queste risposte riguardano il modo in cui si fa una poesia. Una volta Luzi, in una intervista, disse che i poeti danno voce al nostro malessere.
Croce si occupò per tutta la vita della questione e ne scrisse moltissimo, mettendo però sempre in campo quello che una volta Contini chiamò un sistema binario, l’opposizione tra poesia e non poesia. L’ago della bilancia alla fine era affidato alla sensibilità del critico.
E Croce, per esempio, nega che vi sia stata poesia in Italia dal 1375 al 1475 e non ha riguardi verso il barocco (cosa che irritò Praz) e le sue esagerazioni, come verso personaggi-poeti di gran fama e gloria come Marino o come Metastasio. E se si occupa di Ariosto deve fatalmente mettere da parte i lavori eruditissimi di Pio Rajna sulle fonti del poema e demolire l’idea di trasformare la critica letteraria in una scienza del concreto, dove il concreto è soprattutto erudizione. In sostanza la sua era una battaglia contro il positivismo di fine secolo ben saldo in cattedra e nelle riviste come il Giornale storico della letteratura italiana
che usciva a Torino. Se proprio doveva costruirsi un albero genealogico, Croce non esitava a ricorrere a Vico e al più vicino De Sanctis. Roman Jakobson andava intanto teorizzando, all’altezza degli anni Trenta, che si può fare poesia con qualsiasi materiale il che ci dice che i formalisti russi stavano portando la critica letteraria su un pianeta sconosciuto e certo molto distante da quello crociano, dove poesia si opponeva a non poesia e poesia si distingueva da letteratura. Boccaccio è per Croce un poeta e sbagliano coloro che si affannano a parlare di novelle a proposito del Decamerone , così come sbaglia chi dice che Boccaccio rispecchia la società del suo tempo perché la vera poesia è un assoluto e non ha bisogno di rispecchiare niente.
Nel 1929 Jurij Tynianov aveva scritto, invece, che i confini tra letteratura e vita sono fluidi e forse è così anche per quel che riguarda l’opera di Boccaccio, ma con Tynianov ci spostiamo di nuovo in ambito formalista e dunque in una prospettiva completamente diversa da quella crociana.
Ho sempre pensato che la critica letteraria rivolga, per così dire, domande sempre diverse alle opere che prende in esame e per questo cambia anche radicalmente, anzi: sente la necessità inderogabile di cambiare. Per questo ogni esperienza critica conosce una inevitabile crisi e così è stato anche per lo strutturalismo e altre forme recenti di analisi, come Cesare Segre ha puntualmente registrato nei suoi libri. Riattraversare l’opera di Croce ha senso se si accetta quell’esperienza in base a quello che ancora può darci e non è davvero poco. Negli anni Cinquanta, per esempio, Giacomo Debenedetti partiva dal saggio di Croce su Pascoli (che è del 1906) per illustrare il poeta ai suoi allievi di Messina.
Con Croce il dialogo non è chiuso. Umberto Eco nel riprendere i temi dell’ Estetica di Croce negli anni Novanta ne mette in luce le contraddizioni (il saggio si può ora leggere nel volume Kant e
l’ornitorinco 1997) ma alla fine conclude che Croce fa giustizia delle contraddizioni perché è uno scrittore travolgente: «Il ritmo, il dosaggio di sarcasmo e riconciliata riflessione, la perfezione tornita del periodo, rendono persuasiva qualunque cosa egli pensi o dica». Non ho niente da aggiungere.


Croce: Poesia e letteratura, l’impossibile storia «Poeti e scrittori d'Italia I»: dai saggi e studi di Croce, a cura di Giuseppe Galasso. Riottoso di fronte alla possibilità di una Storia della letteratura, il filosofo escogitò la successione dei capitoli monografici: come questa ‘costruzione’

Raffaele Manica Alias 15.11.2015, 1:13

Per tutta la vita e l’opera Benedetto Croce tenne l’idea di letteratura ben distinta dalla poesia; anzi, dei rapporti e delle interferenze tra poesia e letteratura fece una domanda costante, alla ricerca di una risposta che, subito intuita e praticata, tardava però a potersi racchiudere in una risolutiva formula teorica. La poesia si poteva definire a partire dall’intuizione lirica; con la letteratura si trattava di faccenda tutt’altra. Un’avventura dello spirito che ora Giuseppe Galasso ripercorre nelle successive fasi di avvicinamento e di schiarimento, introducendo, dopo averlo costruito attingendo dall’ampio, imponente arco degli scritti crociani, Poeti e scrittori d’Italia I. Dallo Stil novo al Barocco (Adelphi «Biblioteca», pp. LVI-519, euro 34,00). Un secondo volume andrà fino al Novecento, sfiorando quelle che Dionisotti chiamava «le modeste casette della meridionale Letteratura della nuova Italia» sorte tutt’intorno al «nobile castello della meridionale Storia del De Sanctis» (l’aggettivazione dava conto del punto di vista dal contesto torinese e del pregio degli immobili presi in esame, non d’altro).
All’opera di Croce Galasso ha notoriamente dedicato cospicui studi: storico e conoscitore di idee, libri e vicende crociane, del suo impegno di studioso testimonia, ancora una volta, un sostanziale volume, che seleziona pagine finora sparse, curato e organizzato per punti cardinali (storiografia ed estetica; etica e politica; interessi eruditi e aperture europee; contesti biografici) da Emma Giammattei per l’Istituto italiano per gli Studi storici e posto sotto il bel titolo di La memoria, la vita, i valori. Itinerari crociani (il Mulino, pp. 551, euro 60,00). Tale lunga consuetudine, vigile nel giudizio – la miglior tempra di consuetudine –, prova che, se c’era da rimettere mano a un’opera di Croce, la mano di Galasso era quella giusta.
La costruzione di Poeti e scrittori d’Italia, pur nuova, ha avuto tuttavia i suoi precedenti e un antecedente di riferimento. Riottoso di fronte alla possibilità di una storia della letteratura (inimmaginabile quella della poesia), Croce aveva escogitato la possibilità di erigerla lasciando che si susseguissero capitoli monografici interferenti, in maniera convergente ma non sovrapponibile al modello che fu De Sanctis (differente, oltre tutto, almeno per il controverso rapporto crociano con la letteratura contemporanea). La possibilità, dunque, di servirsi dei saggi e degli studi di Croce per costruire una storia della letteratura era stata messa in pratica due volte. Nel 1927 erano usciti i due volumi di Poeti e scrittori d’Italia, per le cure di Giovanni Castellano e Floriano Del Secolo, che ebbero l’imprimatur di Croce; mentre tra il 1956 e il 1960, dopo la scomparsa del Filosofo napoletano, erano apparsi i quattro volumi di La letteratura italiana per saggi storicamente disposti, curata da Mario Sansone e sorvegliata da Alda Croce. Galasso, nel costruire i due volumi attuali, ha fatto riferimento all’opera di Castellano e Del Secolo, fornendo al lettore i motivi in una limpida introduzione: argomentando come Poeti e scrittori d’Italia, congedata da Croce, vada considerata voce ufficiale della sua bibliografia, allo stesso modo in cui lo sono sia la scelta di scritti sulle arti figurative, sia la famosa antologia che andò a inaugurare, al tramonto del passaggio sulla terra, la letteratura italiana dell’editore Ricciardi: il capitale Filosofia Poesia Storia. Pagine tratte da tutte le opere a cura dell’Autore. Non solo il concetto di storia letteraria fu mobile nel pensiero di Croce, ma, in quel «sommo atleta della cultura», come lo definì Contini, sempre viva fu la riflessione riguardo l’opportunità di antologizzarsi, esposta al rischio di manomettere un pensiero che nella continuità della riflessione non voleva evidenziare fratture o punti sospesi. Ma alla fine Croce si convinse che l’immensità dell’opera avesse bisogno di un vascello agile al quale affidare la sopravvivenza memoriale della grande nave.
Si è accennato che il concetto di letteratura fu da Croce reso operativo ancor prima di riuscire a definirlo con contorni sicuri: pragmaticamente, si direbbe, fin dal Croce più antico, nel quale l’esposizione dell’opera letteraria si stringe serratamente con la valutazione e il giudizio, che fanno la critica quale è. In quella sua prosa sempre così risolta eppure inquieta, Croce riusciva a prendere e lasciare una serie di delimitazioni che col tempo maturarono, non senza ripensamenti e precisazioni, prima di tutto a lui stesso: un lato non secondario del suo magistero. Il terzo momento, dopo esposizione e giudizio, gli parve da subito il più complesso: come far stare insieme storia e letteratura e, soprattutto, come delineare il campo dove porre la storia della letteratura. L’opera di poesia sta nella storia e insieme la trascende, al punto che storia non potrebbe farsene, stante lo iato tra «considerazione storica» e «giudizio estetico dell’opera d’arte»: e la saldatura dei due momenti non cessò di sembrargli a rischio di elisione, anche parziale, dell’uno o dell’altro. Di qui, ad esempio, la problematica relativa alla questione dei generi letterari, ammissibile in storia ma non in estetica (mentre una società di professori, presso Vallardi, praticava proprio la storia dei generi letterari); o la valutazione storica di opere irrilevanti sul piano estetico e considerevoli su quello storico. Così, anche una storia letteraria costituita da una galleria di monografie lasciava insoddisfatti se non permetteva di scorgere le intime relazioni tra quei momenti monografici (cosa che al De Sanctis era riuscita, ma con altra impostazione di partenza e in ben altro clima culturale). Diretta derivazione, nella successione delle estetiche crociane, la questione ben fraintesa – e quanto vilipesa da parte avversa, tanto abusata e svilita da parte consentanea –: la questione, ovviamente, di poesia e non poesia dentro l’opera.
Partito da De Sanctis, Croce si vide costretto ad andare, per necessità, oltre la sua lezione. Quel che in De Sanctis era la strutturazione stessa della storia letteraria, parve a Croce un tratto non del tutto schiarito, per quanto ammirevole; e in La poesia (1936), scrisse: «se la poesia è la lingua materna del genere umano, la letteratura è la sua istitutrice nella civiltà». Perciò della letteratura si può fare storia, ma non della poesia. E dove vanno a finire quelle opere grandi che della letteratura (secondo la definizione comune) sono la sostanza? Come trattarne? Come sentirle secondo la storia, se di esse storia non si può fare? In La poesia aveva avvertito: «mi sono accorto, da tanto tempo che studio poesia e letteratura e adopero quella distinzione, di non aver mai fatto risoluzione di andarvi a fondo». Il libro del 1936 a quello doveva servire; ma ancora nel 1947 Croce titolò una conferenza La poesia, opera di verità; la letteratura, opera di civiltà. Intorno alla poesia si può esercitare analisi, scrutarne la genesi in maniera erudita, giudicare: ciò è l’unica forma possibile di una altrimenti impensabile «storia della poesia». E la sua storicità è particolarissima, ha origine e fine nell’opera stessa.
Intorno ai rapporti tra poesia e letteratura, in breve, Croce lasciò sempre il pensiero in corso, né smise di darne rendiconto: la qualità dei problemi che Croce ha posto sopravanza talvolta le stesse soluzioni, giacché la soluzione sta nella qualità stessa dell’impostazione. E forse la necessità di distinguere in cui consiste la critica non si dice abbia sfiorato, in lui, l’ansia di distinguere, ma si è mostrata via via come un rebus che è il marchio tipico del suo lavoro: l’avvicinamento a una verità sentita che non si raggiunge mai, che si sa esserci e che sembra giocare con le facoltà dell’uomo da cui è fatta e di cui è fatta. Un’operosità quotidiana e dinamica, assediata da miriadi di cautele che, a ben guardare, sono forme di distinzione. Perfino nel nome della sua celebre collana di classici stava solo la parola scrittori, non poeti: «Scrittori d’Italia», e senza apparati, perché la poesia poteva o doveva nascere dal contatto con le pagine, che altrimenti erano solo libri, documenti, letteratura. Si può immaginare che il rapporto sia simile a quello tra partitura ed esecuzione: dov’è la musica? Che cosa chiamiamo musica?
Nel riproporre oggi lo schema della Storia del 1927, Galasso ha tenuto presente l’intero svolgimento del pensiero crociano; e ciò giustifica i momenti (segnalati) in cui da quello schema ci si distacca; ma proprio per questo, il libro nuovo ha a che fare con quello antico al modo in cui un paesaggio visto prima e dopo un viaggio si vede in un altro modo, per l’incremento, in qualità e quantità, delle conoscenze intercorse. E infine dice che, forse, non era l’idea di poesia a rendere impossibile una storia della letteratura: a Croce tale storia non parve praticabile per difesa della sua stessa idea di poesia. Sarebbe stato come intaccare il valore della bellezza, anzi la bellezza in sé.


LE FECONDE INCOERENZE DI CROCE 
3 dic 2015  Corriere della Sera Di Mario Andrea Rigoni © RIPRODUZIONE RISERVATA 
Mi sembra che l’olimpica personalità di Benedetto Croce, la più alta e autorevole figura intellettuale e morale della prima metà del Novecento italiano, riservi a ben guardare non poche felici sorprese e contraddizioni. 
Croce definiva il proprio sistema uno «storicismo assoluto», avverso a ogni forma di trascendenza, ma riteneva che la poesia, per il suo carattere di intuizione lirica, sfuggisse totalmente alla trattazione storica. Rifiutava al Leopardi il rango di filosofo, ma non fece mai cenno (salvo per il concetto dell’essenza lirica della poesia) a un fatto clamoroso: come ebbi occasione di dimostrare in un saggio adesso compreso nel mio volume Il pensiero di Leopardi (Aragno, pp. 346, 20), quasi tutti i concetti fondamentali e tipici dell’estetica di Croce, quali l’autonomia dell’arte, la distinzione tra poesia e non poesia o, con formula attenuata, tra poesia e letteratura come nobile ma semplice prodotto della cultura e della civiltà, l’arbitrarietà della teoria classica dei generi e altri ancora, sono più che abbozzati nello Zibaldone di pensieri di Leopardi, con una sorprendente affinità o coincidenza non solo concettuale, ma perfino terminologica. Croce considerava il Barocco una perversione del gusto, ma esplorò, studiò e pubblicò opere di autori maggiori, minori e minimi di quel periodo come nessuno ha fatto né prima né dopo: fra l’altro tradusse e annotò le barocchissime fiabe del Cunto de li cunti di Giovan Battista Basile. In generale si riteneva, con molta modestia, inadatto alla critica letteraria, vista anche in posizione subordinata rispetto all’attività speculativa della quale la critica poteva essere tutt’al più un’esemplificazione, ma svolse in questo ambito un’attività di enorme vastità e impegno, lasciando saggi memorabili come quello dedicato all’Ariosto. 
Al progetto di riedizione delle opere di Croce intrapreso da Adelphi dopo un lungo e ingiustificato oblio editoriale e critico appartiene anche la ripresa di un’antologia dei Poeti e scrittori d’Italia apparsa per la prima volta nel 1927 nella Collezione scolastica di Laterza: essa non fu composta, ma fu conosciuta e approvata da Croce, acquisendo dunque tutti i crismi della legittimità. Non si tratta tuttavia di una semplice ristampa: grazie all’ amorosa acribia di un conoscitore della qualità di Giuseppe Galasso, la nuova edizione Adelphi, di cui esce adesso il primo volume, include risultati del cospicuo lavoro critico svolto da Croce dopo il 1927, come mostra una tavola comparativa della struttura delle due antologie opportunamente inserita nel volume Poeti e scrittori d’Italia. I: Dallo Stil novo al Barocco (pp. 519, 34). 
In questo primo volume (il secondo andrà dall’Arcadia al Novecento) si può già considerare quale contributo Croce abbia dato, se non a una storia letteraria in quel senso tradizionale che egli rifiutava, a una critica estetica che, come osserva Galasso nella sua puntualissima introduzione, non trascurò quasi nessuno dei periodi e degli autori della letteratura italiana. 
Notevole è anche il rinnovamento del giudizio critico: Croce sgombra il campo dalle tradizionali ricerche del dantismo professionale e inaugura un’interpretazione della Divina Commedia, discutibile quanto si vuole, ma sicuramente «moderna»; considera la letteratura devozionale e i libri sulle corti; rivaluta il petrarchismo come fenomeno di nobile civiltà, se non di alta poesia; evidenzia, contro le interpretazioni di un Machiavelli cinico e immoralista, l’«acre amarezza» soggiacente al suo realismo politico e insinua che la sua boccaccesca Mandragola abbia un fondo tragico; scrive pagine acute non solo sulla Gerusalemme liberata, ma anche sulle trascurate poesie di Campanella. Se già quarant’anni fa Natalino Sapegno osservava che «i giovani non leggono più Croce», sarebbe salutare che gli studenti, e naturalmente gli studiosi, ricominciassero a farlo anche per la lezione della sua prosa, oltre che delle sue idee.

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