domenica 25 ottobre 2015

Conversazioni con Brodskij: alle origini del fortunato mestiere di dissidente

Risultati immagini per Brodskij: ConversazioniIosif Brodskij: ConversazioniAdelphi pagg. 314, euro 20, traduzione di Matteo Campagnoli, a cura di Cynthia L. Haven

Risvolto
 Come nasce la poesia? Di quale misterioso lavoro è l'esito? E qual è il suo compito? Chiunque si sia posto, almeno una volta, domande del genere potrà finalmente trovare in queste interviste – che coprono l'intero arco della vita di Brodskij in esilio, dall'inizio degli anni Settanta fino a poche settimane prima della morte improvvisa, avvenuta a New York nel 1996 – risposte di un'audace limpidezza. Scoprirà così che la poesia è «uno straordinario acceleratore mentale», «lo scopo antropologico, o genetico» della nostra specie, e che non vi è strumento migliore per «mostrare alla gente la visione reale della scala delle cose». Scoprirà, poi, che quelli che ha sempre ritenuto imperscrutabili artifici tecnici – gli schemi metrici ad esempio – sono in realtà «formule magiche», «magneti spirituali», capaci di incidere profondamente sulla poesia, al punto che un contenuto moderno espresso secondo una forma fissa (un sonetto, per intenderci) può sconvolgere quanto «una macchina che sfreccia contromano in autostrada». Per di più Brodskij sa illuminare anche il lavoro dei poeti che amava – Auden, Frost, Kavafis, Mandel'štam, Achmatova, Cvetaeva, Miłosz, Herbert, per limitarci ai contemporanei – con una lucidità mai disgiunta da una vibrante partecipazione: «Non mi capita spesso di leggere qualcosa che mi dia una gioia così intensa come quella che mi dà Auden. È vera gioia, e con gioia non intendo un semplice piacere, perché la gioia è qualcosa di molto oscuro». Sicché queste conversazioni varranno anche come una guida alla migliore poesia: quell'«impresa estetica» capace di raffrenare la «nostra bestialità».

Stenio Solinas - il Giornale Sab, 24/10/2015

La terza voce di Brodskij
Il genere dell’intervista, oltre ai versi e ai saggi, è l’altra forma letteraria in cui il poeta si espresse. Nelle splendide «Conversazioni» spiega i pilastri della sua saggezza: l’estetica è madre dell’etica
Domenicale 25 10 2015
X : «Qual è la sua specialità?».
Brodskij: «Sono poeta. Poeta e traduttore».
X: «Chi ha stabilito che è un poeta? Chi l’ha inclusa nella categoria dei poeti?».
Brodskij: «Nessuno (in tono non provocatorio ). E chi mi ha incluso nel genere umano?».
X: «Lei ha studiato?».
Brodskij: «Che cosa?».
X: «Ha studiato per diventare poeta? Non ha neppure cercato di finire le superiori, dove preparano... dove insegnano...».
Brodskij: «Non pensavo... non credevo che la poesia venisse dall’istruzione».
X: «E da cosa, allora?».
Brodskij: «Penso che... (perplesso) che venga
da Dio...».
Cito dalla prima intervista di Iosif Brodskij. Risale al 18 febbraio 1964, quando il giudice popolare E. A. Savel’eva lo interrogò in un tribunale di Leningrado. Da quel processo e dalla successiva condanna (Anna Achmatova: «Che biografia stanno preparando per il nostro ragazzo dai capelli rossi! Neanche l’avesse commissionata») ebbero inizio gli eventi che consegnarono il poeta al mito: eroe del dissenso, reietto, ebreo errante, Ovidio, Odisseo che non farà ritorno a Itaca... La morte prematura (1996, a 56 anni) sigillò dolorosamente la leggenda cui il protagonista aveva sempre opposto una resistenza feroce.
Anche nelle interviste. Tutte quelle rilasciate nel corso della sua vita riempirebbero, probabilmente, quattro o cinque volumi. Le Conversazioni adelphiane presentano oggi in italiano, con due aggiunte, una scelta pubblicata (2002) negli Usa. Disposte in ordine cronologico, le interviste coprono un quarto di secolo, dal ’70 al ’95, l’età dell’esilio, del premio Nobel, della nomina a United States Poet Laureate .
Consanguineo a quello dei suoi magnifici essais , il genere dell’intervista costituisce la terza forma letteraria in cui Brodskij si espresse. Forma imposta inizialmente dalla cronaca, dall’interesse che subito destò nella società occidentale il fuggiasco (involontario) dall’Urss, così diverso dagli altri esuli nel rifiuto di atteggiarsi a martire, di esibire le proprie ferite: «L’identità del poeta dovrebbe essere costruita sulle strofe e non sulle catastrofi». Col tempo si riconobbe in lui il grande - aggettivo che non poteva essere pronunciato in sua presenza se a lui riferito - che «nel nero velluto della notte sovietica» (per nulla casuale citazione da Mandel’štam, il «figlio della civiltà» che occupa un posto altissimo nel pantheon di Brodskij) aveva restituito alla poesia russa il discorso metafisico, riportandola ad altezze vertiginose.
Con gentilezza, attenzione, perfino generosità, Brodskij rispondeva a chi - giornalisti, letterati, studiosi - voleva sapere di lui, della sua vita e della sua arte, del suo Paese. Soltanto una volta, con una compatriota (Conversazioni esclude le interviste rilasciate ai russi, e non è un male assoluto) si spazientì: «Dicono che siate una persona arrogante e inaccessibile, soprattutto con i vostri fratelli emigrati...». Brodskij (indispettito): «Sarà, eppure il mio telefono squilla come se lo avessero inventato ieri. Non so quante persone vedo al giorno. Chiudo la porta in faccia solo ai mascalzoni riconosciuti». Cento, mille volte, spiegò agli interlocutori i pilastri della sua audace saggezza: l’estetica è madre dell’etica, il linguaggio della poesia ha uno statuto metafisico, è la lingua a usare l’essere umano e non il contrario, rime e forme metriche sono cose giuste e nobili, maestre di disciplina, mentre il verso libero («libero da cosa?», e il tono della voce si faceva per un attimo aggressivo) è un indecente strip-tease che obbliga le poesie ad andare nude per il mondo. Spiegò che cosa fossero in Urss il Samizdat, una kommunalka , una clinica psichiatrica. Diede ragione delle proprie preferenze in poesia, prosa, musica, pittura, chiosò magistralmente l’opera dei poeti da lui più amati.
Per rispondere cento, mille volte a domande come «a che età ha cominciato a scrivere versi?», «qual è la funzione della poesia?», «cosa ricorda del processo?», «come era Anna Achmatova?» eccetera, è necessaria una grande pazienza. La pazienza di Giobbe, e non è solo un modus dicendi : sulle tracce dell’amatissimo Šestov, Brodskij abbandonò presto le lezioni del «professor publicus ordinarius Hegel» per dare ascolto al «filosofo privato Giobbe». Imparò la giustificazione per absurdum del dolore, che non è «violazione della regola», l’irrazionale giustificazione della sofferenza («soltanto la misura della perdita / rende i mortali pari a Dio» recita un verso del 1972)... Qui è necessario fermarsi: costringere Brodskij in una Anschauung univoca, definita e finita, fosse pure «la filosofia del disagio» da lui evocata a proposito di Marina Cvetaeva o quella «della sopportazione» in cui si riconosceva, sarebbe irrispettoso nei confronti di un pensiero erratico, inquieto (la sua aspra musica risuona più nitidamente che altrove nelle Conversazioni , con gli intervistatori, con la Musa, con se stesso), pronto a smentirsi di colpo come a raggelarsi in folgoranti paradossi.
Pronto anche a concedersi qualche gustosa mistificazione. Nel quarto libro delle Storie , lì dove descrive la Scizia, Erodoto parla di un’antica e misteriosa popolazione, i «Budini»: «Abitano una terra ricoperta interamente di alberi... tutti hanno occhi azzurri e capelli rossi». Brodskij aggiunse: «... e sono completamente sbalorditi dalla loro stessa lingua» («The Yowa Review»), inventando, regalandoci un autoritratto finalmente luminoso - i pochi sparsi nella sua poesia sono decentrati, obliqui, opachi -, quasi felice.
Velenosa quanto meritata fu invece la domanda-trabocchetto che rivolse al corrispondente di «Moskovskie novosti» Dmitrij Radiševskij, responsabile di un «colossale abbaglio»: «È vero - gli aveva chiesto - che la poesia fiorisce nei Paesi in cui più brutale è la repressione della libertà dello spirito?»... Parlando ormai d’altro, Brodskij gli chiese a sua volta: «Avete letto Šestov? No? Avete fatto male. Dovreste leggere Sulla bilancia dello sradicamento », contaminando i titoli di due celebri libri del filosofo russo, Sulla bilancia di Giobbe e Apoteosi dello sradicamento . L’intervistatore intervistato cadde nella trappola e nell’articolo riportò il falso titre-valise .
Finiti i tempi dell’orgoglio e dell’esaltazione, nella “nuova” Russia una per ora ristretta cerchia di snob neosovietici (tra loro molti suoi ex amici e ammiratori) oggi mette di nuovo sotto processo Brodskij, a volte riecheggiando - inconsciamente? - il Solženicyn che nel 1999 sentenziava: «?rionfo di una gelida razionalità... Ginnastica intellettualistica e retorica... Brodskij non ha mai toccato il vasto suolo russo... Quando viveva nel suo Paese non ha dato alcun solido giudizio politico, soltanto: “Non mi occupo del benessere altrui”» eccetera. Con il recentissimo Brodskij tra noi (Mosca, maggio 2015, in russo, arrivato alla quinta edizione) Ellendea Proffer Teasley - vedova di Carl Proffer, mentore-editore americano del poeta e suo carissimo amico - ha preteso di ricostruire «l’uomo in carne e ossa»: un inverosimile Brodskij «arrogante, villano, carrierista, scalatore sociale», spudorato millantatore nel raccontarsi agli intervistatori. «Come andare in estasi per il poeta che s’è scoperto essere un farabutto?», s’interrogano ora, esultanti, alcuni mediocri appassionati di antichi pettegolezzi. Così il mito di Brodskij si arricchisce di un’estrema ipostasi: Orfeo sbranato dai Pigmei.


«La prosa? Solo una forma di prostituzione» 
Per Brodskij l’estetica veniva prima dell’etica e la politica stava al livello più basso della vita spirituale Ma non per questo evitava opinioni forti: «La visione islamica dell’ordine universale va schiacciata» 8 nov 2015  Libero CLAUDIAGUALDANA 
Espulso dall’Unione Sovietica nel 1972, proprio come da scuola, a soli 15 anni. Espulso anche dalla banalità delle convenzioni sociali, delle regole del galateo letterario e politico, verrebbe da dire. Lui è Iosif Brodskij, nato a Pietroburgo nel 1940 e morto a New York nel 1996, uno deimassimi poeti del secondo Novecento. A nulla varrebbe mostrare la sua grandezza citando versi: meglio invitare a leggerli (l’opera completaè incorsodipubblicazione da Adelphi) in una sorta di religioso raccoglimento. Magaripreparandosicon laraccolta di interviste a cura di Cynthia L. Haven da poco uscita in libreria ( Conversazioni, Adelphi, pp. 314, euro 20), dalle quali si capisce innanzitutto che uomo era.
Poeta laureato, Nobel senza troppa convinzione («Penso chetusappia finoa chepuntoil premio Nobel dipenda dal caso e che importanzarelativa abbia»), ebreo piuttosto noncurante, voce eternamente fuori dal coro, Brodskij era un concentratodibrutale sincerità edi autonomia di pensiero. A noi italianidovrebbeessere particolarmente caro. Era russo fin nel midollo, infatti, ma con un occhio rivolto a Occidente e in particolare all’Italia, che considerava la culla della civiltà. Commuove quando dichiara diavereil sospettodi esserestato influenzato daMontale, perchénoneratipoda farsiinfluenzare da chicchessia, neanche da Auden, che pure apprezzava molto, anche come amico. Amavapoi profondamenteVenezia, come Ezra Pound, e come il poeta americano ha sceltodi esservi sepolto. Lehadedicato un libro, Fondamenta degli incurabili, che è un autentico capolavoro in prosa.
In Conversazioni confluisce un po’ di tutto. Uscita negli States nel 2002, l’antologia copre l’interoarcodella sua vita inesilio. Raccoglie interviste apparse su testate note e altre su rivistechiusedopopochianni, rendendo testimonianza di una memoria altrimentidestinata a disperdersi. Ma non si creda di essere alle prese con un libro di facile lettura. Brodskij era una bruttabestiada intervistare, nonostante la gentilezza e la semplicità che traspaiono da ogni suadichiarazione. C’erainnanzitutto da rispettare la pausa sigaretta: fumava come un matto, in barba ai problemi cardiaci che lo avrebbero portato a unamorte prematura.
Ciòcheglipremeva eralapoesia, l’assonanza tra i suoni, il ritmo, la musicalità, la classicità del verso spezzata da contenuti assolutamente nuovi. Per lui il linguaggio era tutto. E di lì non si lasciava schiodare tantofacilmente. Del resto, l’autore di Fuga da Bisanzio, vittima del sistema sovietico, disse che la politica è solo il primo gradino di una scalamolto più grande, «il livello più basso della vita spirituale». E che l’estetica viene prima dell’etica. Al tempodelpoliticamentecorretto, potremmo quasi definirle due bestemmie. Perciò fanno ancheunpo’ tenerezza igiornalisti che gli chiedono invano di parlare di sé, ottenendo silenzi odichiarazionisottocertiaspetti incredibili, per lanoncuranza che Brodskijmostrava nei confrontidellapropriatortuosabiografia: «Non mi piace parlarne (della prigionia, ndr). È come darsi delle arie. È roba melodrammatica». E ancora: «Mi hannomesso tre volte in galera e due volte in un ospedale psichiatrico, maquestonon ha influenzatominimamente lamia scrittura».
In Russia infatti era persona poco gradita fin da giovane. Nel1964 èprocessatoper vagabondaggio, corruzione di gioventù, distribuzionedi opere di autori proibiti, disoccupazione. Gli contestano «di essere un decadente e un modernista», ma la sua unica colpa è quella di scrivere. Nonostante tutto ciòBrodskijnon si lamenta, non trasforma il suo martirio in un altare di carta. È forse una caratteristica di chi è destinato a durare a lungo: pensare ai fondamenti e lasciar perdere il resto.
Se a ciò si aggiunge che per lui la prosa era «una forma di prostituzione», ammettendo di scrivere solo «per necessità», si ha il quadro di una personalità inattuale e scomoda. Guai a parlarglidi religione, che consideravaunaspetto intimodell’esistenza. Anchequi, pocheconcessioni al buonismo. Altroché accoglienza: «Penso che la visione musulmana dell’ordine universaledebbaessere schiacciata e annullata», proferiva candido nel 1989.


Un poeta, due lingue, molti mondi I viaggi della prima giovinezza, poi l’espulsione dall’Urss e la vita a New York: così raccontava Iosif Brodskij14 nov 2015  Corriere della Sera Di Pietro Citati © RIPRODUZIONE RISERVATA
Venne condannato per «parassitismo sociale» e imparò l’inglese da solo leggendo Auden Usava il russo per i versi mentre la lingua acquisita era l’agile strumento della prosa
Il tono delle Conversazioni di Josif Brodskij (a cura di Cynthia L.Haven, traduzione di Matteo Campagnoli, Adelphi) è incantevole. Mentre parlava con i suoi interlocutori a New York, Brodskij aveva con sé una borsa delle linee aeree americane, che gli dava l’aria di un eterno viaggiatore. La sua voce era piena e nasale: il suo inglese, sebbene eccellente, subiva la forte influenza della sintassi e della pronuncia russe. Scherzava molto: poi diventava serio: tornava a scherzare; ed evitava di precipitare sia nell’abisso dell’ironia sia in lunghi discorsi metafisici.
Non parlava volentieri di sé stesso né delle proprie poesie: «Non ne sono capace», diceva. Un’incertezza fondamentale lo dominava: non era certo della sua vera nascita, né del suo destino. Rimproverava al destino di non averlo fatto crescere insieme a Shakespeare, così da avere il suo stesso sangue. Avrebbe voluto che l’inglese fosse la sua lingua infantile, in modo da giungere direttamente alle liriche e ai drammi di Shakespeare, come se parlasse la loro stessa lingua.
Come tutti sanno, gli capitò invece di nascere (il 24 maggio 1940) a Pietroburgo, che allora si chiamava Leningrado. Pensava che fosse la più bella città della terra, con l’immenso fiume grigio sospeso sopra l’alveo remoto e l’immenso cielo grigio sospeso sopra il fiume. La sua bellezza nasceva dalla follia. Il mare in cui la città si specchiava era una specie di scorciatoia per l’infinito. Lì in esilio, a New York, ne sentiva acutamente la mancanza. Ma la sua vera patria era proprio Leningrado? O era, invece, Venezia? Venezia era un luogo così bello che poteva viverci anche senza essere innamorato. Se gli fosse stato possibile reincarnarsi, avrebbe voluto essere un gatto a Venezia: o prendere in affitto un appartamento al piano terreno di un palazzo, affacciato su un canale, e sedersi a scrivere, gettando dalla finestra i mozziconi delle sigarette per sentirle sfrigolare nell’acqua.
Brodskij parlava volentieri della sua prima giovinezza. A 16 anni aveva viaggiato molto, accompagnando una spedizione geologica: era il tempo in cui i russi cercavano dovunque l’uranio. Percorreva tre chilometri al giorno: nella regione di Irkutsk, a nord del fiume Amur, sul confine con la Cina: in Asia Centrale, nei deserti e sulle montagne del Tien Shan; e infine nel nord della Russia europea, vicino ad Archangel’sk e al Circolo polare artico, tra le zanzare.
Nel 1963 venne arrestato. L’anno dopo subì una condanna a cinque anni di confino per «parassitismo sociale»: secondo il giudice, non poteva essere uno scrittore in quanto non faceva parte dell’Unione degli scrittori sovietici; eppure scriveva, e quindi era un disoccupato e un parassita. Il suo processo assomigliò al processo di Norimberga, che aveva visto in televisione. Nel 1964, fu esiliato a Norensiskaja, vicino al Circolo polare artico: dove sopportò un duro lavoro agricolo, cercando di trasformare i disastri della sua vita in qualcosa di utile. Lì imparò l’inglese da solo, leggendo Auden e Eliot. A poco a poco riuscì a farsi strada nel testo, decifrando l’inglese con estrema attenzione, verso per verso: a vent’anni conosceva quasi tutta la poesia russa, e aveva bisogno di qualcosa di nuovo.
Scrisse dei versi, che mandò a un traduttore: quello gli rispose: «Le poesie che mi hai mandato assomigliano molto a quelle di Auden». Allora Brodskij lesse uno dei capolavori di Auden: In memoria di Yeats, e compose una poesia simile. In quel momento, aveva davanti agli occhi due lingue: il russo, in cui continuò a comporre le sue poesie; mentre l’inglese, che a poco a poco scriveva sempre più speditamente, era lo strumento agile e svelto della sua prosa. Questa molteplicità di lingue e di forme arricchì, ampliò, moltiplicò la sua mente, già per natura così mobile e sinuosa.
Come ripeteva a se stesso, l’inglese era, per lui, la lingua di Shakespeare e di Auden. La poesia di Auden non aveva l’eguale in tutta quella moderna in lingua inglese: Yeats ed Eliot erano più grezzi; Auden era molto più sublime di loro, per il semplice fatto che tutte le cose a cui gli altri aspiravano, lui le realizzava in modo molto obliquo — e l’obliquità era la cosa che Brodskij apprezzava di più nella poesia. Provava per lui qualcosa di simile a ciò che Stazio provava per Virgilio nel Purgatorio. Lo amava moltissimo. Auden era entrato dentro di lui; e lì occupava più spazio di quanto ne occupasse Brodskij medesimo.
Nel 1972 Brodskij venne espulso dall’Unione Sovietica, come «persona non gradita», e si lasciò per sempre dietro le spalle la Russia, che per lui coincideva con l’Europa. Per il resto della sua vita — 24 anni — abitò quasi sempre a New York. Quando arrivò negli Stati Uniti, aveva paura che, vivendo fuori dal proprio ambiente linguistico, la sua poesia avrebbe sofferto una specie di paralisi: temeva di perdere la propria identità. Invece, non accadde nulla di quanto temeva. La sua produzione poetica in russo fu molto prolifica, come la sua produzione prosastica nella nuova lingua.
Sebbene amasse New York, gli mancavano molte cose russe ed europee. Gli mancava una normale strada europea, fiancheggiata da vecchie case con le facciate in stili diversi, un tram affollato che passava, e la possibilità di fermarsi per strada, venti minuti o mezz’ora, a parlare di tutto e di nulla con una persona che forse non aveva mai conosciuto, come accadeva in Europa. A New York una strada serviva soltanto per andare da qualche altra parte. Brodskij avrebbe voluto che negli Stati Uniti le persone fossero più cordiali e vicine tra loro. «In Russia — diceva — la gente poteva passare da casa mia senza bisogno di chiamarmi e di avvisarmi prima. Bussavano alla porta. Aprivo e mi trovavo di fronte qualcuno che non mi aspettavo di vedere e che mi chiedeva: “Posso entrare?”. Era imprevedibile. La vita americana è prevedibile. Sai già cosa ti succede tra due ore. È questo rende la vita meno eccitante ed emozionante».
Amo le conversazioni di Brodskij soprattutto quando parlano, chiacchierano, cinguettano di letteratura. Allora una vastissima cultura e una intelligenza sottile, inquieta e robusta formano un’immensa ragnatela, nella quale restiamo avvolti come mosche o ragni. Parla di tutto: del Nuovo Testamento e dell’Antico Testamento, che egli preferisce perché è più crudele e violento: di Virgilio, Orazio, Properzio, Ovidio, Stazio, Dante: Mandel’štam, quest’uomo dalla sensibilità estremamente acuta, che «non possedeva una filosofia, ma soltanto nervi»: Marina Cvetaeva e Anna Achmatova; Kavafis, Robert Frost, Robert Lowell ed Eugenio Montale.
Brodskij è affascinato da questo supremo mistero: la poesia, che si scrive sempre per un alter ego. Essa riguarda più gli epiloghi che gli inizi: è moribonda e ci aiuta a morire: purifica la lingua: accelera i processi della mente: domina e modula il tempo: sintetizza una grande quantità di materiale razionale ed irrazionale: è lo strumento cognitivo più efficace; e lo scopo antropologico della razza umana. Mentre la prosa sparge i suoi semi nel mondo, la poesia, molto più rapida e concisa, li tiene rinchiusi nel proprio baccello. Lì dentro tutto può esplodere. Così il livello di incertezza, rischio e fallimento della poesia è estremamente più alto di quello della prosa. Ciò fa parte della sua grandezza.
Brodskij non ama il cosiddetto verso libero. Si sente più a suo agio se scrive secondo una organizzazione rigida. Gli schemi metrici non sono dei semplici artifici tecnici: sono entità spirituali, magneti spirituali, formule spirituali, simili a quelle che si svolgono nel processo di formazione dei cristalli. Quando Brodskij prende i liberi e vari contenuti moderni, e impone loro una forma metrica fissa, nasce una tensione perentoria, spesso una tragica contraddizione tra la materia e la forma.

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