mercoledì 21 ottobre 2015

"Diluvio di fuoco": la Guerra dell'oppio e l'inizio dell'epoca degli imperialismi nell'ultimo romanzo della trilogia di Amitav Ghosh


Amitav Ghosh: Diluvio di fuoco, Neri Pozza, trad. di Anna Nadotti e Norman Gobetti, pagg. 704, euro 19

Leggi anche qui

Risvolto
1839. Quando il governo di Pechino inasprisce i divieti per mettere fine al contrabbando di oppio, la tensione tra la Cina e la Gran Bretagna si fa insostenibile e scoppia la guerra.
Con il conflitto alle porte il soldato indiano Kesri Singh non ha dubbi: abbandonerà l’esercito delle Indie orientali per guidare fino a Canton un battaglione di volontari che lotterà fedelmente a fianco dell’Impero Britannico contro i cinesi. Con un po’ di fortuna, potrà mostrare a tutti il proprio valore.

Ancora Kesri non sa che il destino ha in serbo per lui un avventuroso viaggio su una nave, la Hind, in compagnia di Zachary Reid, un giovane marinaio in miseria che sta cercando l’amata Paulette, di Mr. Mee, ufficiale dell’Impero Britannico, e di Shireen Modi, vedova di un mercante partito da Bombay alla volta di Canton con un carico di oppio e mai più tornato.
E mentre i cinesi assumono tra le loro fila tre lascari, i leggendari marinai musulmani, per imparare i segreti dell’arte della navigazione che consentirebbe loro di colmare il divario tecnologico con le navi occidentali, il «raja» Neel, sfuggito alle catene, cerca di ricostruirsi una vita prima come stampatore e poi come consigliere del Commissario cinese Lin.
Tra battaglie, amori inaspettati e dimostrazioni di coraggio e fedeltà, la guerra si avvia a una svolta decisiva sotto la guida del capitano della Marina inglese Charles Elliot, che ha un piano per costringere la Cina ad arrendersi e a cedere all’Inghilterra il possesso di Hong Kong.
Ultima parte della «trilogia dell’Ibis» dedicata alla nascita dell’India moderna (iniziata con Mare di papaveri e proseguita con Il fiume dell’oppio), Diluvio di fuoco è un romanzo senza precedenti. Solo uno scrittore dell’intelligenza di Amitav Ghosh poteva immaginare di scrivere un romanzo ambientato nell’Ottocento per mandare un messaggio di libertà, di progresso e di tolleranza così attuale.


“Dalla guerra dell’oppio è nata la crisi globale” 

Parla lo scrittore Amitav Ghosh. Esce l’ultimo volume della trilogia dove racconta il conflitto anglo-cinese simile agli scontri commerciali di oggi

SUSANNA NIRENSTEIN Repubblica 21 10 2015
Leggere “Diluvio di fuoco” di Amitav Ghosh, il capitolo finale della grandiosa trilogia iniziata con “Un mare di papaveri” e proseguita con “Il fiume dell’oppio” — per non parlare dei tanti romanzi scritti in precedenza — , significa vivere tra mercanti e fumatori d’oppio ottocenteschi, raja caduti in disgrazia, eserciti composti da indiani/sepoy orgogliosamente agli ordini di sua Maestà e londinesi dal piglio aristocratico, lascari islamici, cinesi armati di frecce e giunche dai cannoni approssimativi. Significa vedere eserciti che assomigliano a parate dai mille colori, seguiti da portatori d’acqua, approvvigionatori di alimenti, elefanti e donne del bazar, vuol dire passare per mare da Calcutta a Singapore e Hong Kong, e risalire il Fiume delle

Perle fino a Canton. Assistere a vittorie e sconfitte, mentre intorno risuonano mille lingue. E in mezzo a questo grande spettacolo ritrovare i fili rossi di personaggi che già conoscevamo, e ora intessono nuovi amori, rancori, muoiono, fanno progetti, si perdono, si rincontrano. Che meraviglia. È un affresco in movimento, un film, con i suoi primi piani e le sue vedute d’insieme, lungo 700 pagine, che ha alla base un lavoro di ricerca sconfinato.

Il cuore della storia è la Prima Guerra dell’Oppio, e inizia nel 1839, quando la Cina inasprisce il divieto di commercio dell’oppio che la Gran Bretagna sta portando in quantità dall’India. La tensione è all’apice, Londra e mercanti di mille nazionalità hanno troppi interessi in ballo, l’Imperatore cinese invece vuole tenere duro anche se il divario tecnologico tra l’esercito britannico e quello cinese è drammatico.
Mr. Ghosh, davvero la trilogia non avrà un seguito? Perché si è fermato qui?
«No, ho finito. Anche se non credo che i protagonisti se ne andranno facilmente, fanno ancora parte della mia vita. Poi in futuro si vedrà».
Si ricorda come iniziò questo romanzo monumentale?
«Certo che mi ricordo. Era sei mesi che scrivevo, e capii che volevo creare una storia multigenerazionale: sarebbe dovuta finire all’inizio del ‘900. Invece ho lavorato 11 anni su 1600 pagine e il tempo del racconto copre solo 48 mesi. Dovevo fermarmi».
In questo romanzo siamo molto spesso in Cina. Perché la Guerra dell’Oppio è così importante per lei?
«Non per me, ma per il mondo com’è oggi, era in gioco la fondazione dell’economia globale moderna, una guerra in nome del libero commercio dette inizio a un certo tipo di imperialismo. Ho cominciato il libro nel 2004, subito dopo la guerra in Iraq e ho capito che c’erano tante incredibili somiglianze: nell’Ottocento gli inglesi dicevano che sarebbero stati accolti a braccia aperte dai cinesi in nome della libertà e della fine dei tiranni manchu, così come l’America del terzo millennio diceva avrebbero fatto gli iracheni felici di abbattere Saddam e la sua dittatura. All’inizio non sapevo che avrei trovato questi parallelismi, volevo solo scrivere dei lavoratori indiani che si muovevano per mare. Poi toccando la Cina cambiò tutto ».
Lei pensa che i britannici furono per l’India solo dei conquistatori brutali?
«Non si può rispondere a questa domanda, è come se lei chiedesse a un nativo americano se l’arrivo di Colombo significò anche qualcosa di buono per loro».
Pure il libero commercio è nel suo mirino, è il simbolo dell’imperialismo. Ma lei crede che ci fossero, che ci siano, altre possibilità per raggiungere qualsiasi tipo di sviluppo?
«Il libero commercio valeva solo per gli occidentali. La Cina e l’India commerciavano già da tempo, la prima controllava il 24% del mercato mondiale, la seconda il 2%. I britannici riuscirono a distruggere l’industria locale. Era un imperialismo di puro sfruttamento. Che immetteva droga. Non aveva niente a che fare col progresso. Non a caso, dopo che l’India è diventata indipendente si è ripresa economicamente ».
I suoi romanzi sono una cascata di storie, avventure, battaglie, amori, come il grande romanzo, o il feuilletton ottocentesco: da dove vengono?
«Non riesco a spiegarlo, mentre sono seduto a scrivere arrivano le idee. Faccio la doccia e mi si accende una lampadina, soprattutto sogno a occhi aperti, lascio andare il pensiero, l’immaginazione, anche se con l’età è più difficile non porre freni alla mente, essere leggero, un po’ pazzo».
Scrive a mano, credo.
«Sì, al computer davvero non potrei. Lavorare con la penna aiuta per la sua lentezza, la tattilità, è come se le idee potessero spingere su qualcosa di concreto e prendere forma».
Mi potrebbe spiegare cosa c’è in comune tra uno storyteller come lei e un moderno scrittore introspettivo, che so, Philip Roth?
«Ha ragione, non abbiamo niente in comune, né io con lui, né io — e molti altri indiani o asiatici — con tutta la letteratura anglosassone moderna rivolta solo all’interiorità. Facciamo due lavori diversi, mi sento molto più vicino a Melville o a Zola. Il mio impegno è quello di concettualizzare, concepire la collettività, le relazioni tra le persone. E poi i miei libri non guardano solo all’umanità, il rapporto con la natura è molto presente, come in Melville appunto. In questo periodo ad esempio mi interrogo molto sui cambiamenti del clima, lo avverto come un problema fondamentale ». Quante lingue sa, a quanti paesi appartiene? Un suo personaggio dice che le idee, i linguaggi rendono più soli, perché distruggono ogni appartenenza istintiva. È così che
si sente?
«Per niente, più vedo il mondo più mi sento indiano. Anche se conosco il bengali, l’hindi, l’inglese e parlo un po’ di francese e arabo».
Nella sua trilogia ci troviamo in mezzo a mille voci: è come entrare in un coro. Come ha concepito questa babele?
«Volevo dare al lettore questo spazio diverso, creare una trama sonora, linguisticamente eterogenea. So che molti avvertono una sorta di disorientamento. Ed è vero, ma non è necessario capire le parole. L’importante è sentirle».
©RIPRODUZIONE RISERVATA

“Ho iniziato il libro dopo la caduta di Saddam e mi sono apparse incredibili somiglianze”

«La prima guerra dell’oppio spiega la nascita dell’Asia»
Lo scrittore indiano presenta l’ultima parte della «Trilogia della Ibis»: inglesi, cinesi emusulmani in lotta nel nome del libero commercio


24 ott 2015 Libero PAOLO BIANCHI
Amitav Ghosh, 59 anni, è tra gli scrittoriangloindianipiùfamosi al mondo. È reduce dalla pubblicazione del terzo romanzo di una trilogia, chiamata «della Ibis», dal nome di una nave che, nell’India coloniale, dal 1839 al 1842 trasportava oppio indiano verso la Cina. Il libro in questione s’intitola Diluvio di fuoco ed è pubblicato in Italia, come i due precedenti ( Mare di papaveri e Il fiume dell’oppio), da Neri Pozza ( pp. 704, euro 18,50, traduzione diAnnaNadottieNormanGobetti). Abbiamo intercettato l’autore a Milano, dove è di passaggio e incontrerà il pubblico domani alle 17,30 al teatro Franco Parenti, nell’ambitodella rassegna letterariaBookcity.
Tre libri per un totale di 1.600 pagine. Se lo era proposto fin dall’inizio?
«No, dieci anni fa, quando ho cominciato, nonavevo considerato che la trilogia avrebbe assunto tali proporzioni».
Non pensa che una simile mole possa spaventare i lettori?
«È possibile, ma essendo stato in questo tunnelper tanto tempo, nonme ne sono curato. Perme il piacere della lettura consiste nell’entrare in unmondo».
Ha lavorato su un archivio ricchissimo. Ha intenzione di sfruttarlo ancora?
«La vicenda si svolge nell’arco di soli tre anni. Però no, non ho intenzione di continuare».
Perché questa precisa datazione storica?
«È un momento cruciale nella storia delmondo. Nonmeno importantedellaRivoluzione francese, anche se è visto in un’ottica non eurocentrica. La prima guerra dell’oppio ha gettato le fondamenta dell’Asia che conosciamo adesso. La prima guerra combattuta in nome del libero commercio, dai seguaci diAdam Smith».
I personaggi sono relativamentepochi. Tra ipiù divertentiMrs. Burnham, un’inglese colonialista, e Zachary, un giovane marinaio inglese che ne diviene l’amante... La signora parla una lingua buffissima...
«Lei appare già nel primo libro. Gli europei che vivevano in Asia non parlavano una lingua standard. Sappiamo che gli inglesi che vivevano in India parlavano un linguaggio che non era più compreso nel Paese d’origine. Lo stesso valeva per gli olandesi a Giava. Ho cercato di riprodurre il senso di quella linguamista».
Zachary capisce Mrs. Burnham?

«No. Ècostantemente interdetto».
L’influenza coloniale si avverte ancoranei rapporti fra India e Cina?
«Sì. Per esempio i soldati indiani venivano utilizzati per sedare le rivolte cinesi, il che è durato fino alXX secolo».
Il tema del postcolonialismo è ancora dibattuto in India?
«Sì, ma se ne parla come siparla della storia, non come qualcosa di vivo e presente».
Perché i cinesinon coltivavano l’oppio, ma compravano quello che era prodotto in India e commerciato dagli inglesi?
«Andava così perché nel XVII e XVIII secolo gli inglesiavevano cominciato a consumare grandi quantitàdi tè, cheprovenivadalla Cina. Lo pagavano con l’argento, che a poco poco andò esaurito. Allora la Compagnia delle Indie Orientali si dedicò alla coltivazione dell’oppio in India perché i cinesiavevano cominciato aimportare dagli indiani farmaci oppiacei. Dal 1780 al 1820 la coltivazione aumentò di cento volte. Uno tsunami di oppio. I cinesi si trovarono di fronte a un’emergenza di salutepubblica. Ilcommerciodell’oppio fu vietato, perciò non era coltivato in Cina, anche se continuò a entrare di contrabbando, finché gli inglesi imposero allaCinadicontinuare a comprarlo. Dopo la seconda Guerra dell’oppio la coltivazione iniziò anche in Cina, nella regione dello Yunnan».
Sotto gli inglesi le diverse religioni convivevanopacificamente. Che cosa è successo dopo, fra indù emusulmani?
«Sotto il regime coloniale britannico in realtà è stata creata quest’idea della separazione. Sono stati messi addirittura gli uni contro gli altri, basti pensare che gli inglesi avevano costituito una struttura elettorale inbase a circoscrizioni musulmane e indù. Il che ha provocato conseguenze quando è stata fatta la partizione e imusulmani sono statimandati viatutti. Nell’Indiadioggi imusulmani non hanno vita facile. Si sono registratidiversidisordini civili negli ultimi 70 anni. L’India dopo l’indipendenza ha sempre avuto una costituzione laica, il che ha aiutato a tenere tutto sotto lo stesso ombrello. Ma con l’attuale governo a maggioranza induista la sensazione crescente è che leminoranze sianominacciate».
Secondo diversi economisti, il futuro delmondo si gioca fra Cina e India, per via della spartizione delle risorse. Lei è spaventato da questo?
«La questione delle risorse riguarda tutti i Paesi. Siamo a un punto per cui le risorse si stanno esaurendo, ma più a causa del mondo occidentale. Le emissioni pro capite di indiani e cinesi sono poca cosa rispettoaquellediamericani e europei. L’obiettivo della primaGuerra dell’oppio era stato appunto quello di convertire l’interomondo a unmodello di consumo molto elevato, e duecento anni dopo possiamo dire che ce l’abbiamo fatta».
Insegna ancora, nonostante l’impegno della scrittura? E dove vive?

«Non ho piùinsegnatonegliultimi anni. Divido ilmio tempo fra gli Usa e Goa. Un posto pieno di italiani».


Un diluvio di violenza per gli amanti dell’oppio
Si chiude la trilogia sulla nascita dell’India moderna: alla vigilia della guerra anglo-cinese del 1841 per il traffico della droga
Diluvio di fuoco conclude la straripante trilogia di Amitav Ghosh iniziata con Mare di papaveri  e continuata con Il fiume dell’oppio, ma può essere letto indipendemente dai romanzi precedenti. Il titolo allude alla deflagrazione verso cui la Storia, non dico la storia, tendeva, travolgendo il destino dei vari personaggi: vale a dire lo scatenarsi, nel 1841, della cosiddetta prima guerra dell’oppio, freddamente voluta e cinicamente condotta dall’impero britannico per proteggere, anzi imporre, il da esso controllato commercio della droga nel Celeste Impero.
Dagli inglesi basati in India la Cina importava quantitativi sempre maggiori del ricavato dalla cultura del papavero, e i consumatori abituali erano più del dieci per cento della popolazione attiva. Quando dalla remota Pechino l’imperatore decise di proteggere i suoi sudditi mettendo fuori legge il commercio, imponendo sanzioni e facendo sequestrare carichi, i trafficanti riuscirono a suscitare nell’opinione pubblica in Inghilterra un tale sdegno da far inviare una flotta a protezione dei loro interessi; e, rifiutatisi i plenipotenziari dell’imperatore di ascoltare ragione, annientarono con poco sforzo ma con orribili stragi le antiquate ancorché popolosissime difese cinesi.
Ottennero così concessioni umilianti, tra le quali l’uso di vari porti e il possesso perpetuo dell’isola di Hong Kong dove impiantare una base franca per il commercio, ora illimitato, del narcotico. Il conflitto è il culmine nonché il grande pezzo di bravura della narrazione - bravura fondata su documenti e ricerche affascinanti - visto com’è dalla prospettiva di una parte minoritaria del corpo di spedizione britannico, ossia da un reparto di volontari sepoy del Bengala: soldati di professione sfruttati dai colonialisti addirittura con crudeltà (addestramento feroce, paga irrisoria, subordinazione totale agli ufficiali inglesi, punizioni efferate, condizioni di vita disumane).
In quegli scontri cruenti si riuniscono e culminano i casi di quattro personaggi principali, che hanno in comune qualche precedente contatto con la «Ibis», il vascello diretto a Mauritius al centro del primo libro della saga. Questi personaggi sono Kesri, militare di carriera nei sepoy; Zachary, giovane carpentiere, già secondo di bordo della «Ibis», americano con un segreto, che si trova a ripartire da zero in un ambiente ostile; Shireen, vedova parsi di un commerciante defunto che ha perso tutto col bando cinese all’importazione dell’oppio; e Neel, rajah decaduto e ricercato, che vive in incognito presso i cinesi di cui è diventato spia e traduttore.
Neel tiene un diario che ci dà intermittentemente notizie sugli sviluppi della situazione in Cina, dove i funzionari terrorizzati non osano riferire all’imperatore la portata della minaccia britannica e anzi descrivono le sconfitte come vittorie. Zachary da ingenuo e sprovveduto viene preso a lavorare dalla trascurata moglie angloindiana di un grosso trafficante, che ostentando di volerlo redimere se lo porta a letto e indirettamente lo incoraggia a diventare un predatore spietato. Kesri combatte valorosamente la guerra dei suoi padroni, ma coinvolto nel massacro di gente che dopotutto difende la sua terra finisce per porsi delle domande. Shireen si emancipa dalla condizione di totale sottomissione imposta a una donna della sua casta e impugna il proprio destino.
Tutte e quattro queste parabole, nessuna delle quali si conclude veramente, sono arricchite da episodi e personaggi collaterali, e da una impareggiabile ricchezza di particolari con usanze, costumi, tabù, pregiudizi, di una moltitudine di civiltà ciascuna delle quali, osservata da fuori, ha le sue magagne; in una babele linguistica di cui la traduzione italiana riesce bravamente a dare una plausibile idea.


I dannati dell’oppio al soldo della regina 
Narrativa indiana . «Diluvio di fuoco» di Amitav Ghosh chiude la «Ibis Trilogy», una indagine romanzesca sulle zone di contatto e di complicità che le guerre ottocentesche svilupparono tra società asiatiche e europee Elena Spandri Manifesto 20.12.2015, 6:00
Dispiegando un enciclopedico apparato di conoscenze storiche e militari, e una polifonia di linguaggi tecnici e gergali straordinariamente ricca e suggestiva, lo scrittore più popolare della diaspora indiana porta a termine l’ambizioso progetto di raccontare l’impero britannico all’apice della sua potenza, ripercorrendo l’intera filiera del commercio dell’oppio – dal produttore al consumatore – fino all’esplosione del conflitto tra Inghilterra e Cina che portò alla resa dei cinesi e alla sigla del farsesco accordo di Nanchino il 29 agosto del 1842. A sette anni dalla pubblicazione di Mare di Papaveri e a quattro anni da quella del Fiume dell’oppio, a chiudere il cerchio delle peregrinazioni della nave negriera Ibis lungo le rotte commerciali dell’impero britannico in Asia esce ora in Italia, di Amitav Ghosh, Diluvio di fuoco nell’incisiva traduzione di Anna Nadotti e Norman Gobetti (Neri Pozza, pp. 703, euro 18,50).
I primi due romanzi della trilogia immergevano i lettori nelle esalazioni delle melmose fabbriche d’oppio delle pianure indostaniche, per trasportarli, quindi, da Bombay a Macao a bordo delle modernissime navi destinate al contrabbando della mercanzia più nociva e redditizia del diciannovesimo secolo. Diluvio di fuoco conclude l’imponente ricostruzione della prima Guerra dell’Oppio, gettando i lettori nella mischia dei violenti combattimenti nei quali, nell’estate del 1841, si fronteggiarono l’abborracciato esercito del Celeste Impero e le supertecnologiche truppe indiane al soldo della famigerata East India Company.
Una guerra generata dalla perversa combinazione di spietato cinismo unito a un’idea messianica del colonialismo europeo e glorificata, dagli inglesi, così come da tutti i sostenitori della superiorità occidentale, come il «trionfo della civiltà moderna, un esempio perfetto di come la disciplina e la ragione potevano conquistare continenti di tenebra». Benché l’attacco all’imperialismo condotto in Diluvio di fuoco sia ancora più esplicito e serrato rispetto a quello espresso nei romanzi precedenti, lo sguardo sulla storia non è, tuttavia, moralistico né meramente intimistico.
Ghosh racconta le drammatiche vicende di personaggi vecchi e nuovi con il tocco leggero dell’autore di feuilleton e, insieme, con la libertà intellettuale del romanziere che non ha più bisogno di esorcizzare la memoria coloniale derealizzandola attraverso il pastiche, lo straniamento parodico o il realismo magico – alla maniera di Salman Rushdie e, ancora prima, di Forster e Conrad – e di quella memoria si riappropria senza complessi, poiché la percepisce come parte integrante della genealogia cruenta, diasporica e plurale del mondo in cui vive.
Ecco perché, dopo aver affrontato le migrazioni dei contadini affamati dalla coltura del papavero imposta dagli inglesi, e le scelleratezze dei contrabbandieri di Fanqui Town (il distretto di Canton riservato agli stranieri), Ghosh vuole arrivare fino ai gangli dell’economia imperiale e declinare la mitologia provvidenzialistica associata all’espansione del capitalismo attraverso trame sempre più intriganti e inconsuete. È così che, in Diluvio di fuoco, ritroviamo Zachary Reid, il marinaio mulatto di Baltimora che era rimasto coinvolto nella morte del capitano della Ibis in Mare di papaveri, trasformato in rampante imprenditore dalla passione per la moglie dell’industriale inglese che è tra i maggiori sostenitori della guerra, e redento da «Onania, o l’abietto peccato della profanazione di sé» grazie a massicce dosi di amplessi adulterini. E torniamo a inseguire le peripezie di Neel Halder, il dotto raja imprigionato per debiti, riapparso nei panni del segretario di Bahram Modi (il mercante parsi rivale degli inglesi, protagonista del Fiume dell’oppio), ora passato alle file nemiche al servizio dell’illuminato commissario Lin.
Inoltre, assistiamo alla metamorfosi di Shireen Modi da zelante adepta della purdah a impavida viaggiatrice, determinata a far valere i diritti di risarcimento del marito (cui i cinesi hanno sequestrato ingenti carichi di droga), ucciso da una vita di compromessi con gli invasori britannici e con la propria coscienza. Ma, soprattutto, rientriamo nel cuore della sventurata famiglia Singh attraverso il personaggio di Kesri, il nobile ufficiale della East India Company, fratello di Deeti (la protagonista di Mare di papaveri), espulso dagli alti ranghi militari a causa del disonore caduto sulla sorella per essersi sottratta alla sati e essere fuggita con un carrettiere di infima casta, e spedito a massacrare cinesi sfibrati dall’oppio che fanno sentire i «soldati di mestiere» niente più che «assassini prezzolati».
A Ghosh la macrostoria interessa anzitutto come palcoscenico di microstorie: è l’interesse per le condizioni di vita delle persone a metterne in moto l’immaginazione. La trilogia della Ibis rappresenta il progetto più coraggioso fra quelli scaturiti dalla sua invincibile «attrazione per la gente che vive ai margini, in India e nel mondo, per le figure oscure e sconfitte, per le persone che riescono a preservare una qualche forma di vita dalla devastazione», come ha detto in una intervista recente. E se la storia è anzitutto intreccio di vite e di contingenze, il lavoro del romanziere diventa, per usare le parole di Ralph Ellison, un sistematico «esperimento di umanità comparata», sostenuto da un’idea di letteratura-mondo capace – ha detto lo stesso Ghosh – di «dare corpo a differenze tra luoghi e culture, emozioni e aspirazioni, in modo da rendere tali differenze comunicabili».
Non si apprezza a pieno l’orizzonte di senso disegnato da questa trilogia, se non se ne coglie il nucleo di profonda e tempestiva attualità. Un’attualità che si manifesta nel superamento della vocazione alterizzante e reattiva, espressa da tanta letteratura postcoloniale, a favore di una politica del romanzo diretta a esplorare quelle zone di contatto, di continuità e di complicità tra le società asiatiche e le società europee ottocentesche dalle quali, nel bene e nel male, discende la fisionomia globale del nostro mondo. Nelle mani di Ghosh l’impero britannico si staglia al cospetto del lettore come un grandioso dispositivo disciplinante – e modernizzante – che è innegabilmente apparentato con il Grande Gioco di kiplinghiana memoria, ma che da esso si discosta nel rifiuto incondizionato di reificarne le vittime.
Da questo rifiuto deriva l’importanza di concludere l’epica ricostruzione ‘dal basso’ del raj, raccontando la Guerra dell’Oppio senza falsi pudori e in tutta la sua feroce e spettacolare materialità, da un lato come una perversione del capitalismo occidentale e, dall’altro come un potentissimo catalizzatore di energie creative, capace di amalgamare persone di origini e condizioni radicalmente diverse in nome di un comune diritto al progresso economico e alla libertà di pensiero, santificato congiuntamente dal Dio dei cristiani, dalla regina Vittoria e dalle innumerevoli divinità del pantheon indù.
Nel 2001 Amitav Ghosh ha rifiutato il Commonwealth Prize, in polemica con le politiche neocolonialiste del governo britannico e con la «tendenza costante», all’interno del mondo anglofono, «a ripulire il passato, innanzitutto nella lingua». Parallelamente, ha sostenuto l’importanza della lingua e della cultura inglesi nella formazione della trama profonda, sintattica, del bengalese moderno (sua lingua materna) e della società indiana nel suo complesso. Raccontare la storia dell’altro impero, come ha fatto nella Ibis Trilogy con gli strumenti espressivi propri del grande artista, non è un’operazione revanchista né un progetto commemorativo, bensì una tappa ineludibile del percorso verso una giustizia poetica guadagnata alla illuministica unilateralità della coscienza occidentale.

Nessun commento: